lunedì 22 dicembre 2014

Buono da mangiare o giusto per nutrirci?



Il cibo deve essere: più buono o più giusto?

Giuseppe Bivona

“La vucca è n’aneddu  chi si futti  turri e casteddu” ( La bocca è un  muscolo anelli forme in grado  di dissipare interi patrimoni compresi torri e castelli)

                                       L’anziana nonnina espresse la sua opinione  con tono sommesso  , ma scandendo con precisione le parole ,  forse perché voleva che non ci fossero dubbi! Entrò nell’ampio salone  della sala-soggiorno e fu investita  da una tavolata riccamente imbandita di ogni ben di dio.
Alice udì la provocazione dell’anziana donna  e a primo acchito non ne comprese il senso logico però storse garbatamente il naso. Figurarsi, Lei … cosi attenta e meticolosa nell’esaltazione dei sapori ,  alla ricerca puntigliosa della combinazione tra gli elementi cibali .. e poi la raffinatezza nell’individuazione del giusto equilibrio dei componenti,  giusta cottura ….insomma qualcosa che rasenti…. erotismo!   

Per farla breve  ad  Alice  le sensazioni olfattive e gustative sono delle emozioni  umane talvolta uniche ed irripetibili, che sarebbe un sacrilegio non goderseli!
Eppure la “nonnina” passando accanto al tavolo, riccamente assortito ed appoggiandosi al suo bastone  ripeteva come una nenia…” Ormai ogni giorno è Natale,una festa continua,  ma l’abbondanza  annulla il desiderio e senza desiderio non c’e godimento….Viviamo  nell’era che ha perso il senso dell’limite , possiamo mangiare tutto quello che desideriamo. Una volta non era cosi, attendevamo  bramosi  le feste e come se la vigilia…insomma il sabato era meglio della domenica!!”
Si, Alice sapeva  ed amava cucinare come poche donne sanno fare ,( i più gettonati sono sempre dell’atro genere) la sua cultura agroalimentare  era sorretta dalla dote naturale legata strettamente al suo  ..buon naso.!
Perciò non perse tempo: “ Strano, molte persone anziane  si “rifugiano” nel cibo  come la sola ed unica esperienza che possa sentirle in vita, quasi che con  le emozioni del gusto  le facessero sentire ancora  saldamente attaccati  alle cose terrene ,legati al sottile filo della vita.”
Invece la nostra “nonnina” non si lascia incantare dalle sirene del gusto . Dai suoi oltre novantanni  aveva maturato ,per le tanti stagioni trascorse  una  lapidaria certezza: le porte dell’inferno sono lastricate   dal facile  ed immediato godimento “
Il dialogo, a  tratti informale continua,”Chissà,” pensò Alice   “ma  certe persone, anziane e non, oggi sembrano occultare il piacere del cibo quasi fosse un atto …peccaminoso! Lo avranno ereditato da San ‘Agostino che il solo unico amore l’ho dobbiamo esprimerlo nel desiderio assoluto con dio e non distrarlo in altre direzioni” .
L’anziana donna non sembrava farsi intimorire dalle dotte citazioni di Alice , rimase in silenzio qualche istante e poi  continuò:
“Questo nostro mondo è tutto strano   paradossale, stravagante…se siamo isodisfatti , infelici, tristi ed ammalati  attiviamo la “nostra “ economia”,ovvero consumiamo di più,  spendiamo senza riflettere per l’acquisto di prodotti suggeriteci dalla pubblicità , varchiamo senza  ritegno  le soglie delle farmacie per rifocillarci  degli ultimi ritrovati della farmacopea.  Ebbene, per strano che possa sembrare dobbiamo esser”infelici”  per consumare di più! Sembra che l’istinto di morte ,di freudiana memoria, passi   dal desiderio di veleni variamente assortiti sotto forma di  sozzerie alimentari , per non parlare dell’abuso di alcool e tabacco.”
 Oggi moltissimi cibi  ingannano,drogano  il cervello , la sede primaria dove vengono codificati le sensazioni olfattive e gustative , decidiamo sulla bontà di un alimento sulla base di sensazioni emotive, viscerali, emozionali  in un scellerato scambio tra messaggi, impulsi gusto-olfattive e risposta logica emessa dal cervello dopato .
Ogni giorno la signora Clerici  come  tanti altri ,in  altri canali televisivi,ci bombardano di bizzarre ricette propinati da  cuochi più o meno famosi tutti  intenti ad esaltare,stupire, emozionare le papille gustatine ed olfattive . Ci sorprendonocon le più impensabili stramberie  al limite dell’assurdo del buon ..gusto
 Ma Chiediamoci:
E tutto l’apparato  digestivo,  enzimatico, assimilativo  cosa ne pensa dei tantissimi  alimenti che in forma e contenuto cosi disparati entrano senza il “loro “ permesso” nel nostro organismo? 
Come si comporta il nostro fegato quando si vede arrivare dei strani grassi sotto forma isometrica “trans” .
 Che destinazione  riserviamo alle tanti peptoni e polipetdi  , che non riusciranno a trasformarsi in amminoacidi .  Per ogni cibo che ingeriamo  non siamo soliti fare  una attenta analisi Ci limitiamo ad un superficiale ,estetica valutazione  visiva,olfattiva gustativa.
Viviamo uno strano rapporto asimmetrico col cibo , : siamo pressoché identici nelle funzioni metaboliche all’uomo del paleolitico  che non aveva “truccato “  nulla della natura  , invece ingeriamo prodotti alimentari che sono diversi e distanti anni luce dal contesto in cui si è evoluto  l’uomo sapiens
La nonnina, ora se ne stava in silenzio per anni aveva visto e ..sentito stupidaggini in televisione programmi  confezioni al solo unico scopo di esaltazione dei sapori  senza avere il minimo riguardo alla destinazione finale ovvero al mantenimento dello stato di salute e benessere   a tavola nel quotidiano rapporto col cibo. La sua quasi centenaria esperienza  l’induceva ad una strana conclusione : spesso e volentieri  le pietanze più ci appaiono buoni più ci fanno male!!
“ Ma allora “ disse un po’ spazientita Alice “ che cosa dobbiamo mangiare?
La nonnina  alzò il viso e le indirizzò uno sguardo benevolo:
“Dobbiamo sederci a tavola imbandita con “ naturalezza”   e sobrietà , il pasto deve  avere un singolare connotato : deve essere “parco” .  Ovvero dobbiamo alzarci da tavola avendo ancora …fame
A tavola come nella vita  dobbiamo fare esperienza de” limite” sapersi controllare ed opporsi  alla tracotanza del tutto e subito del godimento materiale immediato.  Non spegnere la domanda di bisogno.
Vedrai , alla fine questo “sacrificio “….. ne varrà la pena!!”


