mercoledì 26 dicembre 2012

tabù della modernità: la medicina




(seconda parte)
Giuseppe Bivona



Non vorrei chiedere troppo tempo al mio medico. Vorrei soltanto che riflettesse per cinque minuti sulla mia situazione [...] che penetrasse la mia anima e osservasse la mia carne per giungere a capire la mia malattia [...] Quando prescrive analisi del sangue e radiografie ossee, vorrei invece che analizzasse attentamente me, oltre la mia prostata, cercando a tentoni il mio spirito. Senza questo percorso, non sono nient’altro che la mia malattia.
(A. Broyard)
Il concetto di salute e malattia  che domina le nostre convinzioni sono coerenti con la logica industriale della “mercificazione”  economica, ovvero la vendita  di strumenti e consulenze mediche.
Perciò la conoscenza è stata divisa ,segmentata, parcellizzata con il solo obbiettivo di cavar maggior  profitto.
Ma la  nostra vita ,come quella di tanti esseri viventi o meglio di entità viventi ,come le molecole, le cellule,gli organismi , sono governati  dalle medesime leggi fondamentali , come ad esempio dalla Teoria Generale dei Sistemi naturali . Proviamo ad analizzarla.
Di solito si  considerano i processi vitali largamente casuali , ovvero lo stato di disordine al posto di un ordine  e la mancanza di scopi  invece  che di gerarchie o finalità . Tutto ciò è molto fuorviante: ordine e finalità , sono inscindibili ,la seconda non è che ordine a quattro dimensioni, sono i dati  più sostanziali della nostra biosfera . Il ruolo svolto dalla scienza è individuare regole e trame , fino all’odierna  cibernetica  ovvero la scienza del controllo , il che equivale  a mantenerlo nel suo  corso o traiettorie , cioè nella direzione del suo scopo, in un contesto dinamico.
Sono concetti apparentemente  poco comprensibili, ma basta osservare come raggiungiamo lentamente  la stabilità  dopo tentennamenti a destra e manca quando montiamo una bicicletta o la dinamicità “statica” del mulinello fatto dall’acqua  quando togliamo il tappo al nostro lavandino.
 L’obbiettivo dei processi vitali è raggiungere la stabilità . Ora un sistema vivente è stabile  nella misura in cui è capace di  mantenere la sua struttura fondamentale  nei confronti di possibili “turbolenze” . O, se si preferisce , mantenere la propria omeostasi di fronte ai cambiamenti . L’entità vivente non è, e no può essere per definizione  “statica” , ma deve essere capace di  cambiare  per adattarsi ai cambiamenti ambientali .
Ebbene questi cambiamenti  non sono fine a se stessi , bensì modi di prevenirne altri più distruttivi .
Solo alla luce di queste considerazioni teoriche si può capire  meglio il concetto di salute  ovvero la tendenza  di un organismo a ricercare la sua stabilità , all’interno del suo ambiente fisico, psichico  e sociale.. In altre parole un organismo è sano  se è capace di mantenere la sua stabilità  di fronte a discontinuità potenzialmente dannose. La salute potrebbe essere definita come la proprietà continua , misurabile con la capacità individuale , di resistere agli attacchi chimici,fisici, infettivi o sociali.
Se definiamo la salute in questo modo , la nostra  nozione di causa/effetto  deve essere modificata radicalmente. La causa di una malattia non può essere considerata l’evento immediatamente precedente che l’ha innescata per esempio, al microorganismo associato a una certa malattia infettiva, o se si vuole ad un accidente, ma alla moltitudine di fattori  che hanno ridotto la resistenza dell’organismo al punto di farlo  cadere vittima  di una offesa  che normalmente  avrebbe provocato  soltanto sintomi blandi.
Ecco che non  basta più  stabilire se il tal cambiamento  fa sorgere sintomi clinici ,ma se è capace di ridurre la resistenza globale  degli esseri viventi  e quindi la loro stabilità o salute.
Tutto ciò indurrebbe a rivedere la medicina attuale e con essa la politica sanitaria  abbandonando la stolta presunzione di aprire una guerra chimica contro  tutti i vettori  di malattie  che equivale ad eliminare solo e solamente i sintomi . Essa dovrebbe invece creare  quelle condizioni  in cui le discontinuità  sono ridotte al minimo  e la capacità degli individui  di far fronte  alle perturbazioni e accresciuta al massimo.
Via via che i sistemi si sviluppano  attraverso il processo evolutivo , diventano sempre più stabili , cosi è possibile farsi una idea del tempo  nel quale un animale è vissuto in un particolare ambiente , semplicemente valutando in che misura  ha imparato a convivere con altre forme di vita compresi i parassiti . Se  vi ha vissuto a lungo , le malattie dovute a tali parassiti  diventate endemiche , sono relativamente blande  e la loro funzione si limita semplicemente  di eliminare gli individui vecchi e deboli , effettuando un controllo qualitativo e quantitativo  sulla popolazione.
Non mancano gli esempi sia nel mondo animale ,come gli effetti della mixomatosi dei conigli in Australia , che nelle popolazioni umane ,esempio dei popoli della Polinesia, quando vennero a contatto con i “civilizzatori” europei. Cosi appare evidente che con l’evolversi i sistemi viventi  diventano sempre più adatti al loro ambiente e più stabili, o meglio : l’ambiente  che più favorisce la salute  di un essere vivente è quello in cui esso è stato adattato dalla sua evoluzione e col quale si è coevoluto.
Ma è vero anche il corollario di questo principio . Quando l’ambiente di un essere vivente viene fatto divergere  da quello  con il quale  si è coevoluto  e a cui si è adattato , diventerà sempre meno stabile , meno capace di affrontare  le discontinuità , quindi meno sano. Alcuni scienziati hanno definito queste condizioni :”principio di disadattamento filogenetico” , ovvero “ se le condizioni di vita  di un animale si discostano  da quelle che prevalevano nell’ambiente  nel quale la sua specie si è evoluta  e probabile che si dimostri meno adatto  alle nuove condizioni  e conseguentemente  sono prevedibili  alcuni segni di disadattamento “(Stephen Boyden)
 Questo principio comprende non solo  i mutamenti ambientali  di carattere fisico chimico compresi i  cambiamenti relativi alla qualità del cibo o dell’aria  ma  anche vari fattori ambientali  non materiali , compresi certe pressioni  sociali  che possono influire sul comportamento.
(continua)   

