lunedì 25 dicembre 2017

Settesoli,un pezzo del nostro vissuto.


 Peppino Bivona  

Caro Nino, ho letto il tuo   intervento sulle ultime  vicende accadute presso le Cantine Settesoli. 
                        Ora malgrado i tuoi buoni propositi volti a valutare con serenità  le vicende, il contenuto di fatto non aiutata a dissipare  il “nebuloso intreccio” che pare abbia  sfociato in  una congiura di Catilina memoria.
Come Libera Università Rurale  in questi anni abbiamo cercato di “volare alto” ovvero tirarci fuori dalle polemiche e dai pettegolezzi che investono le vicissitudini paesane.Perciò colgo il tuo invito.

 L’azienda  Settesoli è  un “pezzo” del nostro vissuto   è lo zoccolo duro su cui poggia l’economia   della nostra comunità, è la stessa identità  che da più parti ci viene riconosciuta, è…. più di mezzo secolo di storia di questo paese.

Ora , questo prezioso patrimonio non c’è l’ha regalato nessuno: è il felice risultato scaturito  della fatica dei nostri viticoltori , l’ intelligenza e la lungimiranza di qualche cervello locale , la serietà e competenza di operai impiegati e dirigenti nel perseguire gli obbiettivi.
Non vogliamo e non dobbiamo entrare nel merito dei risultati “elettorali” , nei sistemi elettivi  la maggioranza decide e, a noi , non resta che prenderne atto, ogni altra possibile speculazione andava fatta prima  che gli elettori si esprimessero .Questo non esclude che ci si possa soffermare sulle analisi del dopo voto. Ma solo se colpiamo il vero obiettivo.
L’articolo che tu hai riportato del Giornale di Sicilia del 2003  è  stato “ commissionato”  dalla Settesoli  come inserto” pubblicitario” atto ad accrescere la nostra immagine a livello nazionale; i terreni, il clima  non sono dissimili da quelli  delle contrade viciniore di Sciacca  ,Sambuca o Castelvetrano  anzi  relativamente al clima , non ci dispiacerebbe avere qualche punto in più nel “salto termico” . Ma quello che alle realtà vinicole limitrofe è mancata è stata  la capacità intellettiva di una classe dirigente  che in tempi non sospetti ha avuto il coraggio di   dire di “No”: un No deciso al totale delle liquidazione delle uve. Un No,  alla banalizazione del vino ridotto a “mosto muto”.Eppure  in quegli anni i viticultori siciliani si mobilitavano scendevano in piazza chiedevano a gran voce, una, due ,tre leggi per la distillazione Qui da noi  qualcuno ,intelligentemente ,percorse un itinerario diverso: puntò sulla ”bottiglia, ovvero sulla qualità. Fu una scommessa avvincente non priva di resistenze e dissapori: finché non ci si pose difronte al più grosso delle difficoltà.
Ovvero:  come una azienda di matrice cooperativa poteva porsi sul mercato dell’imbottigliato, competere con le grosse aziende private , fare fronte alle liquidità giornaliere dei fornitori, dei commissionari, dei rivenditori, delle enoteche? Il salto di “qualità” per il presidente di allora Planeta era possibile: bisognava costituire all’interno della Settesoli una “Finanziaria” ovvero aprire la Cantina  ai  soci sovventori, piccoli risparmiatori locali, con tutte le garanzie che gli erano dovute.Planeta inteligentemente sapeva che i piccoli viticoltori  non potevano farcela avevano bisogno dell’artigiano, del commerciante, dei piccoli risparmiatori che avrebbero attivato cosi  una economia “circolare” Sono trascorsi quasi venticinque anni e ancora rimbombano le voci stridule dei soci che quasi all’unisono imprecavano “La cantina è dei viticoltori !!” Molti di costoro non erano stati informati dai dirigenti del p.c.i o della Lega delle Cooperative che in Emilia Romagna queste realtà vigevano da  anni. Planeta e alcuni di noi abbiamo avuto una  cocente  delusione , al limite della umiliazione, avevamo fatto il passo più lumgo della gamba , capivamo che i nostri soci stavano sbagliando ma Planeta ritrasse la sua proposta in attesa  che i tempi maturassero: non  abbandonò la nave. Da qualche anno una finanziaria del Nord rastrella capitali per foraggiare le impresse della padania ,,l’attore locale venne definito in una assise “portatore di luce” che il latino si traduce in “ fero lux” ovvero Lucifero. 
Le strutture cooperate si reggono sul consenso, ovvero si va avanti se il grosso della truppa è consenziente.  I tempi di elaborazione e maturazione nel mondo agricolo sono lenti e a volte stenuanti .I nostri viticoltori debbono avere la consapevolezza che se vogliono sfidare il mercato  debbono sottostare alle dure leggi  della concorrenza comprese quelle aziende  che disonestamente applicano le cosiddette “asimetrie di mercato” ovvero comprare vino di dubbia qualità a prezzi sviliti su cui sarà possibile esercitare tutti i ricarichi dettati dal marketing  . Ed allora come uscirsene?
La Settesoli è un bolide lanciato, non può fermarsi né, tanto meno, tornare indietro, ma per restare in pista e mantenere la giusta velocità, ha bisogno di “carburante”
Ai nostri  viticultori non possiamo chiedere di più,”hanno già dato” Ma debbono sapere che le bottiglie non camminano da sole, nessuno viene a prendersele dal magazzino dell’imbottigliato!. Eppure non bisogna arrendersi, dobbiamo cercare idee innovative a cominciare dalla forma societaria
I prossimi anni saranno decisivi per la Settesoli, perciò auguriamo buon lavoro al nuovo presidente Giuseppe Bursi e al consiglio di amministrazione…e con l’occasione 
Buone Feste e Felice anno nuovo.
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mercoledì 13 dicembre 2017

