giovedì 25 luglio 2024

Micheal Cavalieri è “Custode dell’identità territoriale

La cerimonia organizzata da Angela de Michele, si è  svolta a Sciacca in occasione della visione del film “Ritornato” 



 La motivazione che ha dato vita al riconoscimento, può sintetizzarsi nelle parole del compositore e direttore d’orchestra austriaco Gustav Mahler: “… omaggiare la tradizione … è mantenere vivo quel ‘fuoco’ che brucia vispo nei solchi lasciati dalle vite di chi abita questa terra, alimentarlo con storie evocative ed emozioni travolgenti”. Il riconoscimento fa parte del percorso     Borghi Genius Loci De.Co

Micheal Cavalieri fa parte della generazione di siculoamericani che discende da chi, tra fine ottocento e inizio novecento, ha lasciato la propria terra per tentar fortuna nel nuovo mondo. “Ritornato”, racconta la storia del nonno del regista, Agatino Alibrandi, nato nel 1900 nel piccolo centro dell’Agrò e coraggiosamente emigrato a New York nel 1921. Una pellicola che riscopre le origini di un immigrato di terza generazione che ha sempre saputo di avere dei nonni dal cognome Alibrandi che provenivano da Limina, paesino delle colline messinesi e set della pellicola. “Spero che la mia storia possa risvegliare e ispirare altri siciliani-italoamericani della mia generazione a ricercare le proprie radici e a raccontare le proprie storie di qualsiasi lotta o successo abbiano raggiunto le loro famiglie” afferma l’attore.



Cavalieri ha debuttato sul grande schermo recitando a fianco al premio oscar Hilary Swank nel 1994 con “The Next Karate Kid” (Karate Kid 4) di Christopher Cain, dove ha interpretato la parte di Ned. Nella sua carriera può vantare numerose apparizioni in film e serie televisive di successo, come Last Man Standing (Ancora vivo), ER, I Soprano e NYPD Blue. Di lui la critica americana ha scritto come di un “eccezionale talento, capace di riempire lo schermo di emozioni”. La sua carriera e’ iniziata ad Hollywood nel 1994 con una pellicola che appartiene alla storia del cinema “Karate Kid”, poi tanti altri film.  







lunedì 22 luglio 2024

Da Artusi a Marchesi, alla nidiata dei tanti allievi ecco la Cucina Italiana

 NinoSutera

Nel mondo si racconta, che si beve vino francese, si guida un auto tedesca, ma si mangia rigorosamente italiano. La rinascita della cucina italiana in continuità con Pellegrino Artusi, grazie a Gualtiero Marchesi e alla nidiata di tanti allievi diventati maestri, antagonisti dei colleghi francesi.

Se Artusi e Marchesi  maestri di tanti bravi allievi della cucina italiana nel mondo, sono ancora oggi di esempio., lo dimostra che in tantissimi preferiscono frequentare ristoranti, con bravi cuochi di quella scuola 

Alternativa e antagonista dei francesi di Escoffier famoso all'epoca perchè si adoperò molto, eliminò l’aglio, sostituì l’olio di oliva EVO con il burro, quasi a rimarcare la differenza tra la cucina francese e quella italiana- mediterranea, dove come è noto l'aglio e l'olio EVO sono componenti essenziali.

 

Gualtiero Marchesi: la vera cucina è saper mangiare bene

La vera differenza tra Artusi e Marchesi

Una grande differenza fra loro era il modo di porsi in cucina davanti al fornello e nella creatività e scoperta di una ricetta. Artusi ha voluto soprattutto raccontare la cucina degli italiani che avevano perso, dimenticato, abbandonato; mentre Marchesi ha contribuito a creare un modo di vivere la cucina e la tavola insieme.

Pellegrino Artusi, non volle mai codificare o uniformare o catalogare la cucina italiana… la sua formazione letteraria e linguistica e il fatto di “raccogliere” ricette segnalate non lo fa un cuoco, ma più uno “scalco” nuova maniera.

Con la fine del Settecento la cucina italiana-medioevale-rinascimentale finisce, finisce con la fine degli “scalchi” figure particolari fra la cucina e la tavola aristocratica che non solo erano bravi macellai e tagliatori di carni, grandi ortolani, esperti di condimenti, bravi pescivendoli o pasticceri… ma soprattutto sapevano raccontare a voce la ricetta ai commensali del principe.

La cucina francese, nata dopo che Caterina de’ Medici regina di Francia importò dalla Toscana tante ricette italiane oltre che l’uso della forchetta allora ignota ai francesi, perdurò per molto tempo, ma l’Artusi favorì un risveglio nazionalistico, fortemente antagonista e alternativa rispetto a quella  francese. Artusi propone una cucina italiana domestica ed emotiva contro una cucina   francese  spesso banale.

… l’Artusi fu il primo blogger gastronomico

E’ da quel momento che la cucina italiana si propone come arte del divenire, delle molteplici interpretazioni e della condivisione rispetto ad un sapere omologato non modificabile. Inoltre l’Artusi fu il primo blogger gastronomico: pochissime ricette del suo libro prevedono un suo intervento, quasi tutte arrivano dalle lettere scambiate con le cuoche di tante case italiane.

… la pasta come elemento base del menu italiano

La prima edizione del libro “artusiano” riporta 475 ricette, l’ultimo 790 nell’arco di 20 anni di continui aggiustamenti.  Ad Artusi non si devono ricette, ma la scelta di porre “ la pasta” come elemento base del menù italiano. E’ in quegli anni di fine XIX° secolo (1891-1905) che nascono tante ricette di pasta, come il piatto “discriminante” di una tavola, di una regione, di un menù. E’ la pasta che rende la tavola veramente artigianale e biodiversa: rileggendo per esempio le ricette degli spaghetti o delle paste ripiene si nota come la omogeneità della produzione della pasta  sia poi firmata territorialmente da alcuni ingredienti unici esclusivi di un territorio.