lunedì 17 dicembre 2012

I nuovi tabù della modernità:la medicina



(prima parte)

Giuseppe Bivona

“Cosa faranno i beduini se, un giorno, i cavalli impareranno a parlare?”
(Proverbio arabo)

“ La sostenibilità futura del Servizio sanitario nazionale non potrebbe essere garantita nei prossimi anni….”
 Queste parole di Monti riecheggiano  nell’auditorio palermitano e come un tam- tam   si estendono  attraverso i media  ad una popolazione infreddolita e impaurita  ,timorosa  di perdere un  traguardo sociale faticosamente conquistato. Poi arrivano “ gli ululati “ dei diretti interessati  ,medici di ogni ordine e grado,  ospedalieri ,farmacisti , insomma tutto il mondo  legato alla “ sanità” , i quali non intendono mettere in discussione “questo” sistema sanitario, questa “cultura” medica ,  questo“ approccio” alla salute dei cittadini. Insomma un tabù da non toccare, discutere, criticare, manomettere.
 Ma Monti , da buon economista i conti sa farli e i bilanci sa leggerli. La spesa per i servizi sanitari , in Italia come del resto in altre parti del mondo è sfuggita di mano , sfioriamo il 70% e passa del Prodotto Interno Lordo!
Ebbene questa medicina “moderna” , piena di entusiasmo,  tracotanza e  baldanza per i risultati raggiunti e i successi che quotidianamente consegue, non si  chiede ,con un minimo di umiltà, come mai  le persone che si fanno visitare sono sempre di più?  Le degenze in ospedali sono sempre più numerose?  Cosi vale per l’acquisto di farmaci  e nel numero di giornate di lavoro perse  per malattie. Si dirà che le malattie infettive sono state debellate e che la vita media è aumentata.
Intanto stiamo assistendo  ad una nuova diffusione delle malattie infettive , dalla malaria, gonorrea,tubercolosi, polmonite ,ecc e se invece valutiamo l’aspettativa di vita di oggi non è cosi distante rispetto all’inizio del secolo scorso . E evidente  poi, come la medicina moderna resta impotente nei confronti  delle cosi dette “malattie della civiltà”  come il cancro ,le ischemie cardiache,il diabete ,le vene varicose,e poi tutte le innumerevoli patologie che vengono definite autoimmune. Di fronte a queste malattie la scienza medica non sa  fare altro che opporsi, maldestramente , con le sole armi di cui dispone: i farmaci  . Se provate a chiedere ad un medico perché ho il diabete il poveretto non esiterà ad accusare il pancreas  che di punto in bianco ha deciso di no produrre più insulina , se poi coraggiosamente osate sottoporre la vostra ghiandola ad esame  risulta che la funzionalità pancreatica è in piena efficienza : cosa è che non va . Bho!     Ora fino a quando i costi sanitari aumentavano , seguendo il ritmo del prodotto interno lordo , nessuno si accorgeva del disastro , ma ora che il PIL stagna, i bilanci della nazione non sopportano questi incrementi dei costi sanitari .
Ebbene c’è qualcosa di profondamente sbagliato in questa “scienza” medica, che insiste stupidamente , ma anche interessatamente , nello scambiare le cause con gli effetti. Proviamo ad analizzarli.
Oggi consideriamo lo stato di “salute” , come l’assenza di sintomi clinici . Ora molte malattie sono classificate nei termini dei loro sintomi , come ad esempio l’artrite, i reumatismi ,cosi come la nevrosi, la psicosi e la schizofrenia .  Ma accade spesso che i sintomi non siano altro che normali attività dei meccanismi di difesa . Nel tempo il nostro corpo ha perfezionato dei sistemi protezione contro le sostanze nocive . Per esempio il muco , può essere pericoloso se si accumula nella trachea e si espelle con la tosse. Le sostanze tossiche nell’intestino vengono eliminate con le diarree. Lo stesso vale per la febbre, ovvero il naturale aumento della temperatura corporea  a fronte di ingerenze esterne. Sopprimere la tosse, prevenire la diarrea, ridurre la febbre, significa contraddire  fondamentali processi naturali.
Eppure , se analizziamo con attenzione la moderna medicina  e le pratiche mediche non fanno altro che  attenuare o eliminare i sintomi e nello stesso tempo esacerbare o rendere croniche le malattie  che dovrebbero curare. Ma c’è di più , se i farmaci usati sono biologicamente attivi  possono  innescare  effetti collaterali  e indurre  malattie che prima non c’erano  ovvero malattie cosi dette “iatrogene” a cui la farmacopea  provvederà all’uopo  con il beneficio  delle case farmaceutiche che vedono salire gli indici quotati in borsa e per converso il disastro dei conti pubblici . Molto spesso   l’obbiettivo della cura  è solo l’allungamento  della sopravvivenza umana in se stessa , senza alcun riguardo  della qualità della vita prolungata : una impresa assurda e immorale , se teniamo conto  della sofferenza  che il paziente deve subire  come conseguenza della  cura  necessario a tenerlo in vita giorno dopo giorno.
 Qui il picco della spesa sanitaria raggiunge il suo apice ,   vengono profuse terapia altamente costose per pazienti che moriranno entro i prossimi dieci mesi . La “leva”  per questi sciacalli è formidabile : “ Come? vuole interrompere la terapia al suo caro congiunto?”
Ma torniamo ai sintomi. Spesso però l’assenza di “sintomi clinici “  in un paziente non equivale  necessariamente  come segno di buona salute . Il 75% dei pazienti visitati dai medici  oggi non soffrono di nessun sintomo clinico riconoscibile . Eppure  si sentono malati e in un certo senso lo sono.( continua)     