venerdì 12 dicembre 2014

DOVE ANDIAMO?

di Giuseppe Bivona

 Luoghi e non luoghi dove trascorrere le vacanze

Qualche  esempio di” GeniusLoci


                                                        È ormai celebre la distinzione fra luoghi e non luoghi proposta oltre ventanni fa dall'antropologo francese Marc Augé: "Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico si definirà un non-luogo". 
Sono non luoghi gli spazi relativi al transito e alla circolazione di persone, merci, denaro, informazioni: le stazioni ferroviarie, gli autogrill, i sotterranei della metropolitana, le sale d'attesa degli aeroporti, ma anche i supermercati, le banche, le grandi catene alberghiere e ristorative, i campi nomadi e profughi nelle periferie delle città. 
Laddove i luoghi esprimono una tensione emotiva, una storia e un'identità precisa,ovvero un genius loci, i non luoghi sono privi di storia, anonimi, simili gli uni agli altri.
Laddove i luoghi invogliano le persone a stabilire relazioni sociali, i non luoghi si affollano di individui che non comunicano: la vocazione dei non luoghi non è infatti quella di "creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie". 
Laddove i luoghi esprimono i loro significati e la loro identità ad abitanti e visitatori, i non luoghi hanno senso solo per la loro funzione immediata (ristorazione, trasporto, sosta, ecc.) e, paradossalmente, sembrano per questo lasciare spazio alla personalità e inventiva di ciascun individuo, mentre ,senza saperlo,  dettano le stesse condizioni a tutti.
I non luoghi però non sono una semplice negazione dei luoghi, qualcosa che esiste per sottrazione: sempre più spesso, infatti, luoghi e non luoghi si compenetrano. Da un lato spiagge, montagne, monumenti si trasformano inevitabilmente, se troppo frequentati e visti, in non luoghi: nell'affollamento e nella reiterazione perdono unicità e spessore storico, diventano piatte cartoline. Dall'altro autostazioni, metropolitane, aeroporti ecc. possono acquisire nel tempo un'identità storica, o diventare luoghi d'incontro e relazioni umane, con una loro individualità e densità simbolica.