In Italia ci si dimenticò totalmente della “cucina artusiana” pensando addirittura per anni (secondo dopoguerra fino agli anni ’70) ad una soluzione industriale della tavola e della cucina, preconizzando “pillole” tutto fare. Fortunatamente per l’Italia  nacque la generazione (in cucina) di cuochi “marchesiani” che non lasciarono dimenticare la storia artusiana e non si lasciarono abbindolare dalla regolarità  matematica e schematica delle salse, sughi, temperature, abbinamenti lineari della cucina francese.

Ecco che l’incrocio di Pellegrino Artusi e di Gualtiero Marchesi hanno generato una squadra attenta di giovani cuochi italiani bravi, non chiamiamoli “chef” ,  quelli lasciamoli ai francesi

martedì 16 luglio 2024

Ufficio di sostegno al patto rurale

 


Sondaggio sulle esigenze delle parti interessate


Caro collega,

Siamo lieti di ricordarvi il nostro sondaggio in corso sulle esigenze degli stakeholder e di informarvi che la scadenza è stata prorogata al 31 luglio !

Compila il sondaggio entro il 31 luglio

Aiutateci a identificare le aree chiave in cui l’Ufficio di sostegno del Patto rurale può offrire maggiore sostegno e opportunità di networking al Patto rurale e alla sua comunità. Non esitate a far circolare il sondaggio nella vostra rete !

Il sondaggio è disponibile in 22 lingue dell'UE e richiede circa 10 minuti per essere completato .

Grazie per il tuo tempo e il tuo contributo!

Cordiali saluti,

Il team dell’Ufficio di sostegno del patto rurale

martedì 21 maggio 2024

Per non dimenticare


Una marcia durata sei giorni, attraverso i territori più depressi dell’isola, da Partanna a Castelvetrano, a Menfi, a Santa Margherita Belice, a Roccamena, a Partinico, a Borgetto, a Pioppo, a Palermo.

Una pagina indelebile di visionari alimentata da valori non barattabili.

Se non fosse per  il bianco e nero delle foto dell'epoca, sembrerebbe il racconto di qualche settimana addietro, a giudicare dai cartelli di protesta.

Un evento storico organizzato da Danilo Dolci e descritto da Peppino Impastato

Nel 1967 Peppino Impastato ha 19 anni ed ha cominciato il suo percorso politico di attenzione e di lotta verso i grandi temi che affliggono il Sud Italia, oltre che verso i conflitti che dilaniano il mondo. Lo troviamo accanto a un altro grande personaggio che dedicò la sua vita al riscatto della Sicilia. Assieme a un numeroso gruppo di manifestanti, con nomi di altissimo livello nazionale, organizzò, con il Centro Studi di Partinico, da lui creato, una marcia durata sei giorni, attraverso i territori più depressi dell’isola, da Partanna a Castelvetrano, a Menfi, a Santa Margherita Belice, a Roccamena, a Partinico, a Borgetto, a Pioppo, a Palermo. L’iniziativa univa il problema della pace, allora di grande attualità, per la guerra in Vietnam e quello del lavoro, caratterizzato dallo sfruttamento più bestiale da parte dei mafiosi e dei vari ricchi proprietari di terreni, oltre che dalla mancanza di sovrastrutture, strutture, mezzi di lavoro, strade e soprattutto l’acqua. Alla protesta era legata anche la speranza che attraverso la lotta le cose potessero migliorare. Peppino aderì all’iniziativa e vi partecipò come “corrispondente” del suo giornalino dattiloscritto “L’Idea”.


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Passaggio della “Marcia della protesta e della speranza” (1967) a Partinico. Peppino è in fondo a destra con un cartello dov’è scritto “Pace al Vietnam – Libertà ai popoli oppressi – Lavoro ai siciliani”


LA MARCIA DELLA PROTESTA E DELLA SPERANZA

Servizio di Giuseppe Impastato
Il 5 di marzo, domenica, un grande convegno popolare, presieduto da Danilo DolciLorenzo Barbera, Corrado Gorghi (consigliere nazionale della D.C.), Salvo Riela, Bruno Zevi, Angelo Ganazzoli (presidente dell’E.S.A.) e Leonardo Di Salvo, nella sala del cinema “Nuovo” di Partanna, analizza con attenzione tutti i più gravi problemi che affliggono incessantemente le genti delle valli del Belice, del Carboj e dello Jato e mette dettagliatamente a fuoco gli obiettivi della manifestazione popolare che deve avere il suo inizio nella mattinata del giorno seguente. La relazione di base, nella prima parte della giornata, viene svolta da Lorenzo Barbera, dirigente del centro di pianificazione delle valli. Egli ribadisce innanzi tutto la necessità che vengano costruite o definite le dighe: Arancio sul Carboj, per ora funzionante al 50%, Poma sullo Jato, Garcia sul Belice destro, Cicio sul Modione, Malvello sulla sorgente Malvello. Definendo o costruendo queste dighe si verrebbero a creare infatti 36.100 posti nuovi in agricoltura.
Il suo secondo appunto è rivolto alla riforma agraria: in seguito alla vecchia riforma sono stati assegnati circa 1.400 lotti. La superficie investita dalla riforma è di circa il 2,8% dell’intera superficie della valle del Belice. Ogni lotto misura circa 4 ettari ed ha un reddito lordo scarsissimo che va dalle 200 alle 350 mila lire annue. Tutto questo naturalmente perché sono stati assegnati i terreni peggiori, senza possibilità alcuna di trasformazione.
Di questi 1.400 lotti circa 670 sono stati forniti di case coloniche che sono a loro volta rimaste per molti anni prive di ogni servizio come l’acqua, la scuola etc. Tra il 1952 e il 1958 sono stati spesi circa 2 miliardi e 700 milioni di lire per munire di attrezzature queste abitazioni, ma attualmente delle 670 case soltanto 260 sono abitate con una certa stabilità. Soltanto uno di tutti i villaggi è effettivamente abitato e funzionante: Piano Cavaliere, che la D.C. utilizza come propaganda del suo regime con frequenti fotografie su certe riviste.
Terzo punto messo in evidenza da Barbera è quello delle scuole per tutti: nei 35 Comuni che aderiscono alla manifestazione gli abitanti sono complessivamente 342.000. Gli analfabeti sono circa 103.000.
Nei prossimi cinque anni è quindi auspicabile un piano atto ad istruire almeno 54.000 persone, per cui sono necessarie 2200 classi di scuole popolari. Nella zona a sua volta il corpo insegnanti è presente nel numero di circa 5000 di cui quasi 4000 sono disoccupati. Il piano per l’istruzione popolare verrebbe quindi ad occupare gli insegnanti disoccupati. Dopo il Barbera sono intervenuti più o meno brevemente Michele MandilloSalvo Riela ed Angelo Ganazzoli; a quest’ultimo si deve un duro e frontale attacco alla mafia. «Non è arrestando Liggio e Panzeca che si combatte la mafia - ha detto - bisogna colpire i colletti duri, cioè le persone che stanno dietro gli esecutori. Solo così possono venir fuori i nomi di uomini politici, di professionisti, di notabili».
Nel pomeriggio di poi, sotto la presidenza di Bruno Zevi, è intervenuto per primo Simone Gatto ribadendo con fermezza la necessità di ristrutturare la Sicilia in Comuni e in comprensori di Comuni, eliminando così le ormai superate province. Sono intervenuti tra gli altri M. Pantaleone e V. Giacalone.
Il 6 di marzo, lunedì, alle 10 circa da Partanna, parte il lungo corteo della marcia della protesta e della speranza per la pace e per lo sviluppo socio-economico della Sicilia occidentale. Guidano la colonna Danilo Dolci, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Lorenzo Barbera ed il piccolo e timido vietnamita VO VAN AI, eroe della resistenza del suo popolo contro i francesi, delicato poeta e sociologo di indiscussa preparazione. Lungo il percorso che da Partanna porta a Castelvetrano, punto di arrivo della prima tappa, alla vistosissima schiera di marciatori si aggiungono gruppi di gente, contadini, operai della valle del Belice. Hanno portato “pane e tumazzu” per fare colazione durante le soste della estenuante marcia. Dai loro volti segnati dalle fatiche del lavoro e dalle lunghe sofferenze traspaiono fermezza e soddisfazione: uno stato d’animo veramente sorprendente per la gente di questa zona che conosce molto da vicino la prepotenza di certi personaggi, il “bavagghiu” alla bocca e la lupara.