lunedì 10 dicembre 2012

Campagna popolare per l'agricoltura contadina




 Campagna popolare per una legge che

RICONOSCA L’AGRICOLTURA CONTADINA
E LIBERI IL LAVORO DEI CONTADINI DALLA BUROCRAZIA 
La Lurss Onlus tra i sostenitori dell'iniziativa.


Fino a non molti decenni fa esistevano in Italia intere aree rurali. Non è che non esistano più, è solo che queste aree hanno preso due derive: in alcune, quelle più fertili e meglio collegate con la rete stradale, è piombata l’agricoltura industrializzata, (in crisi perenne) che si è buttata a capofitto su terreni da coltivare con macchine e pesticidi, come nella Bassa Padana; negli altri casi la popolazione ha scelto di elevare il proprio livello di vita e di abbandonare una vita e un’economia di sussistenza, magari tra i pascoli dell’Aspromonte, e di altre aree arretrate del sud, e di emigrare nelle città.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti è che in Italia ci sono da un lato sistemi urbani che stanno esplodendo, città infinite (si pensi alla cosiddetta Megalopoli Padana, che va da Milano a Venezia senza soluzione di continuità), contigue a terreni dove l’agricoltura a livello industriale la fa da padrona, e dall’altro lato esistono interi pezzi di Paese che nei casi migliori vivono o grazie alla diffusione di agriturismi e bed and breakfast, oppure vivono un costante decremento demografico e vengono tenuti in piedi da pochi anziani.
Ma quella vita di sussistenza, che ha dato da mangiare a tutti nei secoli, era in realtà una magnifica espressione della società contadina che, tuttavia, comportava tanti rischi, come la mortalità infantile, l’alto livello di diffusione di malattie, la malnutrizione. Tutti aspetti inevitabili se quella vita era il massimo a cui la gran parte della popolazione poteva realisticamente aspirare.
Aspetti negativi su un piatto della bilancia che venivano equilibrati, dall’altro, da valori contadini, tradizioni enogastronomiche e artigianali tramandate di generazione in generazione, ma soprattutto la realizzazione di un tipo di società fondata sulla solidarietà reciproca, valori che oggi si sono quasi consumati dopo decenni di industrializzazione e di sradicamento degli individui dalla terra.
La convinzione dominante che l’approvvigionamento alimentare potesse essere affidato al mercato globale ha, tuttavia, subìto un forte ridimensionamento negli ultimi anni di crisi, che, se non altro, ha avuto il “merito” di portare molti a rivalutare quei valori e quelle tradizioni troppo velocemente abbandonati.
Oggi c’è un aspetto molto importante in tutto questo discorso, aspetto costituito dalla possibilità di coniugare insieme il tipo di vita rurale con i controlli igienico-sanitari garantiti dai presidi medici diffusi(chissà ancora per quanto) sul territorio, che un tempo non esistevano o erano meno in grado di controllare spiacevoli o tragici fenomeni. Oggi ci ritroviamo nella condizione di poter tornare indietro progredendo, nella condizione, cioè, di recuperare un modo di vita coniugandolo con il controllo su prodotti e persone propri del nostro tempo. Difficile però che ciò possa avvenire, dato che nel tempo queste forme di agricoltura ed allevamento a gestione familiare sono state progressivamente indebolite dalla costruzione di un apparato legislativo e burocratico volto senza dubbio a favorire la produzione alimentare con mezzi industriali, più facilmente controllabili.
Così si arriva al punto del discorso: il Coordinamento Contadino Regionale e l’Associazione Rurale Italiana hanno da tempo intrapreso una campagna popolare finalizzata all’approvazione di “una legge che riconosca l’agricoltura contadina e liberi il lavoro dei contadini dalla burocratizzazione, poiché esiste un numero imprecisato di persone che praticano un’agricoltura di piccola scala, dimensionata sul lavoro contadino e sull’economia familiare, orientata all’autoconsumo e alla vendita diretta; un’agricoltura di basso o nessun impatto ambientale, fondata su una scelta di vita legata a valori di benessere o ecologia o giustizia o solidarietà più che a fini di arricchimento e profitto; un’agricoltura quasi invisibile per i grandi numeri dell’economia, ma irrinunciabile per mantenere fertile e curata la terra (soprattutto in montagna e nelle zone economicamente marginali), per mantenere ricca la diversità di paesaggi, piante e animali, per mantenere vivi i saperi, le tecniche e i prodotti locali, per mantenere popolate le campagne e la montagna. Per quest’agricoltura che rischia di scomparire sotto il peso delle documentazioni imposte per lavorare e di regole tributarie, sanitarie e igieniche gravose, per ottenere un riconoscimento che la distingua dall’agricoltura imprenditoriale e industriale, per ottenere la rimozione degli ostacoli burocratici e dei pesi fiscali che ostacolano il lavoro dei contadini e la loro permanenza sulla terra.”