Nella seconda metà del Novecento il turismo ha progressivamente aumentato il numero di spostamenti di persone nel mondo. Gli statunitensi sono stati i primi a permettersi il viaggio all'estero; negli anni Sessanta è stata la volta degli europei, poi dei canadesi, giapponesi, australiani, finché negli anni Ottanta è esploso il turismo di massa nei paesi ricchi dell'Occidente e Nord del mondo. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), oggi si muovono fuori dai confini nazionali oltre 900 milioni di persone all'anno, ai quali vanno aggiunti spostamenti interni quasi 10 volte superiori a quelli internazionali, per cui le persone che ogni anno viaggiano per turismo sarebbero circa 8 miliardi.
Gli spostamenti di massa hanno moltiplicato a dismisura i non luoghi del mondo, perché da un lato hanno trasformato in non luoghi molti di quelli che un tempo erano luoghi (dal Colosseo alla spiaggia caraibica, dalle Piramidi d'Egitto alle cascate del Niagara), dall'altro hanno indotto l'industria del turismo a costruire nuovi non luoghi: villaggi vacanze, complessi alberghieri e residenziali, campeggi.
Da vent'anni gli operatori del turismo internazionale moltiplicano sistematicamente l'offerta di non luoghi, e lo fanno per una ragione molto semplice: i non luoghi dei viaggi e delle vacanze hanno un'attrattiva particolare, piacciono, sono desiderati dai più. Vediamo perché.
Il non luogo non è mai del tutto nuovo. Lo si è già visto rappresentato in cartolina, sui cataloghi delle agenzie viaggi, sui media, sui souvenir portati a casa da amici e parenti che ci sono già stati. Così, vedere con i propri occhi un monumento celebre, visitare una città d'arte invasa dal turismo è soprattutto un atto di riconoscimento visivo. La gratificazione viene proprio da questo: non occorre sforzarsi troppo, non occorre neanche leggere o ascoltare le spiegazioni della guida turistica, perché riconoscendo dal vero ciò che abbiamo visto in foto ci sembra di sapere già quanto basta.
Il non luogo ci fa girare il mondo senza metterci mai a confronto con le diversità che ci sono nel mondo, il che è molto rassicurante: possiamo dirci gran viaggiatori senza aver mai messo in discussione le nostre abitudini e i nostri pregiudizi, sempre più forti nella convinzione che "tutto il mondo è paese".
I villaggi turistici e i grandi alberghi sono tutti simili fra loro, ovunque si trovino, anche quando gli operatori ne promuovono l'originalità, addirittura l'unicità, con lo stereotipo del "luogo esclusivo". In questi non luoghi si parla lo stesso esperanto (un inglese piatto e semplificato), si fanno le stesse cose (spiaggia, bar, un po' di sport, animazione), si mangiano gli stessi cibi (la cucina internazionale), si incontrano le stesse maschere (l'animatore, l'istruttore sportivo, l'addetta al baby club), si guardano gli stessi paesaggi (riquadri di spiagge fra palme e bungalow, sfondi di natura immancabilmente "incontaminata" e "rigogliosa", come dicono i cataloghi). Le varianti locali sono ridotte al minimo: un piatto più o meno speziato, una musica in sottofondo invece di un'altra, un verde più o meno brillante. 
Gli incontri con le popolazioni locali, con le loro storie e vite, sono sporadici e filtrati dalle gite organizzate, dalle escursioni fuori dal non luogo: andata e ritorno in giornata, dietro una guida locale ben ammaestrata a trattare con i turisti, a dare e dire ciò che vogliono. Non una parola sulle condizioni politiche, sociali ed economiche del paese in cui ci si trova, su dittature, persecuzioni, fame, malattie, così frequenti nel Sud del mondo. E così nei Caraibi si incontrano indigeni sempre "calienti", "poveri ma dignitosi", con "il ritmo nel sangue", in Oriente le persone sono sempre "sorridenti", in Africa i neri sempre "ospitali" e "contenti di vederci". 
Il non luogo ci fa sentire più liberi. "Lo spazio del non luogo libera colui che vi penetra dalle sue determinazioni abituali. Egli è solo ciò che fa o vive come passeggero, cliente, guidatore". Nel non luogo delle vacanze non siamo obbligati, se non vogliamo, a giocare i ruoli della vita di tutti i giorni: non siamo più né medici né commercianti né impiegati, siamo solo turisti. Il non luogo delle vacanze ci regala dunque un po' del suo anonimato, allentando la morsa della vita ordinaria, in cui il nostro profilo professionale, sociale, culturale tiene in scacco la nostra identità personale ed emotiva. 
Questa libertà provvisoria ci piace, ma in fondo non sappiamo che farcene: non riuscendo a ricomporre ciò che abbiamo lasciato a casa con ciò che abbiamo portato in vacanza, non sappiamo stabilire relazioni con gli altri che vadano oltre la nostra comune permanenza nel non luogo.
Il non luogo annulla le differenze fra i suoi visitatori, perché è opportunamente progettato, con diversi costi di accesso, per accogliere persone omogenee per censo e classe sociale. Una cosa è certa: nello stesso non luogo tutti hanno speso esattamente la stessa cifra e dunque tutti sono uguali. Una bella soddisfazione!. 
Ci sono non luoghi economici per turisti che comprano solo viaggi "tutto compreso"; non luoghi un po' più costosi per chi, pur cercando il tutto organizzato, non ama identificarsi con la massa e vuole qualcosa di speciale ma non troppo; non luoghi per coloro che desiderano vacanze veramente "alternative" o "avventurose", itinerari poco frequentati o insoliti, e per questo sono disposti a spendere molto più dei precedenti. 
In sintesi, il non luogo è particolarmente adatto all'idea di vacanza, intesa come vuoto, come buco nel pieno della vita ordinaria: vuoto di esperienza, vuoto di differenze, vuoto di storia, di identità, di relazioni. Non a caso le persone che tornano da un non luogo di vacanza lamentano tutte che, una volta riprese le solite cose, i vissuti della vacanza svaporano in poche ore. Per forza: erano vissuti sotto vuoto.
Eppure milioni di persone, nei paesi ricchi del mondo, lavorano tutto l'anno per concedersi qualche settimana di questi vuoti, e i non luoghi delle vacanze sono fra i più ambiti oggetti dei loro desideri e sogni: sono, appunto, vacanze "da sogno". 
Ma si dice anche, ed è altrettanto vero, che i popoli ricchi, gli stessi che viaggiano per turismo e vacanza, sono incapaci di desiderare davvero qualcosa: i bambini e gli adolescenti possiedono tutto ancora prima di chiederlo, gli adulti ingrassano, fagocitando oggetti e simboli senza averli davvero desiderati. 
Ma allora desideriamo troppo o troppo poco? Entrambe le cose, dipende da cosa intendiamo per desiderio. Il desiderio infatti è bifronte: collettivo e sociale da un lato, personale e individuale dall'altro. 
Si desidera una cosa perché altri le hanno dato una forma desiderabile, o semplicemente perché altri la desiderano. In quanto socialmente determinati, i desideri cambiano nel tempo e nello spazio e hanno una natura storica: un vestito secondo una certa moda piuttosto che un'altra, un cibo francese e non italiano, un uomo con una posizione sociale elevata invece che uno spiantato. 
Ma si desidera anche ciò che appaga il nostro più intimo modo di essere, che è in armonia con la nostra storia personale. In quanto legati ai bisogni degli individui, i desideri seguono le diverse inclinazioni personali: un abito demodé che mi sta così bene, un orologio vecchio che era del nonno, un lavoro che mi fa guadagnare meno ma mi piace di più, un amore che non risponde alle aspettative della famiglia ma mi rende felice.
Il punto è che la società di massa, producendo in serie i desideri collettivi, impedisce a quelli individuali non solo di esprimersi, ma sempre più spesso di nascere. È come se lo spazio del desiderabile fosse talmente pieno di desideri confezionati per noi da altri, che non sappiamo più dove mettere i desideri che sono davvero nostri. 
Dunque abbiamo troppi desideri collettivi, troppo pochi desideri personali. Dunque non sappiamo più desiderare nulla che altri non abbiano pensato per noi. Dunque i non luoghi fanno al caso nostro: privi di identità e storia, non ci costringono a confrontarci con la nostra né ci impongono alcuna relazione, né con loro né con i loro abitanti e visitatori. 
D'altra parte concepire un desiderio, coltivarlo, assaporarne la durata, cercare di realizzarlo in tempi e modi che rispettino la sua e la nostra natura è molto più faticoso che comprare al volo uno qualunque dei tanti desideri che la prima vetrina ci propone. E cercare un luogo, invece di un non luogo, è altrettanto faticoso: significa conoscere e riflettere sulla sua storia, sulla sua realtà politica, economica, sociale, sulle persone che in quel luogo incontreremo, su ciò che potranno darci e che noi potremo dare loro. Significa anche sapere se è davvero il luogo in cui vogliamo andare, se fa al caso nostro. Significa in altre parole sapere cosa desideriamo, ed è proprio questo che ci viene più difficile. 
Pensiamo a come si decidono i non luoghi delle vacanze: si va in agenzia, si guardano più o meno frettolosamente le foto di due o tre cataloghi, si compra il primo pacchetto che si adatta alla nostra disponibilità economica, al periodo in cui vogliamo partire, a preferenze generiche per il mare piuttosto che la montagna, per una vacanza "naturalistica" piuttosto che "culturale", per certe zone del mondo. È quasi per caso che finiamo in un posto invece di un altro, non certo per scelta ponderata e consapevole, né tanto meno perché lo abbiamo desiderato.
Così alla fine, una volta tornati dal non luogo di vacanza, racconteremo che ci siamo riposati, divertiti, rilassati, magari pure che abbiamo avuto una storia d'amore con l'animatore o l'animatrice, con il vicino di ombrellone. Difficilmente però racconteremo che siamo stati felici. No, la felicità è troppo, la felicità occorre davvero desiderarla, e il nostro non luogo non l'abbiamo davvero desiderato. 
D'altra parte, la felicità è quella cosa che il greco antico chiamava eudaimonía, con una parola molto densa che contiene dai mon, cioè il demone, il dio personale di cui parlava Socrate, ma anche l'anima, il soffio vitale, ciò che permette al corpo di stare in vita. Per trovare la felicità occorre prima desiderarla, e per desiderarla occorre dunque ascoltare e seguire il proprio demone interiore. Ma la voce del dio personale, come quella del genio del luogo, si perde nel frastuono dell'olimpo di massa.

