di Giuseppe Bivona
“Lu pani si chiama pani” Recitava
Ignazio Buttitta in una delle prime raccolte di poesie, con il suo
inconfondibile accento “baarioto” .
“ Ma oggi, caro Ignazio, a distanza
di mezzo secolo, il nostro pane quotidiano possiamo ancora chiamarlo “pani” ?
No! Neanche la “fame” di pane ci è
rimasta, ovvero“u pitittu” : appannaggio
esclusivo, un triste privilegio dei
popoli del terzo mondo. Noi invece
satolli di ogni ben di Dio, fino
a star male, soffriamo altre “fami” artificiali e superflui ,per via dei tanti
surrogati , dei bisogni indotti e sapientemente
congegnati ad arte da una diabolica pubblicità.
Eppure sembra il pane di sempre, gli
ingredienti sono identici : farina ,acqua, sale e lievito, una formula che ha
sfamato intere generazioni, la base di sostentamento della nostra cultura
alimentare mediterranea.
Qui, per secoli il frumento ebbe le cure più attente, al
limite della “sacralità” Cerere era la dea delle messi. Il “ciclo” del grano
rimase immutato come si conviene ad un rituale magico:
dalle selezione delle sementi ,alla
cure colturali ,dalla molitura ,alla
panificazione
.Oggi invece la “dissacrazione” non
ha risparmiato neanche una fase del suo
ciclo. tutto è stato stravolto ,rimosso ,snaturato…
Il terreno che ospita il grano non
rispetta più le rotazioni agrarie o le successioni colturali, per anni seguiva
obbligatoriamente una coltura “miglioratrice”: dalla fava alla sulla .L’aratro
a chiodo “feriva” leggermente la terra , appena quel tanto quanto ,necessitasse
ad accogliere il seme. Per madre natura
questa era un piccolo , innocente
graffio: non era difficile risanarlo.
Oggi l’arroganza mercantile obbliga ad
insistere con il ringrano per diversi anni , sventrando la terra
alterandone il profilo e ricorrendo a concimazioni artificiali e per
controllare le erbe infestanti usa il diserbo chimico
Le cultivar di oggi, sembrano derivare
da un genitore “alieno” . Il suo capostipite fu il Creso . nato in
provetta,in un laboratorio , in un centro nucleare. Una mutagenesi indotta
usando il cobalto radioattivo su un frumento che aveva il difetto di essere
…alto, cosi come altisonante il suo nome:”Senato Cappelli”.
Bisognava abbassare la taglia ,
questi vecchi grani “spilungoni”, sono solo buoni per fare paglia,e poi non
reggono le laute concimazioni azotate, allettano , si accasciano sotto il peso
della spiga!
Cosi il salnitro, che durante le
guerre fu prodotto dalle industrie chimiche per massacrare figli di mamme ,ora
diviene nitrato e con il suo mortale
candore,”lussureggia” le piante , ma ahimè,
stermina la fora batterica che albergava
da millenni nei nostri suoli agrari.
Ora ci assale un dubbio : e se
la modificazione genetica degli odierni grani fosse correlata alla modificazione di una importante proteina, la gliadina ?
Ebbene dalla digestione peptica-triptica deriva un prodotto intermedio (“
frazione III di Frazer” ) una sostanza che ha dimostrato di poter provocare l’enteropatia infiammatoria e quindi il
malassorbimento ovvero intolleranza al
glutine e allergie varie!
Tutto ciò accade sotto i nostri occhi
, con l’ incosciente ilarità di una generazione di “ cosiddetti “ agronomi :
ottusi ,miopi funzionari di un “Apparato ” che forniva loro una particolare
attrezzatura : i paraocchi , solitamente
in dotazione agli asini, addetti al sollevamento dell’acqua nelle
vecchie norie!
Oggi dal grano sembrano ricavarsi
solo due prodotti: amido e glutine. Quest’ultimo subisce una improvvisa
impennata dal 10% passa al !8% come i
grani canadesi , la Manitoba, che come le gomme da masticare , si elasticizzano ,permettendo di ottenere
prodotti al massimo della
lievitazione ,
come dire : panettoni, panforti colombe….
…
Un tempo il grano proveniente dall’aia veniva conservato nei “cannizzi”, singolari strutture fatte con
“ mezze “canne intrecciate , a mo di un cilindro di circa 1- 1’5 metri di diametro e una altezza di 3- 3.5 metri ..
Le cariossidi “respiravano”,
l’embrione era sempre vivo qualunque
fosse la sua destinazione .
Che strano prodotto questo grano!
Era nello stesso tempo “
produzione “ e “mezzo di produzione” ovvero il contadino dal suo grano traeva
sostentamento alimentare e una quota parte la destinava alla semina(
riproduzione). Una anomalia
intollerabile per il nuovo ordine economico , la confusione di ruoli era
inaccettabile in una realtà dove tutti i beni si “tramutano” in merci..
Dal grano alla farina oggi il tempo è
…istantaneo. Mulini a cilindri
sottopongono il chicco ad una immediata frantumazione selezionandone
subito i componenti , dalle diverse
feritoie possiamo trarre ciò che meglio ci aggrada , semola, crusca, farina
tipo 1, oppure0 e 00, bianche di un candore …mortifero
Com’è lontano il tempo in cui le
macine di pietra lavica, sapientemente scanalate , accoglievano il chicco! Lenti, non più di 35
-40 giri al minuto , ne rispettavano l’habitus costitutivo, lo trattavano come
un “frutto secco” , tutelavano l’embrione, la vita , come se dovesse trasmetterla a noi comuni mortali.
L’opera di molitura veniva rifinita
dal buratto che sempre
col massimo rispetto , separava
la “buccia” del nostro frutto secco dalle componenti amilacee e
proteiche, ma non prima di averli arricchite di importanti elementi minerali e
pregiata fibra.
Questa farina per preservare tutta la sua ricchezza nutritiva ,
abbisognava di una giudiziosa panificazione, di una lenta lievitazione con l’ausilio del lievito madre ( crescente).
Il pane si chiamava pane perché i processi
erano rispettosi dei tempi in
particolare di quelli necessari alla lievitazione ,dove il processo di “
acidificazione “ si sommava alla lievitazione
Erano necessari diverse ore perche l’enzima
fitasi lentamente smorzasse gli effetti
negativi dei fitati , ma ancor più la
creazione nella pasta di un ambiente “acido” che selezionasse i benefici lieviti ed eliminasse quelli cattivi come quelli
responsabile del “filante” ovvero della caratteristica gommosità del pane tipico di quello “industriale”.
Le nostre nonne segnavano con un taglio incrociato le
pagnotte o “ vastedde” ,forse per meglio controllare il processo fermentativo.
Ma a questo gesto facevano seguire un carezzevole bacio con le due dita
congiunti . Un atto di amore per un bene
indispensabile , ma allo stesso tempo un
rito che simboleggiava tutta la sacralità del prodotto e del processo!
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