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Passaggio della “Marcia” a Partinico. Si nota il cartello portato da Peppino


Attraverso Castelvetrano la colonna conclude la prima tappa alla diga Delia alle 16.
Il giorno successivo, 7 di marzo, martedì, la suggestiva marcia da Castelvetrano raggiunge Menfi, dove i pubblici discorsi di Dolci e di Lucio Lombardo Radice tracciano i programmi e le caratteristiche della manifestazione, auspicando un maggiore benessere per i lavoratori e per i contadini siciliani che lottano per una Sicilia nuova.
Il mercoledì 8 marzo, la colonna arriva a conclusione della terza tappa della marcia, a S. Margherita Belice. L’incontro tra la popolazione della cittadina ed i marciatori avviene in uno stanzone fresco di intonaco posto sul corso principale.
Dopo il solito discorso chiarificatore di Dolci, prende la parola Ernesto Treccani dichiarando con commossa semplicità e con grande chiarezza il suo scopo preciso, che è quello di contribuire con i suoi mezzi alla rinascita ed al risveglio della povera gente di Sicilia e spiegando quale è il senso del lavoro di un pittore, come esso può contribuire attraverso il segno grafico a dare una spinta di vita sociale. È intervenuto quindi Carlo Levi parlando delle sue esperienze compiute nel 1935 nei paesini della Lucania dove egli fu costretto ad abitare per lunghi anni come esiliato politico. Il mondo già espresso nei suoi libri “Cristo si è fermato ad Eboli” e “Le parole sono pietre” è venuto così fuori in un discorso di estrema semplicità.
È intervenuto infine lo scultore palermitano G. Baragli che ha accomunato la sua esperienza di “emigrato” a quella ancor più grave dei contadini presenti in sala che sono stati costretti in questi anni ad espatriare all’estero.
Il giovedì 9 marzo si giunge, nel tardo pomeriggio, a Roccamena.
L’incontro con il pubblico del paese viene interamente dedicato alla pace. Si proietta un documentario sulle atrocità che gli americani compiono nel Vietnam e vengono letti alcuni stralci di reportages e di testimonianze di questa guerra balorda:
«Prendono un Viet e gli fanno mettere le mani sulle guance, poi prendono un filo di ferro e glielo fanno passare attraverso la guancia, fin dentro la bocca, poi fanno passare il filo attraverso l’altra guancia e l’altro mano, poi tirano il filo». La voce è di Vito Cipolla.
Si conclude a Partinico in piazza Garibaldi la quinta e penultima tappa, senza dubbio una delle più dure (30 Km), nella serata del venerdì 10 marzo con un pubblico incontro tra gli organizzatori ed il popolo della cittadina e con la lettura di un messaggio d’adesione e di solidarietà inviato da Roma ai manifestanti dai pittori Renato Guttuso e Corrado Cagli. Altrettanto lunga ed estenuante è l’ultima tappa che da Partinico, attraverso Borgetto, Pioppo e Monreale, conduce i marciatori a Palermo. La colonna, che durante il percorso si era vistosamente infoltita diventa nutritissima alle porte della città. Gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace ed allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti che per il corso Calatafimi scende rumorosamente, e per le grida di protesta e per le richieste, fatte ad alta voce, del diritto alla vita ed alla libertà, verso il centro della città.
In piazza Kalsa alle 17,30 avviene il festosissimo incontro tra i marciatori e la Palermo operaia.
È una grande manifestazione popolare il cui significato si individua in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l’inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell’isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio.
Per primo dalla tribuna interviene D. Dolci leggendo alla cittadinanza la risoluzione del convegno di Partanna e ribadendo in secondo luogo la necessità che la commissione parlamentare antimafia renda pubblici gli atti in suo possesso.
Altri interventi fanno registrare Nino D’Angelo, Sergio Rapisardi, Lorenzo Barbera e Carlo Levi che definisce la manifestazione «un Parlamento democratico, che è sorto come presa di coscienza che rappresenta una realtà unitaria».