sabato 6 dicembre 2014

Un chicco di sole


(seconda parte)

Giuseppe Bivona

Una farina che  si ricava  da piante  di frumento  che hanno perso  la loro  connessione  col sole  e che è maltrattata dalle tecnologie  di molitura  non può essere  che di scadente qualità .Non ha in se le forze  per consentire  una buona panificazione. Per questo le farine  sono ormai addizionate  di additivi vari . L’aggiunta di additivi  è un artificio  per consentire  la panificazione  che senza di loro non  potrebbe avvenire 

                                Oggi, il grano”moderno” è l’esempio più eloquente della stupidità umana come espressione dell’anomalo rapporto che l’uomo ha istaurato  con la natura . L’uomo non si sente più parte della Natura ,  se ne è separato e tenta di dominarla,  di  sfruttarla, senza preoccuparsi  delle condizioni disastrose in cui sta lasciando la terra alle future generazioni.
L’uomo contemporaneo vive una profonda contraddizione,  al limite della inconciliabilità, una sorta di “asimmetria” esistenziale: da un lato le sue capacità razionali gli consentono di manipolare gli alimenti in modo radicale e profondo. Attraverso la “tecnica” soddisfa ogni suo desiderio, appaga i gusti, esalta i sapori, rende disponibile nel tempo e nello spazio gli alimenti, insomma rende possibile l’impossibile. 
Tuttavia, per l’altro verso, questi alimenti, quando li ingeriamo, debbono fare i conti con il nostro sistema  enzimatico, metabolico, digestivo,  assimilativo che, per fortuna o sfortuna …è rimasto tale e quale madre natura ci ha consegnato raggiunto l’apice della catena evolutiva. 
Eppure le nostre difese immunitarie non perdono occasione per lanciarci dei messaggi chiari ed inequivocabili:  le intolleranze o le reazioni allergiche  debbono essere percepite  come un deciso monito  a cambiare la nostra “dieta” o meglio lo stile di vita. Forse a rimuovere il nostro atteggiamento  nei riguardi della terra, una esortazione  ad interrompere il processo di devastante follia , di collettiva ubriacatura..
 Il grano è un frutto particolare  che la natura ci ha donato e che per secoli  ne abbiamo rispettato  e curato la sua identità  in un rapporto simbiotico: io diffondo e difendo i tuoi “ geni “ e tu mi garantisci l’alimentazione in particolare nei mesi invernali: un patto  tra “esseri”   seri e responsabili.
 Così, per  diversi millenni, i nostri contadini selezionarono le sementi , ebbero cura amorevole del chicco di grano, come uno scrigno depositario dell’energia solare. Pensate, dopo la mietitura  i covoni restavano nell’aia per diversi giorni ,  perché si essiccasse e fosse consentito al silicio di migrare dallo stelo e dalle foglie alle preziose cariossidi. 
Poi fummo travolti  dalla follia, la tecnica pervade la nostra vita , colonizza le nostre menti,  annulla ogni pensiero alternativo, siamo omologati  sull’altare dell’efficienza, dell’economicità , dell’efficacia. Passiamo  dai beni alle merci,  dal valore d’uso al valore di scambio! 
L’industria molitoria ed agroalimentare  ci chiede un prodotto  particolare: che non si “deteriori “ il cui shelf life  sia il più lungo possibile perciò  non trova di meglio che le farine doppio zero, inalterabili per una conservazione illimitata nel tempo . Ma chiede  di più: vuole un contenuto glutinino il doppio di quello posseduto dai grani tradizionali . 
 Cosi  accade che le semplici tecniche di incrocio  non soddisfino le richieste della moderna  attività  molitoria ed agroalimentare, bisogna abbandonare la coltivazione dei vecchi obsoleti grani “poveri”  incapaci di rispondere alle nuove emozioni dettate dal gusto e dai variegati sapori , abbisogna  percorrere le nuove vie tracciate  dalle profonde modifiche incise sul DNA attraverso le radiazioni  nucleari  tipo gamma
 L’insensatezza umana  raggiunge il suo epilogo: i nuovi grani consentono di mettere in mostra torte farcite  dal volume incredibile, di lievitare finché lo spazio lo possa consentire, senza limite, senza misura…
Disponiamo di prodotti alimentari morbidi, cedevoli, flessibili ,  gommosi  e impalpabili, buoni a rispondere positivamente  ai dettami inventati  dai  precetti  pubblicitari. Le nostre sensazioni gustative ed olfattive sono colonizzate,  rese  prigioniere,   asservite  alle papille, elaborate da un cervello drogato,  percepite  come piacevoli sensazioni  emozionionali, ma! …
La struttura organica  e la successione metabolica  non rispondono alle emozioni gustative ed olfattive, il cibo introdotto viene sottoposto ai processi digestivi ed assimilativi secondo dettami precisi ed inalterati.  Deve conformarsi agli imperativi  per cui è stato “progettato”. L’esempio più eloquente sono le ”margarine”  la  cui struttura chimica  assume la conformazione “trans”  per cui non viene riconosciuta dalla ghiandola epatica e così passa indenne nel sangue con tutto il disastro che è capace di arrecare. Il glutine, come la caseina, è una calamità della nostra presenza alimentare.  Per Colin Campell sono due disastri che sconvolgono il nostro sistema villico – assimilativo- intestinalee….immunitario.   I grani moderni sono stati “inventati “ per rispondere  alle necessità dell’industria dolciaria e pastaria. Disporre di una percentuale di glutine  che ne rasenta il doppio delle varietà tradizionali   permette di commercializzare paste  che possono essere reclamizzate  resistenti alla cottura, lasciare l’acqua di cottura quasi limpida, sentirle sempre al dente. Ma nessuno vi ha detto  che questo glutine , la sua quantità, il suo rapporto interno ( gliadine e gluteline), reso possibile dalle concimazioni con nitrati,  è  la frazione tossica per i celiaci!

sabato 29 novembre 2014

Un chicco di sole


(Prima parte)


Giuseppe Bivona

Creso, Re della Lidia è l’antesignano dell’uomo materialista. Riteneva,infatti che la felicità potesse dipendere unicamente dalla disponibilità di denaro e  dalla gestione del potere.Ma la sua arroganza fu punita crudelmente perché dovette sub il’onta della sconfitta da parte dei persiani guidati da Ciro  e implorare la grazia mentre già il rogo bruciava. Dando il nome Creso alla varietà di grano , ottenuta con un metodo cosi violento,i ricercatori hanno voluto affermare il diritto di manipolare la natura a loro piacimento  come si tramanda sostenesse il mitico re che portava questo nome. Ma non va dimenticato  che a quel Re il fato riservò un destino crudele 
 