Francesco Siviglia

venerdì 30 novembre 2012

La storia riscritta dai vinti




Giuseppe Bivona


L’anziano preside spense la sua quarta sigaretta della mattinata, erano le otto del  15 maggio 1960  il cortile della scuola media “ Santi Bivona”  rimbombava   un  vocio festoso di ragazzi . Con  qualche difficoltà riuscì a  zittire i suoi giovani studenti e con voce tremula cosi parlò : “Oggi è una giornata storica per la nostra patria , con lo sbarco dei mille e la battaglia di Calata fimi , un secolo fa ,il generale  Giuseppe Garibaldi e i suoi 1000 eroi  posero le basi per la costituzione dell’unità d’Italia.. Voi oggi  avete il privilegio di visitare questi  storici luoghi che furono teatro di una  sanguinosa battaglia  che segna un pietra miliare  nell’epopea risorgimentale “
Un colpo di tosse , tipica del fumatore incallito , spense  le ultime parole del preside, che si modulavano sempre più piene di commozione .
 Per molti  ragazzi, era la prima volta  che salivano su una corriera , perciò  alla nuova esperienza  pose una seria ipoteca la paura : silenziosi e composti  cantammo  alcuni inni risorgimentale , tra cui la più  gettonata “ Le campane di San Giusto”.
Un largo piazzale ospitò decine di pullman proveniente da tutte le parti della provincie occidentali della Sicilia. A tutti fu distribuito un volumetto commemorativo con la copertina raffigurante l’eroe dei due mondi su un cavallo bianco  .Con una buona ora di ritardo prese avvio  la cerimonia ufficiale con  gli interventi di esponenti della politica , della cultura , del sindacato .  L’intervento più toccante lo  si deve ad un politico locale che descrisse la  battaglia   cosi verosimilmente tale da farla rivivere come  un sequenza cinematografica . Proprio qui, su questo colle, denominato “Pianto Romano”  dove una serie di terrazzi naturali  degradavano verso valle,il valoroso Garibaldi  rispose  decisamente al perplesso Bixio: “ Qui si fa l’Italia o si muore!”
  Ora a distanza di più di centociquant’anni  da quell’evento ci chiediamo stupiti e sgomenti : “ Ma come sia stato possibile   che simili, madornali frottole  , inventate di sana pianta  ,abbiano  colonizzato le menti  di generazioni di insegnanti e riempito impunemente pagine di libri di storia?” . Possibile che sia stata data a bere  una sonora sciocchezza , senza che alcuno ne verificasse la fondatezza: che su quella collina teatro della battaglia “Pianto Romano” non è mai avvenuta alcuna battaglia tra romani e segetani ,perciò i romani non furono sconfitti da alcunché e meno che mai …. versarono lacrime .Ma allora  come spunta fuori questo singolare sito ?
 Dovete sapere che in Sicilia i nostri contadini    sogliono  indicare la “ chianta” un appezzamento  piantato a vigneto durante i primi anni di vita, perciò : chianta,- chianto – pianto. E’ Romano?   Ebbene si tratta del nome del disgraziato proprietario , il quale si vide  rovinare , in piena vegetazione , le piante di vite assieme al campo di grano. Il poveretto  fece esposto alle autorità per essere risarcito dei danni, ma non  risulta che ne lui ne gli eredi abbiano ricevuto alcun ristoro.
Ora se la buonanima del mio vecchio preside aveva ragione ,  ossia che la battaglia di Caltafimi  segna  una tappa fondativa  dell’unità d’Italia …. di certo  le fondamenta  nazionali poggiano su un terreno franoso e alquanto  cedevole.
Il dubbio che ci assale  è , come sia stato possibile che un regno di dimensioni rispettabili, come lo era quello delle due Sicilie , con un esercito regolare  di cui 25.000 uomini di stazza  nella nostra isola , sia stato  sconfitto da un  numero risicato di uomini ,che appena superavano le mille unità che per colmo erano ,male armati e scarsamente equipaggiati?