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Arrivo e comizio in Piazza Kalsa.
Riconoscibili: Hans Deichmann, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta, Salvo Riela, Lorenzo Barbera, Peppino Impastato, Franco Alasia, Francesco Calcaterra, Orazio De Guilmi - con camicia bianca e braccio ingessato -, in basso lo storico fotografo di cronaca di Scafidi). Peppino è al centro, quasi coperto, tra Ignazio Buttitta e Danilo Dolci.


Conclude la serie di interventi molto drammaticamente Vo Van Ai: «Tutta la mia infanzia e quella della mia generazione non ha conosciuto che la guerra. A tredici anni ho conosciuto la prigione. La prima notte che mi hanno arrestato, nella camera degli interrogatori ho visto coi miei occhi cinque miei compatrioti torturati fino alla morte. Ho visto donne violentate, villaggi incendiati, bambini gettati nel fuoco. Ma tutte queste immagini esprimono soltanto la milionesima parte di quanto avviene attualmente nel Sud Vietnam, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Avete mai visto dei bambini napalmizzati? Avete mai visto madri divenire folli davanti ad atrocità incommensurabili? Immagi¬nate il cielo della Sicilia tutta ad un tratto stracciato da migliaia di aerei della morte, il cui solo rumore dei motori ci rende folli? Immaginate le vostre case e le vostre spiagge divenire d’un tratto basi militari? Ora nel Sud Vietnam una prostituta può nutrire quattro persone (la ruffiana che l’alberga, il protettore, l’uomo che col triciclo le porta il cliente e lei stessa), mentre un operaio specializzato non ha il lavoro per guadagnarsi il suo pane. Ci sono ragazze che scambiano il loro corpo per un pezzo di pane o per una bottiglia di latte. E chi deve ricevere aiuti governativi vede che le sue somme attraversando tante mani burocratiche divengono un niente.
Né la libertà, né democrazia ora esistono nel Sud Vietnam. Chi parla di pace e di neutralismo viene tacciato come comunista, imprigionato ed ucciso.
Affinché una soluzione sia realizzabile, è necessario che tutti i popoli del mondo facciano pressione sui loro governi perché questi all’unanimità domandino:
1) La cessazione immediata di tutti i bombardamenti americani nel Viet¬nam.
2) La cessazione del sostegno americano al governo Ky nel Sud Vietnam.
3) La costituzione al Sud di un governo civile eletto dal popolo, indipendente da tutte le ingerenze straniere, che possa lavorare effettivamente per la pace, negoziando per la cessazione delle ostilità e tendendo alla riunificazione.
Voi avete sentito che i nostri problemi sono anche vostri; come io sento che i vostri problemi sono anche i miei. La soluzione dei problemi fondamentali nel Vietnam, nella Sicilia, in ogni paese del mondo è necessaria non solo al singolo paese ma a ciascuno al mondo. Viva il Vietnam e la Sicilia»Jerry Cooper, cantante negro ha cantato infine uno spiritual.
(Dal giornale “L’Idea” (1967)

Foto di copertina: Danilo Dolci e Peppino Impastato alla “Marcia della protesta e della speranza” (1967). La foto è scattata forse nei pressi di Partinico.

lunedì 20 maggio 2024

Per non dimenticare

 Furono 22 le vittime che 81 anni fa nel quartiere Addolorata persero la vita a seguito di un bombardamento aereo americano il 21 maggio 1943

Domani se ne parlerà al Circolo Universitario e di Cultura di via della Vittoria presentando il libro di Leonardo Balistreri.


A dibattere su quel particolare momento storico il Dott. Giuseppe Bivona e l'autore Dott. Leonardo Balistreri
Il 21 maggio 1943 un bombardiere americano sgancia il suo carico di morte a Menfi in via della Vittoria, nella zona compresa tra il Calvario e la Chiesa Addolorata .

Le vittime furono 22 .
Alongi Antonina 20, Alongi Giuseppe 27, Bonacasa Antonina 22, Bruno Margherita 67, Cusumano Rosa 43, D'alessandria Caterina 65, Giarraputo Giuseppe 22, Giarraputo Leonarda 31, Giarraputo Maria 29, La Sala Francesco 35, Li Petri Liboria 81, Libasci Giovanna 8, Libasci Margherita 1, Libasci Pietro 4, Mandracchia Liboria 15, Marrone Gioacchino 5, Mulè Ninfa 2, Perricone Giuseppe 5, Sutera Leonarda 48, Vetrano Antonina 13, Vetrano Francesca 5, Vetrano Silvestro 11.
Accenno al contesto storico Nel febbraio del 1941 la Deutsches Afrikakorps (DAK), al comando del feldmaresciallo Erwin Rommel viene inviata in Libia, con lo scopo di sostenere le forze italiane messe a dura prova dall'8ª Armata britannica. A supporto del DAK, il Xº Corpo Aereo Tedesco, Xº CAT, si trasferisce in Sicilia già alla fine del 1940 negli aeroporti isolani tra i quali Castelvetrano e Sciacca. E’ lì che i tecnici tedeschi installano le loro apparecchiature radiotelemetriche (radar), sia per l’assistenza al volo degli aerei dell’Asse, che per controllare i movimenti di aerei nemici.
Una di queste apparecchiature viene installata a Menfi. Si trattava, con buona probabilità di FuMG 450 Freya A/N con portata di un raggio di 200 Km. L’antenna con il sistema meccanico di rotazione viene collocata alla periferia ovest di Menfi in fondo alla Via Giuseppe Mirabile, in un punto elevato di circa 100 m s.l.m. In quegli anni, la zona a valle di quella via, a differenza di oggi, era un’ampia area di campagna tale da permettere allo sguardo di scorgere facilmente diversi chilometri di costa.
Oltre all’antenna, il sistema doveva comprendere un generatore elettrico per l’alimentazione dell’apparato radiotelemetrico; un camion cabinato con tutte le apparecchiature necessarie per le emissioni e le decodificazione dei segnali; un bus per il trasporto del personale militare tedesco, nonché parecchi fusti di carburante necessari per alimentare il generatore elettrico della postazione di rilevazione.
I tecnici della postazione, una volta decodificati i segnali, li inviavano, con un cavo elettrico lungo circa 600 m. fissato ai balconi della via Della Vittoria, a degli ufficiali tedeschi, che avevano la loro base a Palazzo Varvaro, vicino la Chiesa del Collegio che sulla torre dell’orologio montava un’antenna radio. Ed è proprio da questa base che i dati venivano recepiti e trasmessi con apparecchiature enigmatiche alle stazioni radio degli aeroporti di Sciacca e Castelvetrano.
L’apparato radiotelemetrico era stato posizionato a Menfi, località equidistante dai due aeroporti e punto strategicamente importante per le attività dell’Asse; infatti il sistema di controllo aereo dei due aeroporti ha contribuito alla riuscita della missione del corpo di spedizione Deutsches Afrikakorps (DAK) che ha raggiunto ed operato in Libia dal febbraio 1941 al marzo 1943.
La buona mimetizzazione dei luoghi faceva ritenere alla popolazione locale, che in quel punto non ci fosse altro che un normale deposito di carburanti con le presenza di mezzi e personale militare per la custodia. Sicuramente i servizi dell’intelligence americana conoscevano l’importanza di quella installazione, tale da essere ritenuta obbiettivo militare da sopprimere.
La perdita del Nord Africa da parte delle truppe dell’Asse, permise agli americani di creare nuove basi aeree in Libia, in Tunisia oltre a quella di Malta, tali da colpire con più facilità le infrastrutture sia civili che militari della Sicilia, nell’imminente preparazione dello Sbarco.
Il 21 maggio del 1943 infatti, dalle 10 alle 10.30 del mattino, l’aeroporto di Sciacca di C.da Schunchipani venne bombardato con decine di morti e feriti; contestualmente nella stessa giornata, all’imbrunire un bombardiere americano sgancia le bombe a Menfi per colpire quella installazione radiotelemetrica.
Ma le bombe esplodevano a circa 300 m dall’obiettivo uccidendo 22 inermi cittadini...