Il  seminatore aveva finito il suo lavoro, ora toccava  all’erpice  completare il lavoro di  interramento. Il chicco rimase  solo ,nella fredda ed umida terra ,ebbe paura , era tutto buio  e al calar della sera  l’umidità si era disciolto in una pioggerella fitta,fitta. Come tutti gli esseri viventi   dotati di memoria quando sono assaliti dall’angoscia non  rimane  loro ,altra via ,che  rifugiarsi nei ricordi
 In un tempo lontano  senza età  la sua vita era affidata al caso , le spighe si aprivano  senza alcuna difficoltà , pronti a disperdersi nell’ambiente circostante. Gli uccelli più di tutti ,i granivori ,ne colsero le originali virtù.. Tutto sembrava scorrere pacificamente , finché nel paleolitico   una donna e poi sua figlia , ebbero la felice intuizione di raccogliere separatamente le sole spighe che non si aprivano o che manifestavano una accentuata difficoltà a disperdere i semi. Demetra e sua figlia Kore sfidavano per la prima volta  la natura: nasce l’agricoltura.
 Ora era l’uomo che si prendeva cura del grano.Il grano si affidò  alle benevoli attenzioni dei nuovi soggetti che si facevano chiamare agricoltori
Prese avvio un singolare rapporto simbiotico, una singolare danza  tra natura e cultura(coltura) in cui le ragioni dell’uomo spesso si infrangevano sulle dure leggi  di “necessità”dettate dalla natura.
Cosi il grano per millenni non tradì la sua natura, mantenne inalterata questa sua speciale relazione con il sole: il colore giallo oro delle piante al tempo della maturazione , il colore giallo bruciato del suo polline , il fusto eretto, le sue foglie strette e sapientemente angolate erano state programmate per captare quanto più fosse possibile  i raggi del sole
E’ che dire del suo elevato contenuto di silice? Noi oggi  questo elemento lo scopriamo come ottimo conduttore di luce ( fibre ottiche)
Il chicco  nella tarda primavera si riempie cosi del prezioso amido,un vero concentrato di luce .E’ la forma di carbonio organico che per la sua purezza trova nel mondo minerale il suo corrispettivo nel ….diamante.
L’amido nella sua formulazione naturale è dotato d’elevata digeribilità : nel nostro corpo brucia senza lasciare alcuna scoria e proprio come i diamanti non lasciano  ceneri ma solo acqua e anidrite carbonica
La purezza dei carboidrati  spiega perché il glucosio,lo zucchero che proviene in larga parte  dalla digestione dell’amido sia il nostro unico e vero carburante. E’ l’alimento per eccellenza del nostro cervello. Ebbene si! Per dare pensieri  limpidi e coerenti la mente ha bisogno di nutrimento che porti viva luce  che ci “illumini”!
Al grano l’azoto  non gli necessita più di tanto ,anzi  per la sua natura solare non vuole essere forzato con dosi eccessive  di questo elemento . E poi  in natura ci sono altre famiglie vegetali ,come le leguminose ,che sopperiscono alla bisogna!
Tuttavia  nei primi anni del novecento  l’uomo abbandonò quel patto che durava da millenni: l’ unica forma di miglioramento genetico  che si era sempre praticata  consisteva nella pratica  della selezione massale che  l’agricoltore operavanel suo campo ( ammannare), scegliendo  le spighe che contenevano i chicchi  che avevano i migliori requisiti in termini agronomici e di produttività.
Accadde cosi che nel suo lavoro sul frumento,Strampelli introdusse invece la tecnica dell’incrocio  tra varietà e specie diverse al fine di ottenere nuove varietà  che soddisfacessero i criteri di produttività in termini di incrementi quantitativi in risposta alle concimazioni  con nitrati.
Dopo gli incroci  di Strampelli è arrivata l’epoca  della mutagenesi, con agenti diversi,prima quelli chimici poi i addirittura  le radiazioni nucleari.
Cosi verso la metà degli anni 70 alcuni genetisti italiani arrivarono  a produrre  la varietà di grano duro  Creso  mediante trattamenti con radiazione gamma.
Quale triste destino è stato riservato ad una pianta cosi nobile e solare!
Lo scopo  dell’irradiamento era quello di indurre mutazioni nel genoma del frumento .
E’ cosi è stato ,perché tra i semi prodotti dalle piante irradiate ce n’erano alcuni  che presentavano nuovi caratteri per effetto della mutazione. Dal Creso ,incrociato con altre varietà è venuta fuori  buona parte delle varietà che attualmente coltiviamo( Simeto, Colosseo ecc)
Ma perché abbiamo fatto tutto questo? Cosa hanno di più e di diverso questi nuovi grani rispetto a quelli antichi? I prodotti derivati dai nuovi grani possono influenzare negativamente la nostra salute?( continua)




venerdì 24 ottobre 2014

L'Olio secondo Veronelli

  Riportiamo l’introduzione alla prima edizione della guida Gli Oli di Veronelli, anno 2000, o almeno,alcuni passaggi decisivi, a testimonianza dell'ancora attuale pensiero veronelliano.

 
"… Giornalista-contadino, i prodotti della terra erano e sono il mio solo argomento.Ho dato maggior spazio al vino – che è il canto della terra verso il cielo – perchè mi affascinava; avrebbe affascinato anche i lettori."

Quando iniziai a scriverne, 1956, il mercato era dominio di una decina, poco più, di aziende vinicole: ritiravano le uve dai vignaioli – assioma: i contadini non sanno vinificare – facevano pocciacchere bianche, rosse e cerasuole, e le vendevano con “la marca”. Venisse valutato – il vino – per il prestigio della Casa e non per la sua reale qualità.
L’Italia enologica, nei confronti di Francia, era meno, molto meno che di serie B.

Il contrario per l’olio.