 Ne possiamo sostenere , come sperato da Rosalino Pilo  e Crispi , che la Sicilia era un vulcano pronto ad esplodere.  Ma la perplessità  maggiore la poniamo su Garibaldi , il quale malgrado fosse uno scavezzacollo  , di certo  avrà valutato il rischio di fare la fine dei fratelli Bandiera o di Carlo Pisacane!
La risposta c’è la da stranamente Giuseppe Cesare Abba, lo storico della fortunosa spedizione .
il quale , nel suo resoconto  accenna ad un concitato scambio  di battute  tra Garibaldi e Bixio , circa l’opportunità di rispondere al fuoco nemico . Ma andiamo per ordine.
Garibaldi dopo lo sbarco non ha incontrato alcuna resistenza, L’esercito borbonico  al comando del generale Francesco Landi  si attesta  col suo esercito di 6000 uomini  sulla strada che da Salemi conduce a Calatafimi, strada obbligata per raggiungere Palermo. Il generale borbonico invia in avanscoperta circa 600 uomini “ma solo per avvistare il nemico”. Garibaldi, vede questo piccola frazione dei Nazionali che avanza con compostezza e determinazione, e assalito da qualche dubbio si ritira  prontamente sulle colline circostanti  a meditare. Il comandante Sforza che guida i sodati borbonici, consulta i suoi uomini e pur non avendo il permesso di attaccare , sente forte  il bisogno di dare una lezione a quei “carognoni”. Cosi apre il fuoco  che fa arretrare i garibaldini i quali non si aspettavano  una cosi energica reazione  ma ancor più Garibaldi , che resta trasecolato. Bixio ,furibondo lo affianca ( le promesse ricevute che svaniscono  all’improvviso?)
Intanto gli uomini del comandante Sforza finiscono le munizioni e lo stesso invia una staffetta al generale Landi , che a 73 anni e pieno di acciacchi si spostava in carrozza  . Questi non solo nega gli aiuti  ma accusa Sforza  di aver disobbedito ai suoi ordini e fa suonare inopinatamente la ritirata.
Quelle trombe   recano a Garibaldi la prova che  quanto promesso e pattuito è seriamente rispettato.
I garibaldini non credono ai loro occhi , e pieni di baldanza si lanciano all’attacco, mentre i soldati borbonici sono costretti a lasciare sul campo i feriti più gravi. Non mancano tuttavia episodi  di eroismo tra le fila dei soldati  napoletani , tanto che riescono a strappare la bandiera , cimelio, regalato a Garibaldi da alcune donne cilene. I Mille conquistano la collina a caro prezzo, lasciando sul campo più di trenta morti .
La battaglia di Calatafimi è stata come da copione concordato, uno scontro programmato , una sorta di tragicommedia e, come tutte le rappresentazioni teatrali, non mancano gli spettatori :gli abitanti del luogo . Probabilmente anch’essi si saranno poste delle domande sull’autenticità  del combattimento, il quale se pur sanguinoso era stato  contemporaneamente una finzione e una realtà Nella notte tra il 15 e il 16 maggio Landi tiene un consiglio, il suo dispaccio redatto , prima della riunione degli suoi ufficiali , parla di preponderanza numerica del nemico, di codardia dei suoi soldati  e della mancanza assoluta di rifornimenti. Contro il parere di tutti  ordina la ritirata verso Palermo alla massima velocità, attraversando celermente anche Alcamo, che per l’ottima posizione naturale poteva  diventare un baluardo  per i garibaldini.  Questa storia finisce con un epilogo infamante. L’anno successivo Landi si presenta allo sportello del Banco di Napoli per riscuotere una fede di credito  di 14.000 ducati . Il cassiere  gira e rigira tra le mani il documento , poi consulta il direttore che si avvicina all’ex generale :” Ma  non si è accorto che questo credito è stato falsificato, vede come sono stati aggiunti, maldestramente i tre zero con un altro inchiostro! Questo vale 14 ducati!
Landi nella concitazione  esasperata , confessa di aver ricevuto il titolo  da Garibaldi!
 Non passa molto tempo  che muore di crepacuore.   
     