venerdì 17 maggio 2024

Le viticolture, tra utopie e realtà

                                                            NinoSutera

Convivono nell’isola due viticolture una da reddito e una di sussistenza,  in perenne crisi

La “cultura” della vite, in Sicilia, trae origine da conoscenze e saperi antichi e investe aspetti sociali, economici ed ambientali di eccezionale importanza; le specificità territoriali, la natura dei suoli, il clima e le genti, trovano poliedriche espressioni e caratteristiche variegate, contribuendo a costituire una piattaforma produttiva vasta e multiforme. 

Sebbene la presenza della vite sull'isola in forma spontanea fosse precedente alla colonizzazione greca (come testimonia il ritrovamento di viti fossili risalenti al diciassettesimo secolo a.C. nell'agrigentino, a Grotte, e presso Paternò Castello, in provincia di Catania), ed è testimoniata dalla documentazione letteraria e da quella archeologica (ritrovamenti di ceramica micenea appartenenti all’ultimo quarto del sec. XII a.C.) la coltura sistematica della vite risale ai tempi in cui i primi coloni greci giunsero in Sicilia, nell'ottavo secolo avanti Cristo.   Il percorso storico realizzato dalla Sicilia del vino, si riflette sulla composizione varietale del vigneto siciliano, caratterizzato da un ampio e variegato patrimonio ampelografico: dagli autoctoni di antica tradizione caratterizzati ormai da una ricca selezione policlonale, ai vitigni internazionali, che acquisiscono nei territori siciliani caratteri distintivi e di grande personalità. 

Il sistema vitivinicolo siciliano è oggi costituito da un universo di strutture produttive, orientamenti e politiche imprenditoriali assai diversificate:   aziende produttrici di vino costituite da strutture cooperative e cantine, ancora orientate alla produzione di vino sfuso, e alla grande distribuzione, con margini irrisori per i produttori,  mentre emergono nel mercato interno e nel panorama internazionale le imprese  private  dotate di un intenso dinamismo evolutivo, nelle quali organizzazione e strutture produttive sono basate su alta professionalità e su gestioni fortemente orientate al mercato ed al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori sempre più attenti.   
La storia della vitivinicoltura siciliana, e le dinamiche che hanno dapprima posto la Sicilia al centro degli scambi e dei commerci nel Mediterraneo, e successivamente hanno visto alternarsi, periodi floridi, densi di scambi con i diversi popoli europei, a periodi di profonda crisi strutturale, come dimostrano la distillazione obbligatoria e per conto, l'abbandono definitivo della superfice vitata, la vendemmia verde, a queste vanno aggiunte le avversità climatiche e patologiche.
Senza orma di smentita convivono   due viticolture, una da reddito e una di mera sussistenza. La prima non è frutto del caso, ma scaturisce da precise strategie commerciali facilmente deducibili dal documento pubblico  relativo agli importatori e distributori di vino nel mondo,  che se pur riferito al 2012 fornisce un esauriente spaccato della rete commerciale che le aziende private, e qualche cantina sociale lungimirante sono stati capaci di costruire.  La seconda, la viticoltura di crisi,   confinata alle  cooperative, che se pur intercettano grande masse di prodotto, sono pressochè assenti dalla rete mondiale di distribuzione del vino che conta. La crisi è stata ulteriormente aggravata dalle criticità emerse negli ultimi tempi, ecco perchè è facile attraversare territori vitati, e osservare tutta la manifestazione della crisi, in distese di vigneti abbandonati. Certo va anche aggiunto che chi è stato capace di conquistarsi fette del mercato nazionale e  mondiale del vino all'inizio di questo millennio, o forse anche prima, non ha nessuna intenzione di condividerla con nessuno, se a questo aggiungete anche la riduzione dei consumi, ne viene fuori una situazione irreversibile. La realtà è che  la crisi ha radici antiche si,  ma anche ben precise responsabilità. 
L'incapacità di sapersi adeguare ai cambiamenti dei tempi in cui viviamo,  cosa che hanno saputo fare cantine sociali del centro e nord Italia,   i conflitti di interessi  o presunti tali, hanno fatto il resto,  un accurata analisi darebbe  meglio l'idea dell'origine della crisi. Nei piccoli centri agricoli, che stentano a divenire  aree rurali di successo, collettivo e diffuso, difficilmente si riesce ad affrontare un confronto consapevole sui motivi della crisi, si preferisce dividersi sul sesso degli angeli, che assumere e sostenere un processo di autocritica sull'intreccio politico-imprenditoriale, che visto i risultati  non  ha saputo, ne tracciare un percorso lungimirante, ne intravedere scelte profondamente errate, che hanno determinato lo stato di crisi attuale. Spesso le due viticolture, quella da crisi e quella da reddito e di crescita (basterebbe analizzare a caso, due bilanci  quello del 2000 e quello del 2023 di qualsiasi cantina sociale e cantina privata,  i   numeri rendono sempre meglio l'idea)  convivono pacificamente, anzi a volte i motivi della crisi vengono individuati addebitati,  a una imprecisata maledizione divina, più che terrena. 
Insomma nei centri agricoli, che stentano a divenire  aree rurali di successo per tutti, e non solo per qualcuno, ha prevalso e forse prevale ancora oggi, il pensiero dominate, "non disturbate i manovratori". 
Sembrerebbe ispirato e sostenuto, da un filo conduttore che unisce due affermazioni, poco felici, per essere generosi,  la prima recentissima di questi giorni, " per fortuna la siccità ha colpito solo il sud e sopratutto la Sicilia"  a un' altra affermazione, qualcuno ricorderà vagamente, molto datata nel tempo" la migliore uva la vinifichiamo nella nostra cantina, per il resto c'è sempre la cantina sociale........" 
E' fu così, che quello che era stato definito un promettente distretto vitivinicolo d'eccellenza, non c'è più traccia, ma  neanche nelle ricerche del web. E' l'agricoltore? è stato spettatore passivo, alcuni hanno ceduto i  diritti al reimpianto, altri hanno sostituito i vigneti con nuovi impianti di uliveto, a testimonianza del fatto che, si hanno capito, ma ancora una volta non sono stati capaci di ribellarsi!
     Ogni riferimento a cose e fatti è puramente casuale, un racconto  fantasioso di un qualsiasi piccolo centro agricolo, che immerso in un profondo sonno non ha nessuna intenzione di svegliarsi,   ognuno è libero di ambientarlo dove      vuole, ma chi conosce fatti e circostanze, sa dove di preciso.