Le poche produzioni artigianali d’olio d’oliva franto – meglio ancora “affiorato” – giunto sulla tavola degli esperti d’ogni luogo del mondo, ha stabilito – son anni ed anni – essere il nostro olio d’oliva di frantoio – per ragioni di terra, clima e uomini – di gran lunga il migliore.
Senza possibilità alcuna di contestazione e di dubbio. Com’è allora che la produzione oliandola è in crisi?
… mi telefonano, molti, dalle terre del Centro e del Sud: non raccoglieranno le olive; i mercanti gli offrono il 40% del niente dell’anno scorso.
Cerco di dargli spirito. Ricordo loro quel mio racconto mai scritto sul corridore che avrebbe preso parte ad ogni circuito, ovunque nel mondo, pur che fosse in discesa.
E gli dico: «Avete sempre amato le salite. Raccogliete».

Ahinoi, troppo impervia la salita. Gliel’hanno posta avanti, le multinazionali alimentari: acquistano le olive, quasi sempre pessime, di tutto l’arco mediterraneo, le frangono alla brutto dio, correggono quel che n’esce con artifizi millanta se non con “la chimica”, lo mettono in bottiglia in uno stabilimento c’abbia fondamenta italiane – che so, a Casalpusterlengo, a San Pietro Vernotico, a Collodi Terinese, ad Imperia – oplà, ecco negli scaffali: l’olio italiano.

Prezzo? Metà della metà del costo di un olio prodotto con olive, davvero italiane…

Uomo libero, anche dalla paura e dal danaro, ho deciso di pubblicare questa Guida sull’olio d’oliva di frantoio e sui migliori produttori.

Un’opera – nota bene – che nasce dalla rabbia e non, come era avvenuto per ogni altra mia, dall’amore…
Rabbia? La fine del secondo millennio e l’inizio del terzo hanno dimostrato, con segni univoci, la necessità del ritorno alla priorità della terra.
Pochi uomini, indemoniati dalla volontà di potenza e di danaro, non ne vogliono sapere.
Col potere e col danaro, condizionano gli altri uomini, miliardi di uomini. E sono disposti ad andare oltre, a renderli schiavi.
Gran fortuna vi siano quelli che io chiamo, al di là dell’età, i giovani estremi, ed a loro ricorro. Una minoranza infima quanto ai numeri, lodevolissima per ideale: la libertà dell’altro.

Rabbia contro gli infami – pochi, pochissimi – raccolti in stretta cerchia nelle cosiddette multinazionali, solo intesi ad acquisire potere e a spartirsi danaro.

E nel 2000 tentano di stabilire una schiavitù addirittura peggiore che nei tempi più bui. 
Ho scelto l’olio di oliva di frantoio – anziché i frutti, le verdure, gli altri prodotti primi o appena manufatti della terra – perché nessun altro alimento é più aggredito dalla protervia “multinazionale”.

In conseguenza della priorità terragna gli uomini si sono accorti dell’esigenza di scelte rigorose e naturali, sempre confermate dai valori della scienza. L’olio di oliva di frantoio eccelle su tutti i grassi disponibili negli usi di cucina e di nutrizione per la sua naturalità.

Ripeto, l’olio d’oliva di frantoio, inteso – come va inteso – quale liquido ottenuto dalla sola frangitura delle olive, italiano, se franto da olive italiane.

Le multinazionali, in ogni luogo del mondo, e soprattutto in Italia, madre elettiva per qualità e quantità dell’olio di oliva di frantoio, hanno operato con estrema determinazione e violenza, così da avocare a sé un mercato da cui dovrebbero essere – proprio per la loro marchia industriale – avulsi ed espulsi.
Ci sono riusciti con l’autorità orrorifica del potere e del danaro.
Hanno imposto – col diabolico operare di anno in anno per anni – infami leggi ai vari stati produttori e poi alla Comunità Europea.
E’ necessario io insista: infami leggi adottate in ogni stato e nella Comunità da servitor cortesi “d’incredibile onestà”.

Gli olivicoltori italiani sono – secondo dati ISTAT – che mi sembrano in eccesso – 1.250.000 (un milioneduecentocinquantamila)…
Nessun altro prodotto è stato tanto tradito da leggi, italiane prima, comunitarie poi.

Così come un tempo, per i vini, elenco i miei imperativi categorici.
Primo: si dica olio d’oliva, il solo olio di oliva. Il liquido ottenuto dalla sola frangitura nel frantoio. 
Ogni altro olio ottenuto da sanse, rettifiche, raffinazioni, miscele, continua continua, abbia definizioni diverse – olio di sansa o che altro – senza la benchè minima citazione del frutto.
Proporrei inoltre, di eliminare gli aggettivi nonsense extra-vergine e vergine. Una sola definizione: olio di oliva di frantoio se mai con un’aggiunta migliorativa da studiare – extra, super, sovrano ecc. – per l’attuale extra-vergine.
Secondo: i controlli siano demandati ai Comuni (anche nell’ambito delle denominazioni protette).
Terzo: diventi d’obbligo e non facoltativa, la segnalazone in etichetta, sia dei luoghi esatti e veritieri in cui sono state coltivate le olive, sia della qualifica e dell’ubicazione del frantoio…

I miei imperativi categorici non comporteranno – contro quanto si vorrà affermare – alcuna reale difficoltà.

Così come é avvenuto per i vini, si moltiplicheranno a difesa dei consumatori, e a vantaggio degli olivicoltori.
1.250.000  che, con l’accettazione delle mie proposte, si faranno imprenditori capaci sul piano economico, in primis di assunzione di manodopera.
Per buona parte dei Comuni dell’Italia Centrale e, soprattutto dell’Italia Meridionale e delle Isole, ciò significa far uscire la propria gente dalla miseria e dalla disoccupazione. E’ una battaglia. Sarà dura, la vinceremo…»

Luigi Veronelli

martedì 16 settembre 2014

DOP, IGP, STG, straordinari strumenti di tutela delle produzioni agroalimentari tipiche riconosciute