    

mercoledì 21 novembre 2012

Un Padre




Giuseppe Bivona

                                           Il vecchio falegname  ,con gli occhi gonfi per le lacrime , pialla pigramente un grosso legno e   ogni tanto ripassa con il palmo della mano la superficie liscia.
Ha sempre amato il contatto con le cose , le sedie, le panche , le madie…ma anche le persone , in particolare i bambini e soprattutto il suo quando era piccolo , amava prenderlo in braccio stringerselo al petto e fargli posare la sua testolina sulle spalle .
 Poi  cresce comincia a muovere i primi passi . Si, lo ricorda come fosse ora . Lui e Maria  l’uno di fronte all’altre  poco distanti  abbandonano per pochi attimi il bambino  che barcollando  arriva alle braccia dell’altro . Però stranamente il bambino al posto di ritornare da lui  all’improvviso si allontana dal padre . Chissà, una premonizione, una triste metafora dell’avvenire
Giuseppe non riesce  a dimenticare  neanche per un istante il dolore senza fine che lo tormenta .
Sono passati  due giorni   da quando  il suo ragazzo è morto crocifisso assieme ad altri due disgraziati , una fine atroce che non la si augura neanche al peggior nemico!
 Gesù , fin dall’infanzia, ha sempre intrattenuto un rapporto privilegiato con sua madre,  c’era Maria  a Cana , alle nozze ,dove avvenne il primo miracolo. E lui, Giuseppe dove era? A casa a lavorare.
Crescendo quel suo ragazzo  veniva sveglio, vivace, però di tanto in tanto faceva strani discorsi che l’anziano genitore non riusciva a comprendere il nesso logico.  Ma la cosa che più lo feriva erano i riferimenti ad un altro padre che sta lassù in …cielo.
Inutile le sue premure , le attenzioni , gli oggetti che aveva lavorato per lui : il cavallino a dondolo, un tavolino ed una sedia  piccoline su cui iniziava a scrivere la prime lettere dell’alfabeto. No, il ragazzino quasi lo disconosceva,  respingendolo nell’ombra, anzi nel buio , nella solitudine. A nulla era valso  trasferire la sua bottega  a Gerusalemme, il ragazzo non  aveva alcuna voglia di continuare il mestiere del padre voleva farsi la sua esperienza , andare a vivere lontano in  un paese sconosciuto   pare fosse l’India…dove ci rimase per parecchi anni. Ah! Se avesse ascoltato il suo consiglio e restava a lavorare  nella bottega!. Non avrebbe di certo frequentato  discutibili compagnie e non avrebbe avuto certe idee strampalate! Avrebbe risparmiato lo strazio alla sua povera madre
Ora dai suoi occhi scendono rivoli di lacrime ,non riesce a vedere il legno da piallare, si ferma: “ “Possibile che sia stato solo ieri l’altro, quel giorno tremendo ?“Si chiede ancora incredulo
Eppure ,  malgrado gli acciacchi era salito , senza l’aiuto di nessuno su quel monte maledetto, aveva cercato di farsi largo tra la folla “ Io sono suo padre!” gridava con il poco fiato che gli restava nei polmoni “ fatemi passare, quello al centro è mio figlio!”
Voleva stargli vicino , avrebbe voluto toccargli i piedi inchiodati, gli stessi che da bambino li aveva accarezzato per riscaldali… magari salire lassù con una scala e stringergli la testa tra le sue mani , sfiorarlo, baciarlo e consolarlo.
Ma un muro di gente  gli impedisce di avanzare ,anzi lo respinge , ma il vecchio non demorde , neanche il buio può risucchiarlo lontano dal suo ragazzo.
Poi  ,ad un tratto, quel grido lancinante che fende l’aria cupa del tardo pomeriggio e gela tutti i presenti:” Padre mio, padre mio , perché mi hai abbandonato?” .
Come può un padre abbandonare il figlio morente? Che razza di padre è colui che non sente , ascolta  la richiesta  di aiuto del  proprio figliolo?
 Tutte ragioni di questo mondo  non valgono la vita di un figlio! La vita è sempre e comunque un “fine” e non ci sono scopi  ,per quanti nobili ,che la possano ridurla a “mezzo”.
Giuseppe, non resiste al grido di aiuto del suo ragazzo, come un vecchio leone fende la folla ,a forza di sgomitate si fa strada ,raggiunge i piedi della croce, abbraccia il palo che sorregge il suo disgraziato ragazzo e con tutta l’aria che ha nei polmoni grida:” Si, sono qui, non temere ,non ti abbandono,Io, sono tuo padre!”
Il vecchio falegname, non sa resistere al dolore, non ha più lacrime da versare, poi alza la testa  per vedere l’ultima volta il suo figliolo e sul suo volto  scarno scende una pioggia mista a sangue.
Di certo Gesù si sarà accorto della sua presenza e per l’anziano genitore è già sufficiente:questo  atroce dolore un po’ glielo lenisce, quasi lo consola.
     