 

 

 

 

 

 



 

venerdì 10 maggio 2024

San Francesco : il santo meno amato dagli italiani

                                   Giuseppe Bivona


Tutti nella vita hanno uguale quantità di ghiaccio. I ricchi d’estate i poveri d’inverno”

Bat Masterson


Quei cattolici osservanti non si chiedevano se il lusso delle chiese non insultasse la miseria dei poveri”

Margherite Yourcenar ( Archivi del nord)


Nonna Nina non aveva alcun dubbio, se c’era un santo a cui rivolgersi per chiedere una grazia, questo era di certo Sant’Antonio: al suo attivo il padovano annoverava ben tredici miracoli!

Eppure se c’era un eletto“ specifico” dei poveri e per i poveri questi era senza discussione, San Francesco il “più santo degli italiani, il più italiano dei santi”

Ora, a parte che un santo si qualifica essenzialmente per i miracoli compiuti e san Francesco, se si esclude la discutibile favo letta del lupo di Gubbio, non è che si fosse prodigato più di tanto per farsi notare con insoliti prodigi e meno che mai sensazionali miracoli. Ma quello che lasciava perplessi i poveracci, era la sua storia: un ragazzotto, figlio di papà che, annoiatosi della vita agiata, si “spoglia” di tutte le sue ricchezze e……predica la povertà come “valore”!? I poveri hanno alle spalle, oltre che la miseria, anche l’ingiustizia, alla quale ribellarsi costava quasi sempre la vita, ma soprattutto e sostanzialmente sono….. ignoranti!.

Ora il dilemma è cornuto: o san Francesco con il suo “pusillo” spargeva sale sulle ferite o i poveri non avevano capito niente del messaggio del frate di Assise.

Proviamo a comprenderci qualcosa.

Negli anni, più o meno, in cui visse Francesco, prese avvio una sorta di “rivoluzione occidentale” che pose le basi del mondo moderno. Un geniale rovesciamento dei rapporti tra produzione e consumo. Un vero ribaltamento sulla base del quale non fu più la produzione regolare i ritmi del consumo, come si era sempre verificato e avrebbe continuato a verificarsi in qualunque altra parte del mondo, bensì, questa a dover seguire il trend in definitivamente ascendente di quello di una travolgente corsa verso l’altrettanto indefinita crescita del profitto.

Questa rivoluzione accompagnata dalla riscoperta di valori nuovi, consente la nascita di un individualismo, sempre più assoluto assieme al primato dell’economia, sorretta dalle scoperte e invenzioni, che le stanno dietro.

Tutto ciò indusse,e per certi versi obbligò il mondo occidentale a farsi “padrone” della terra compresi i popoli che l’abitavano, istaurando l’economia-mondo e con esso lo scambio” ineguale”.

In questo contesto il povero di Assisi fu un santo radicalmente “antimoderno”. La povertà francescana, o meglio la paupertas è in perfetta linea con il discorso della Beatitudine di Gesù, anzi Francesco va oltre il puro e semplice rifiuto della ricchezza materiale, spingendosi verso la “mitezza”, la totale e radicale rinuncia verso qualunque tipo di “volontà di potenza” individuale a partire dalla sapienza e dalla cultura, a loro volta forme fondamentali di ricchezza e potere.

Il modello e l’esempio di San Francesco colpiscono al cuore la modernità col suo culto sfrenato e unidirezionale di qualunque forma di individualismo. Per capire Francesco dobbiamo sostituire alla nozione di “bene”, che domina il pensare comune con un nuovo paradigma retto dal “giusto”.

Ora, la povertà è la sola condizione per vivere con “giustizia” in questo mondo sorretto dall’eccesso, la ricchezza è una anomalia, una ipertrofia, la dismisura, l’arroganza che le leggi di natura non consentono a nessuna entità. Esiste, vero, l’abbondanza così come la scarsità, ma sono condizioni transitorie e meno che mai istituzionalizzate.