Per prodotti agroalimentari tipici si intendono i prodotti con indicazione geografica DOP e IGP, l’STG, e i prodotti agroalimentari tradizionali; essi vengono classificati, dal punto di vista tecnico, rispettivamente in “certificati” e “non certificati” in quanto sono caratterizzati da distinti percorsi di riconoscimento e da livelli di impegno da parte dei produttori e di tutela giuridica del prodotto nettamente diversi.
Nei prodotti a denominazione d’origine DOP e indicazione geografica IGP viene riconosciuto, sulla base di un regolamento dell’Unione Europea, l’esistenza di un legame tra il prodotto e la zona geografica di produzione, comprensiva di fattori geografi co ambientali, storici e umani.
Nel caso delle DOP tali fattori peculiari incidono fortemente sulle caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche del prodotto e pertanto, per garantire tali caratteristiche, il prodotto non può essere ottenuto al di fuori di tale zona. Nel caso dei prodotti IGP invece i fattori storici, ambientali e umani della zona incidono su almeno una delle caratteristiche del prodotto, compresa la rinomanza; per l’IGP pertanto alcune fasi del processo che non incidono sulle peculiarità del prodotto, come ad esempio il condizionamento di un ortaggio o la lavorazione e l’imballaggio del riso, possono anche essere effettuate al di fuori della zona definita.
Il legame del prodotto con la zona geografica di origine deve essere dimostrato dai produttori attraverso un’approfondita documentazione che viene valutata dalla Regione e dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e, successivamente, dalla Commissione europea. Ottenuto il riconoscimento con la registrazione della DOP o IGP, il prodotto viene periodicamente verificato da appositi organismi di controllo e certificazione, al fine di garantire ai consumatori il rispetto della disciplina di produzione e delle caratteristiche specifiche.
La registrazione di una DOP o IGP da parte dell’Unione Europea, significa quindi che quel prodotto può essere ottenuto totalmente (per la DOP) o parzialmente (per l’IGP) in quella determinata zona che influenza le peculiarità del prodotto; tale riconoscimento pertanto crea giuridicamente un vantaggio competitivo riservato solo ai produttori che operano all’interno di quella zona nonché una tutela legale al prodotto e quindi al produttore, nei confronti di chiunque in Italia, in Europa o nel mondo, cerchi d’imitare tale bene o usurparne il nome protetto. Il riconoscimento della DOP o IGP permette quindi al consumatore di identificare con certezza un prodotto di riconosciute peculiarità, avente origine in un particolare territorio, seguendo ferree regole di produzione e di controllo che determinano e garantiscono le peculiarità, rispetto ai prodotti indifferenziati e globalizzati di provenienza incerta.


Una “Specialità tradizionale garantita” o STG, che viene riconosciuta dopo un percorso simile a quello necessario per registrare una DOP / IGP, viene tutelata dall’Unione Europea in ragione delle sue peculiarità legate non alla zona di origine ma al metodo tradizionale di produzione o alla ricetta riconosciuta. Questo è il caso della mozzarella STG o della pizza napoletana STG; tali prodotti con l’attestazione STG possono essere ottenuti in tutto il mondo ma solo se viene applicato il disciplinare di produzione approvato dall’Unione europea, che fissa il metodo tradizionale a garanzia delle peculiarità del prodotto. Anche per le STG vengono periodicamente effettuate le verifiche da parte di appositi organismi di controllo e certificazione accreditati a livello internazionale, al fi ne di garantire ai consumatori, in tutto il mondo, il rispetto della disciplina e delle caratteristiche tradizionali. I prodotti agroalimentari tradizionali sono quelli che, per la loro rinomanza e la tradizionalità del metodo di produzione, vengono inseriti dal 2000 nell’Elenco nazionale del prodotti agroalimentari tradizionali, istituito dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. L’inserimento nell’elenco di “nuovi” prodotti tradizionali è semplice: ogni anno, entro la metà marzo, i produttori del settore agro-alimentare possono presentare al Ministero, per il tramite della propria Regione, una breve scheda nella quale descrivono le principali informazioni sul prodotto, le caratteristiche, la tradizionalità del metodo di produzione o della ricetta. Tali prodotti, dopo una valutazione della scheda prima da parte della Regione e poi del Ministero, vengono inseriti nell’elenco nazionale mediante la pubblicazione di un Decreto ministeriale che aggiorna l’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali. L’approvazione dell’elenco non rappresenta un vero e proprio riconoscimento o tutela giuridica per i produttori, come viceversa avviene nel caso delle indicazioni geografi che DOP e IGP, ma può essere considerato uno strumento informativo per il consumatore e di marketing in quanto i produttori possono inserire sugli imballaggi e nel materiale promozionale la frase “Prodotto inserito nell’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali”. L’inserimento di un prodotto, oltre a costituire una ormai famosa vetrina per l’ampia gamma di peculiarità agro-alimentari regionali e italiane, può rappresentare un primo passo per iniziare il percorso di registrazione DOP o IGP, qualora il prodotto diventato rinomato, necessiti di una maggior tutela giuridica internazionale.

giovedì 11 settembre 2014

Dieta mediterranea, a Monreale il convegno "AlimentiAmo la vita"


                             Si svolgerà sabato 13 e domenica 14 settembre 2014, con inizio alle ore 11.00, a Monreale, presso l’eremo di Poggio San Francesco “AlimentiAMO LA VITA” una kermesse sulla dieta del mediterraneo organizzata dall’Associazione “Mons Realis” in collaborazione con I.Di.Med.



Scopo dell’evento sarà rappresentare le specificità dello stile di vita riconosciuto patrimonio dell’UNESCO evidenziandone gli aspetti identitari, salutistici e culturali. Il programma dell’evento, notevolmente articolato, prevede una parte convegnistica che vedrà, fra gli altri, la partecipazione di Lucia Borsellino, Assessore regionale per la salute, di Ferdinando Toia, Direttore Centro Maria Immacolata, di Piero Capizzi, Sindaco di Monreale, di Paolo Calabrese dell’Assessorato Beni Culturali e Identità Territoriale, di Sami Ben Abdeladi, della Presidenza Regione Sicilia, di Marcello Messeri, presidente del GAL Terre Normanne, di Rocco Di Lorenzo, Unione delle Associazioni no profit, di Bartolo Fazio, Consigliere delegato di I.Di.Med, di Angelo Granà, Presidente dell’Associazione “Mons Realis”, di Magda Culotta, Deputato nazionale e Sindaco di Pollina, di Salvatore Martorana, Presidente del Comitato Anci SiciliaxExpo 2015, di Aurelio Angelini, Presidente del Comitato Scientifico dei Comuni Unesco Sicilia, di Nino Sutera della LURSS – Libera Università Rurale dei Saperi e dei Sapori e di Maurizio Artusi di CucinArtusi.
L’importante iniziativa, mirata ad aggregare le eccellenze enogastronomiche del nostro territorio salvaguardandone la dimensione culturale e la biodiversità, prevede, inoltre l’allestimento della “Fiera della salute”, nella quale una trentina di aziende e associazioni del settore agroalimentare, provenienti da tutta la Sicilia, esporranno i propri prodotti offrendone una degustazione nella pausa pranzo. Sarà possibile, quindi, conoscere, scoprire, degustare, acquistare e nutrirsi dei prodotti della nostra amata terra di Sicilia, le cui proprietà organolettiche saranno ampiamente descritte nel corso del convengo

mercoledì 3 settembre 2014

Il futuro dell’agricoltura è nel ritorno alle radici

                                                                                       Negli ultimi decenni il sistema alimentare degli Stati Uniti e della maggior parte delle altre nazioni si è globalizzato. Il cibo viene scambiato in quantità enormi: non solo il cibo di lusso (come caffè e cacao), ma anche le derrate alimentari di base come grano, mais, patate e riso. 