lunedì 12 novembre 2012

San Francesco : il santo meno amato dagli italiani



Giuseppe Bivona

 Tutti nella vita hanno uguale quantità di ghiaccio. I ricchi d’estate i poveri d’inverno”
Bat Masterson


Quei cattolici osservanti non si chiedevano se il lusso delle chiese non insultasse la miseria dei poveri”
 Margherite Yourcenar ( Archivi del nord)


Nonna Nina non aveva alcun dubbio , se c’era un santo  a cui rivolgersi  per chiedere una grazia, questo era di certo Sant’Antonio: al suo attivo il padovano   annoverava ben tredici miracoli!
Eppure se c’era un eletto “ specifico”  dei poveri e per i poveri questi era senza discussione ,San Francesco il “più santo degli italiani, il più italiano dei santi”
Ora, a parte che un santo si qualifica essenzialmente per i miracoli compiuti e san Francesco , se si esclude la discutibile favo letta del lupo di Gubbio, non è che si fosse prodigato più di tanto per farsi notare  con insoliti prodigi. .Ma quello che lasciava perplessi i poveracci, era la storia  di un ragazzotto, figlio di papà che, annoiatosi della vita agiata ,  si “spoglia”  di tutte le sue ricchezze e……predicava la povertà come “valore”!? I poveri  hanno alle spalle  oltre che la miseria anche l’ingiustizia alla quale ribellarsi costava quasi sempre la vita , ma fondamentalmente sono ignoranti!.
Ora il dilemma e cornuto : o san Francesco con il suo “pusillo” spargeva sale sulle ferite o i poveri non avevano capito niente del messaggio francescano.
Proviamo a comprenderci qualcosa.
Negli anni , più o meno , in cui visse Francesco , prese avvio una sorta di “rivoluzione occidentale” che pose le basi del mondo moderno . un geniale rovesciamento  dei rapporti  tra produzione e consumo. Un vero ribaltamento  sulla base della quale non fu più il consumo a regolare  i ritmi della produzione , come si era sempre verificato  e avrebbe continuato a verificarsi in qualunque altra parte del mondo , bensì, questa a dover seguire  il trend in definitivamente ascendente di quello  di una travolgente corsa verso l’altrettanto indefinita crescita  del profitto.
Questa rivoluzione accompagnata con la riscoperta  di valori nuovi , consente la nascita di un individualismo ,sempre più assoluto  assieme al primato dell’economia , sorretta dalle scoperte e invenzioni,  che le stanno dietro.
Tutto ciò indusse ,e per certi versi obbligò il mondo occidentale a farsi “padrone”  della terra  compresi i popoli che l’abitavano , istaurando l’economia-mondo e con esso lo scambio ineguale .
In questo contesto il povero di Assisi  fu un santo radicalmente “antimoderno” . La povertà francescana , o meglio la paupertas è in perfetta linea con il discorso  della Beatitudine  di Gesù , anzi Francesco va oltre  il puro e semplice rifiuto della ricchezza materiale , spingendosi  verso la  totale e radicale rinuncia  verso qualunque tipo  di “volontà di potenza” individuale  a partire  dalla sapienza e dalla cultura  ,a loro volta  forme fondamentali  di ricchezza e potere.
Il modello  e l’esempio di San Francesco  colpiscono al cuore la modernità  col suo culto sfrenato e unidirezionale  di qualunque forma di individualismo .  Per capire Francesco  dobbiamo sostituire alla nozione di “bene” ,che domina il pensare comune con  un nuovo paradigma retto dal “giusto”.
Ora,  la povertà è la sola condizione per vivere con “giustizia “in questo mondo , la ricchezza è una anomalia, una ipertrofia , la dismisura , l’arroganza che le leggi di natura  non  consentono a nessuna entità. Esiste , vero , l’abbondanza  cosi come la scarsità , ma sono condizioni transitorie  e meno che mai codificati.
Non si può essere “ricchi in mezzo ai poveri , ne restare sempre “poveri” in mezzo ai ricchi       
Perciò  Francesco  resta per gli italiani il più  disatteso,  il più tradito, il più incompreso  dei santi!
Disatteso: il suo rapporto con gli enti di natura supera  e abbandona la concezione giudaica-cristiana : l’uomo è parte del tutto , gli esseri viventi hanno pari “dignità “  la correlazione  tra gli esseri viventi è piena e totale.
Tradito , proprio da chi  ogni anno il 4 ottobre   monta un  solenne ricorrente scenario ,   trasformatosi, ormai , in una oscena  e blasfema parodia
Incompreso  , dai poveri , i quali, “poveracci”, si illudono di combattere la loro povertà con la “ricchezza”  