Non si può essere “ricchi” in mezzo ai poveri, né restare sempre “poveri” in mezzo ai ricchi.

Perciò Francesco resta per gli Italiani il più disatteso, il più tradito, il più incompreso dei santi!

Disatteso: il suo rapporto con gli enti di natura supera e spiana la concezione giudaica-cristiana: l’uomo è parte del tutto, gli esseri viventi hanno pari “dignità”, la correlazione tra gli esseri viventi è piena e totale.

Tradito, proprio da chi ogni anno il 4 ottobre monta il solenne scenario ricorrenziale, trasformatosi ormai in una oscena e blasfema parodia. La chiesa di oggi è priva di coraggio ,ha perso la sua carica dirompente,secolarizzata è rimasta imbrigliata nella realtà della modernità ,lascia da soli i sostenitori radicali dell’ecologia profonda, la nuova visione della economia della decrescita ,compresa la teoria del dono.

Il povero Francesco resta incompreso, dai poveri, i quali, poveracci, si illudono di combattere la loro povertà con la “ricchezza”, l’abbondanza come regola di vita. Eppure è la “mancanza” ciò che muove il mondo, la vita!



lunedì 6 maggio 2024

Il Miracolo

 

                                       Peppino Bivona

 

Turiddu, il sacrestano della chiesa del Soccorso, pedalava a fatica, affannato,ansimante  lungo la ripida strada che saliva dritta verso la chiesa, scarsamente illuminata da radi lampioni gialli. La luna era quasi piena e sembrava toccare la cima del campanile.

Ormai erano trascorsi tanti anni da quando ragazzino affetto da polio, sua madre l’aveva affidato alla benevolenza di don Saverio il prete della parrocchia, assegnandone i compiti di sacrestano.

Turi, in verità anche se  non molto sveglio, svolgeva con dedizione i compiti assegnati e tutto sommato don Saverio non ebbe mai motivo di lamentarsene.

Tuttavia il nostro Turi da un po' di tempo sembrava mostrare segni di insofferenza verso i fedeli della parrocchia. Aveva un atteggiamento quasi scontroso,rispondeva a tono. Orbene dovete sapere che la prima nicchia appena si entra nella chiesa a destra, quasi opposta al fonte battesimale,era stata collocata la statua della bella e giovane Madonna Azzurra ,dal volto atteggiato ad un mesto sorriso e dagli occhi, ovviamente azzurri, da cui sgorgavano una dolcezza, una pietà che le parole umane non sarebbero mai riuscite a rendere appieno; persino il manto celeste, che scendeva in larghi panneggi le donava una grazia divina. Eppure a giudizio di Turi , la gente  non si curava della vergine,in verità neanche il parroco testimoniava particolare attenzione. Questa indifferenza generalizzata aveva acuito in Turi la sensazione  di una  palese “ingiustizia” quasi un sopruso da parte degli altri santi! Perché si chiedeva Turi ,la Madonna dell’0ro era oggetto di una venerazione,di grande devozione, esaltata quasi fanatica; come se solo Lei fosse in grado di aiutare le anime in pena, di consolare gli afflitti, di operare miracoli!Cosi come se non bastasse il 12 di settembre  di ogni anno per la festa della Madonna dell’Oro si riversavano in piazza migliaia di fedeli! Che cosa cercavano quelle folli di pellegrini? I più ci andavano a implorare un miracolo( che non succedeva mai o quasi mai).Forse attratti dal luccichio di tutto quell’oro che ammantava la Madonna!

 Invece 8 maggio la festa della Madonna Azzurra, i vecchi restavano a casa davanti la televisione o sedevano al bar a giocare a carte e i giovani a bere birra o in discoteca. La piazza restava vuota e muta.

Turiddu da troppe notti dormiva poco e male,ma in una di queste l’immagine della Madonna Azzurra gli era apparsa in sogno; aveva il volto rigato di lacrime e lo guardava dolcemente, muta come a volergli comunicare qualcosa. Il poveretto  di quello sguardo pietoso diede una sua personale chiave di lettura!

Avevamo lasciato Turiddu che pedalava la sua bicicletta e  finalmente raggiunge stremato il portone della Chiesa ,lascia fuori le bicicletta, non prima di sganciare dal manubrio la grossa e pesante  sporta di vimini .Il grosso portone cigolò due volte aprendosi e richiudendosi dietro di lui. Si diresse deciso verso la statua della vergine dove erano rimasti accesi due lumini rossi. Turiddu  si fermava in ascolto, tratteneva il respiro, inquieto, allarmato, con il cuore in tumulto. Appoggiò la borsa  sul gradino della lapide ai piedi della balaustra di marmo rosa,badando che il contenuto non si rovesciasse per terra, tolse i vasi con i fiori e versò il contenuto alla base della statua. Le cipolle ricoperte di una pellicola lucente si sparsero, quasi con ordine. Il sagrestano non perse tempo, si mise a tagliarle a più non posso,non importava se venivano fuori pezzi piccoli e pezzi grandi. Il prodigio ( l’effetto)  si verificò quasi subito: gli occhi della statua si arrossarono e li coprì un velo di lacrime .No, pensava turi, l’apparizione  di quella notte in sogno non l’aveva ingannato!Usava il coltellaccio calandolo sulle cipolle con fendenti rapidi e precisi dall’alto in basso. A Turiddu il cuore gli batteva sempre più forte, all’unisono con i movimenti delle braccia:finché udi distintamente un leggero sospiro, quasi un singhiozzo: levò gli occhi al cielo e sul volto della madonna ora scendeva una grossa lacrima,rotolò dolcemente lungo la guancia,  simile ad una perla:rimase un istante in bilico sull’orlo del mento, poi riprese a rotolare seguendone la curva interna sul collo, sul petto lungo una piega del mantello. Turiddu era riuscito nel suo intento,coprì con un grosso panno  scuro e si precipitò a suonare le campane a stormo e a spalancare le porte della chiesa al sole che si levava radioso. Da ogni parte la gente occorreva, prima i paesani ,poi quelli che venivano da lontano. Si assiepavano in chiesa pressati come sardine per vedere la statua miracolosa della Vergine Azzurra. Mentre fuori si allungava la fila interminabile di fedeli.

