venerdì 9 marzo 2012

N’arrubbaru lu suli (…e lu pani) seconda parte




 di Giuseppe Bivona

Lu pani si chiama pani” Recitava Ignazio Buttitta in una delle prime raccolte di poesie, con il suo inconfondibile accento “baarioto” .
“ Ma oggi, caro Ignazio, a distanza di mezzo secolo, il nostro pane quotidiano possiamo ancora chiamarlo “pani” ?
No! Neanche la “fame” di pane ci è rimasta,  ovvero“u pitittu” : appannaggio esclusivo, un triste privilegio  dei popoli del terzo mondo.  Noi  invece  satolli di ogni ben di Dio,  fino a star male, soffriamo altre  “fami”  artificiali e superflui ,per via dei tanti surrogati ,  dei bisogni indotti e sapientemente congegnati ad arte da una diabolica  pubblicità.
Eppure sembra il pane di sempre, gli ingredienti sono identici : farina ,acqua, sale e lievito, una formula che ha sfamato intere generazioni, la base di sostentamento della nostra cultura alimentare mediterranea.
Qui, per secoli  il frumento ebbe le cure più attente, al limite della “sacralità” Cerere era la dea delle messi. Il “ciclo” del grano rimase immutato come si conviene ad un rituale magico:
dalle selezione delle sementi ,alla cure colturali ,dalla molitura  ,alla panificazione
.Oggi invece la “dissacrazione” non ha risparmiato neanche una fase  del suo ciclo. tutto è stato stravolto ,rimosso ,snaturato…
Il terreno che ospita il grano non rispetta più le rotazioni agrarie o le successioni colturali, per anni seguiva obbligatoriamente una coltura “miglioratrice”: dalla fava alla sulla .L’aratro a chiodo “feriva” leggermente la terra , appena quel tanto quanto ,necessitasse ad accogliere il seme.  Per  madre  natura  questa  era un piccolo , innocente graffio: non era difficile risanarlo.
 Oggi l’arroganza mercantile obbliga ad insistere  con il ringrano  per diversi anni , sventrando la terra alterandone il profilo e ricorrendo a concimazioni artificiali e per controllare le erbe infestanti usa il  diserbo chimico   
Le cultivar di oggi, sembrano  derivare  da un genitore “alieno” . Il suo capostipite fu il Creso . nato in provetta,in un laboratorio , in un centro nucleare. Una mutagenesi indotta usando il cobalto radioattivo su un frumento che aveva il difetto di essere …alto, cosi come altisonante il suo nome:”Senato Cappelli”.
Bisognava abbassare la taglia , questi  vecchi grani “spilungoni”,  sono solo buoni per fare paglia,e poi non reggono le laute concimazioni azotate, allettano , si accasciano sotto il peso della spiga!
Cosi il salnitro, che durante le guerre fu prodotto dalle industrie chimiche per massacrare figli di mamme ,ora diviene  nitrato e con il suo mortale candore,”lussureggia” le piante  , ma ahimè, stermina la fora batterica  che albergava da millenni nei nostri suoli agrari.
Ora ci assale un dubbio : e se la  modificazione genetica  degli odierni grani  fosse correlata alla modificazione  di una importante proteina, la  gliadina ?  Ebbene dalla digestione peptica-triptica deriva un prodotto intermedio (“ frazione III di Frazer” ) una sostanza che ha  dimostrato di  poter provocare  l’enteropatia infiammatoria e quindi il malassorbimento  ovvero intolleranza al glutine e allergie varie!
Tutto ciò accade sotto i nostri occhi , con l’ incosciente ilarità di una generazione di “ cosiddetti “ agronomi : ottusi ,miopi funzionari di un “Apparato ” che forniva loro una particolare attrezzatura : i paraocchi ,  solitamente in   dotazione agli asini,  addetti al sollevamento dell’acqua nelle vecchie norie!
Oggi dal grano sembrano ricavarsi solo due prodotti: amido e glutine. Quest’ultimo subisce una improvvisa impennata dal 10% passa al !8%  come i grani canadesi , la Manitoba, che come le gomme da masticare ,  si elasticizzano ,permettendo  di  ottenere  prodotti  al massimo della lievitazione ,
 come dire : panettoni, panforti  colombe….  
Un tempo il grano  proveniente dall’aia veniva  conservato nei  “cannizzi”,  singolari strutture  fatte con  “ mezze “canne intrecciate , a mo di un cilindro  di circa 1- 1’5 metri  di diametro e una altezza  di 3- 3.5 metri..
Le cariossidi “respiravano”, l’embrione era sempre vivo  qualunque fosse la sua destinazione .
Che strano prodotto  questo grano!   Era nello stesso tempo “ produzione “ e “mezzo di produzione”  ovvero il contadino dal suo grano traeva sostentamento alimentare e una quota parte la destinava alla semina( riproduzione). Una anomalia  intollerabile per il nuovo ordine economico , la confusione di ruoli era inaccettabile in una realtà dove tutti i beni si “tramutano” in merci..
Dal grano alla farina oggi il tempo è …istantaneo. Mulini a cilindri  sottopongono il chicco ad una immediata frantumazione selezionandone subito i componenti ,  dalle diverse feritoie possiamo trarre ciò che meglio ci aggrada , semola, crusca, farina tipo 1, oppure0 e 00, bianche di un candore …mortifero
Com’è lontano il tempo in cui le macine di pietra lavica, sapientemente scanalate  , accoglievano il chicco! Lenti, non più di 35 -40 giri al minuto , ne rispettavano l’habitus costitutivo, lo trattavano come un “frutto secco”  , tutelavano  l’embrione, la vita , come se  dovesse trasmetterla  a noi comuni mortali.
L’opera di molitura veniva rifinita dal buratto   che sempre  col massimo rispetto , separava  la “buccia” del nostro frutto secco dalle componenti amilacee e proteiche, ma non prima di averli arricchite di importanti elementi minerali e pregiata fibra.
Questa farina  per preservare  tutta la sua ricchezza nutritiva , abbisognava di una giudiziosa panificazione, di una lenta lievitazione  con l’ausilio del lievito madre ( crescente).
Il pane si chiamava pane perché  i processi  erano rispettosi dei tempi  in particolare di quelli necessari alla lievitazione ,dove il processo di “ acidificazione “ si sommava alla lievitazione
 Erano necessari diverse ore perche l’enzima fitasi lentamente  smorzasse gli effetti negativi dei fitati , ma ancor più  la creazione nella pasta di un ambiente “acido”  che selezionasse i benefici lieviti ed  eliminasse quelli cattivi come quelli responsabile del “filante” ovvero della caratteristica gommosità del pane  tipico di quello “industriale”.
Le nostre nonne  segnavano con un taglio incrociato le pagnotte o “ vastedde” ,forse per meglio controllare il processo fermentativo. Ma a questo gesto facevano seguire un carezzevole bacio con le due dita congiunti . Un atto di amore per  un bene indispensabile , ma  allo stesso tempo un rito che simboleggiava tutta la sacralità del prodotto e del processo!

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