domenica 28 ottobre 2012

Alla ricerca delle radici perdute Seconda parte



Giuseppe Bivona

“Il tuo dio visibile  che fonde insieme le cose impossibili e li costringe a baciarsi… Oro,oro giallo ,fiammeggiante prezioso? . No ,oh Dei, non sono un vostro vano adoratore. Radici  chiedo ai limpidi cieli

W. Shake sperare “ Timone d’Atene “
                                                              Alice socchiude leggermente gli occhi, gli ultimi raggi di sole s’infrangono con le foglie cangianti del suo albero di noce ,  i colori si fondono e nello stesso tempo si confondono…
 Stranamente  i suoi occhi si posarono sul terreno dove prende avvio lo  sviluppo del  tronco:
 Chissà cosa ci riserva la gran  mole di radici !         
Che strano, pensava tra se e se Alice,  non sarà che  la metafora delle radici  permette  di far passare  per ordine naturale  la sottomissione  ad una autorità ? O giustificare la “tradizione?   Cosa vorrebbe comunicare questo singolare albero di noce  se la sua unica “espressione”   sarebbe costituita solo dalla sua  identità ?
Alice  rimane perplessa, non comprende appieno  perche la “tradizione “ abbia  la necessità di  una metafora .
 Cosa che non accade  invece per il progresso . l’uguaglianza,   e la libertà :  le sole in grado di spiegarsi da sole ….
  La folta chioma del noce nasconde la gran massa di radice: sono un immenso groviglio di esili filamenti , sparsi in tutte le direzione  , esplorano ogni tratto del terreno, si accrescono ogni anno …come la nostra  identità : cose vive e concretate , atti ,patrimoni , eredità,esperienze , legami , gesti ,  modi di dire,  simboli, ….
Forse senza il richiamo alle radici  un “tradizionalista” non riuscirebbe  a dirci come sia concretamente costituita  la tradizione o l’identità
In fondo  le radici sono  un simbolo  riassuntivo  che lega  l’uomo alla terra  , la vita umana alla natura
  Per Alice  l’albero . le piante  , le radici  hanno sempre costituito la  più semplice , ma nello stesso tempo la più profonda , configurazione dell’umano.

Eppure   nella storia sell’uomo, il richiamo alle radici,  paradossalmente   hanno costituito  le premesse  per rancori e odi, verso chi non condivide le nostre radici o  manifestato  intolleranze verso chi  non li riconosce

Alice non sembra avere  dubbi:  spesso le radici degenerano in alibi . La violenza nasce dal capovolgere  le radici  in frutto  e poi brandirli come rami, violando la loro nascosta profondità
La stessa cosa non è forse accaduto in nome dei diritti  umani dell’uguaglianza, della libertà ,o persino della fede?
Oggi viviamo in un tempo di continui “trapianti” , sembrano quasi logici  il vivere e lo sradicarsi frequentemente  senza curarsi della nostra capacità di “attecchimento” .
 Chissà ,pensò Alice se esistono persone che possono vivere senza radici ….le colture idroponiche nella loro insensatezza, producono.
No, non si può imporre l’amore  delle radici , a chi non le ha, non le sente , non le riconosce.
Il vero dramma della nostra epoca e la perdita delle “radici” ovvero dei legami, lo spaesamento, la solitudine, la vita labile e precaria che si agita sconclusionata.
Avere radici   vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di una esistenza autarchica, nella consapevolezza che si viene da lontano , avere un passato e di certo un avvenire, coltivare la vita e non consumarla, amare le proprie origini e stabilirne connessioni .
L’atto dello sradicamento  evoca in se violenza , cosa che è completamente assente nel radicarsi.
Per la Weil lo sradicamento “è la più pericolosa  delle malattie della società umana”.