Ora  però le lacrime della Madonna “miracolosamente” divennero vere la poverina di fronte a quello spettacolo Pianse!

Pianse per quelli che si buttavano in ginocchio, chi bocconi .Gridavano ,Piangevano. Alcuni esaltati quasi venivano alle mani. Molti si sentivano male ,altri svenivano

La Madonna pianse lacrime amare  vedendo in lontananza un serpente di auto  e di pullman che si snodavano  dalla strada verso la sua Chiesa.

La madonna pianse per i tanti mercanti che industriavano: self-service,bazar,bancarelle traboccanti di souvenir, oggetti dell’artigianato,cartoline, piccole statuine della Madonna.

Pianse per quella distesa di cantieri edili gru che ruotavano nel cielo per costruire alberghi ed ospedali

Pianse per tutti quegli infelici che cercavano una speranza, gli oppressi la libertà, i ciechi la vista gli storpi e gli sciancati , di raddrizzarsi.

Ma cosa avevano capito questi poveretti? Cosa aveva capito nel sogno Tiriddu?

Ora ai piedi della statua ardevano una distesa di ceri,salivano verso il suo viso sottili fili di fumo nerastro acre, tanto da provocare nuove lacrime.

Maria pianse a lungo, nella solitudine della notte, immersa in un mistero  a Lei altrettanto oscuro!

venerdì 3 maggio 2024

Le radici profonde dell’identità


Giuseppe Bivona

Nella cultura popolare contadina i prodotti della terra ,in particolare l’olio,il vino,il formaggio e il pane, erano considerati  “sacri” in quanto espressioni autentici della terra,  portavano inconfondibilmente impressa la traccia del “luogo”  ovvero la qualità essenziale.

Cosi, ad esempio, mangiare i prodotti della terra che si attraversava o si visitava era un rito  quasi sacrale,  perché significava  arricchirsi  dell’energia  del luogo.
La scena ci rimanda alla figura del viandante , curioso ed insaziabile “ricercatore” colui che in ogni terra/luogo incontra ciò che è  sempre uguale e sempre diverso: la natura autentica della vita e  l’emozioni.
I prodotti del luogo si guadagnano nel tempo le loro identità attraverso  un lento processo  di “deposito” ed “ accumulazione” a cui partecipano intere generazioni delle popolazioni locali che costantemente  e diligentemente  hanno saputo  felicemente coniugare il  prodotto  con il processo, in una fusione quasi inscindibile che qualsiasi scellerato tentativo  di decolonizzarlo vanificherebbe i peculiari aspetti qualitativi.
Ma quali segreti meccanismi  legano cosi  strettamente il prodotto alla terra/luogo?
Quali  complessi e complicati processi  biochimici  si intrecciano in un sincronismo  cosi perfetto   da rendere unici , inimitabili , intrasferibili  certi prodotti  alimentari?
Se mi consentite , mi avvarrò di alcuni esempi  tratti  dalla realtà  di un angolo della nostra Sicilia, nella Valle del Belice : il pane nero di Castelvetrano, le olive verdi della Nocellara del Belice, la “vastedda” del Belice.
Il pane nero di Castelvetrano è stato l’orgoglio e vanto delle casalinghe di questo centro agricolo localizzato a pochi passi dalla greca Selinus. Qui per generazioni le “comare” all’interno dei cortili  si scambiavano  il “crescente”  ovvero il lievito madre  da cui prendeva avvio il complesso processo di acidificazione-levitazione. Le farine provenivano dalla molitura  di grani tradizionali , Capeiti, Biancolillo, Timilia  macinate con il mulino di pietra , lentamente  , per non surriscaldare e mantenere integri i “granuli “ di amido. La legna era quasi sempre la fascina proveniente dalla pota delle olive. I tempi  lunghi dell’impasto e una oculata  gestione del forno  ci regalano  questo eccezionale prodotto di questa terra.
L’olivo , varietà Nocellara del Belice, cresce  rigoglioso  in un triangolo  costituito dai  comuni di Partanna, Castelvetrano e Campobello di Mazara.  Qui il sottosuolo è prevalentemente costituito da calcarenite  che assicura alle drupe   una consistenza  tale da sopportare il processo  di conservazione in salamoia ,anche “schiacciata” per più di un anno senza mai perdere la croccantezza della polpa . Ma il suo inconfondibile flavuer  assicurato  da ceppi di batteri  indigeni  che attivandosi  avviano il processo di “ addolcimento “ al naturale   regalandoci  queste prelibate olive da mensa.
L’ allevamento della pecora nella Valle del Belice è abbastanza diffuso  e prevale quasi esclusivamente la razza locale. Ebbene in questi luoghi nei mesi più caldi dell’anno si raggiungono punte di 40-45 C con il frequente rischio  che i formaggi si guastano , perciò i pastori  li  rilavorano  in acqua calda e come per miracolo il formaggio inizia a “filare” e fanno  assumere successivamente la forma  rotondeggiante , come la pagnotta del pane.
Questi pochi esempi  che vi ho brevemente descritto,  servono a comprendere come  nel lungo tempo ,in questi  luoghi, si sono  differenziati e selezionati  ceppi di batteri  che in stretta coevoluzione con le tipiche produzioni locali  hanno permesso  si definire un “unicum”  a cui  restano indissolubilmente legati il luogo, il prodotto e il processo . Le popolazioni locali hanno nel tempo  adattato , modificato  fino all’ottimizzazione i diversi componenti , cercando ,più che stravolgere la natura , di assecondarla, piegarla , giusto quanto fosse necessario , anzi rispettandola  e spesso assicurandosi una sinergia con essa.

Molte elaborazioni di prodotti tradizionali  sono assecondate da un discreto , riservato , rituale , quasi che le popolazioni agricole volessero conciliare il difficile rapporto tra natura e cultura , sapevano che i lenti e complessi processi che coinvolgevano  le “ fermentazioni” subivano  l’influenza di molti fattori per cui era buona norma un rituale ben augurale.  Valga per tutti il segno della croce  delle massaie appena terminato l’impasto della farina  e l’avvio della lievitazione