La globalizzazione del sistema alimentare ha portato dei vantaggi: la popolazione dei paesi ricchi ha ora accesso ad un’ampia varietà di cibi in ogni momento, inclusi frutta e verdura fuori stagione (come le mele in maggio o gli asparagi in gennaio) ed alimenti che non possono essere prodotti localmente (come l’avocado in Alaska). Trasporti a lungo raggio rendono possibile la distribuzione del cibo da aree in cui abbonda a luoghi in cui è scarso. Mentre nei secoli passati il fallimento regionale di una coltivazione poteva portare ad una carestia, ora i sui effetti possono essere neutralizzati tramite l’importazione, relativamente poco costosa, di cibo dall’estero. Tuttavia, la globalizzazione del sistema alimentare crea anche una vulnerabilità sistemica. Al crescere del prezzo del carburante, aumentano i costi dei prodotti d’importazione. Se la disponibilità di carburanti fosse drasticamente ridotta da qualche evento economico o geopolitico transitorio, l’intero sistema potrebbe collassare. Un sistema globalizzato è inoltre più soggetto a contaminazioni accidentali, come visto recentemente con il caso della melamina, una sostanza tossica finita nel cibo in Cina. Il miglior modo per rendere il nostro sistema alimentare più resiliente contro questi rischi è chiaro: decentralizzarlo e rilocalizzarlo.
La rilocalizzazione avverrà inevitabilmente, prima o poi, come effetto del calo della produzione del petrolio, dato che non esistono sorgenti di energia alternative in vista che possano essere introdotte in tempi brevi per prendere il posto dei derivati petroliferi. Pertanto se vogliamo fare in modo che il processo di Transizione si sviluppi in modo positivo, piuttosto che catastrofico, bisogna che sia pianificato e coordinato. Questo richiederà uno sforzo appositamente mirato a costruire infrastrutture dedicate all’economia alimentare regionale, adatte a sostenere un’agricoltura diversificata ed a ridurre il quantitativo di combustibile fossile che è alla base della dieta Nordamericana.
Rilocalizzare significa produrre localmente una frazione maggiore del fabbisogno alimentare di base. Nessuno dice che dovremmo eliminare completamente il commercio alimentare: questo danneggerebbe sia gli agricoltori che i consumatori. Piuttosto, è necessario fissare delle priorità alla produzione inmodo tale che le comunità possano fare maggiore affidamento su fonti locali per gli alimenti di base, mentre le importazioni a lungo raggio dovrebbero essere riservate ai cibi di lusso. Le derrate alimentari basilari legate alla tradizioni locali, generalmente di basso valore e di conservabili a lungo, dovrebbero venire coltivate in tutte le regioni per motivi di sicurezza alimentare. Una simile decentralizzazione del sistema alimentare produrrà maggiore resilienza sociale, capace di contrastare le fluttuazioni del prezzo del combustibile. Saranno anche minimizzati, ove appaiano, i problemi relativi alla contaminazione del cibo. Nel contempo, rivitalizzare la produzione locale di alimenti aiuterà a rinnovare l’economia del territorio. I consumatori potranno godere di cibo di qualità migliore, più fresco e di stagione. Sarà ridotto l’impatto dei trasporti sul clima. Ogni nazione e regione dovranno escogitare la propria strategia di rilocalizzazione del sistema alimentare basandosi su un’ampia valutazione iniziale di debolezze e punti di forza. I punti deboli dovrebbero essere identificati tramite l’analisi delle numerosissime modalità di dipendenza dell’approvvigionamento locale di alimenti dalla disponibilità e dal costo del combustibile fossile, attraverso tutte le fasi del sistema di produzione agroalimentare e della filiera distributiva. Le opportunità saranno diverse a seconda delle comunità e delle regioni agricole, benché esistano molte azioni che i governi possono intraprendere quasi ovunque:

• Incoraggiare la produzione ed il consumo del cibo locale offrendo supporto alle strutture a questo scopo necessarie come i mercati contadini (farmers’ market).
• Inserire all’interno del sistema di gestione dei rifiuti installazioni per la raccolta dei residui di cibo da convertire in compost, biogas e mangime animale, da fornire a contadini e allevatori locali.
• Richiedere che una percentuale minima degli acquisti di cibo per scuole, ospedali, basi militari e carceri sia approvvigionata entro un raggio di 100km.
• Creare una normativa sulla sicurezza alimentare in base alla scala di produzione e distribuzione, in modo che un piccolo produttore che vende i suoi prodotti direttamente non sia soggetto alle stesse onerose regole di una multinazionale.
Gli agricoltori stessi devono ripensare le loro strategie: la maggior parte delle aziende orientate all’esportazione dovrà spostare la produzione verso alimenti di base per il consumo locale e regionale, uno sforzo che richiederà sia una analisi dei mercati locali che la scelta di varietà adatte per questi mercati; il movimento Community Supported Agriculture (Supporto all’Agricoltura di Comunità-CSA) fornisce un modello di organizzazione aziendale che si è dimostrato vincente in diverse aree. I piccoli produttori che affrontano significativi esborsi di capitali durante questa transizione possono costituire cooperative informali per l’acquisto di macchinari ad esempio trebbiatrici per i cereali, mulini o presse per la lavorazione dei semi oleosi o microturbine idrauliche per produrre elettricità. La scelta di rilocalizzare il sistema alimentare sarà più difficile per alcune nazioni e regioni rispetto ad altre. Dovrebbero essere incoraggiate la creazione di orti urbani e anche di piccoli allevamenti (di polli, anatre, oche e conigli) all’interno delle città, ma anche così sarà necessario approvvigionare la maggior parte del cibo dalla campagna circostante, trasportandolo alle comunità urbane e periurbane senza utilizzare combustibile fossile. In questo senso la rilocalizzazione dovrebbe essere vista come un processo e uno sforzo generale e non come un obiettivo assoluto da raggiungere.

*Estratto da “La Transizione Agroalimentare”