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA 2018


TASTING AFRICA, LA BELLEZZA AFROITALIANA SI PRESENTA
Arte, moda, cibo e make up in stile afroitaliano. Le nuove specie delle tendenze del gusto si danno appuntamento a Palermo per cominciare a convivere nel segno della bellezza.

Al via Tasting Africa, una rassegna di incontri, manifestazioni e confronti promossa dall’associazione Salambò, in collaborazione con il Comune di Palermo, che culminerà, concludendosi, nelle ultime settimane di Maggio 2018. Un calendario di iniziative che segnano il primo incontro ufficiale tra le culture straniere, ormai stabilmente innestate in Sicilia e in Italia, e le tradizioni culturali nostrane, nel quadro del programma per Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018.
Il primo appuntamento, il 14 dicembre, alle 13 e 30 a Sanlorenzo Mercato, alla presenza del vicesindaco Sergio Marino, del Dirigente Generale Dipartimento Pesca Mediterranea della Regione Siciliana Dario Cartabellota e dei protagonisti della rassegna fra cui Davide “Atomo” Tinelli fra i più famosi street artist internazionali, Paolo Sciortino, giornalista culturale e sceneggiatore e Marene Cissè cuoca senegalese, sarà un contest lunch intitolato alla Afro Fusion Experience: cinque cuochi italiani e africani si cimenteranno in un viaggio tra i sapori all’incrocio tra le diverse culture gastronomiche.
Il calendario degli eventi di presentazione di Tasting Africa, programmato in due giornate, proseguirà poi nel pomeriggio, alle 16.00, presso Sala Martorana di Palazzo Comitini, con un talk show dal titolo: “La bellezza della contaminazione”, a cui interverranno esponenti qualificati nelle varie sezioni del progetto Tasting Africa, che illustreranno i nuovi valori della bellezza afroitaliana.
A seguire, il giorno dopo (venerdì 15 dicembre), con alcuni incontri mirati in diverse sedi dislocate in città (Orto botanico, Cantieri della Zisa, Scuola Politecnica e Consorzio Arca) sulle quattro aree di interesse dell’iniziativa (Arte, Cibo, Moda e Bellezza), i coordinatori della rassegna e gli esponenti del mondo produttivo, istituzionale e della cultura faranno il punto sulle singole azioni da mettere in programma per Palermo 2018.

La manifestazione d’esordio di Tasting Africa si concluderà venerdì 15 dicembre, dalle 21.00, nell’ambito dello Street Food Fest, allo Spazio Gourmet di Piazza Marina con un cooking show a tema: “Identità, salute e sostenibilità nella fusione afro sicula del cibo di strada”.

martedì 28 novembre 2017

Sopravviveranno i contadini ancora una volta?


(seconda parte)

di Peppino Bivona


                            Alla parola superstite si può attribuire due significati diversi, può riferirsi a  gente che ha  vinto o superato  una serie di   difficoltà eccezionalmente rischiose, oppure, come nel caso dei nostri contadini,  persone  che hanno continuato a vivere quanto tutti gli altri sono morti o scomparsi.
 I contadini sono una strana razza umana un modello antropologico davvero singolare. Considerate che ha  continuato a vivere e lavorare la terra  a differenza di tanti altri  che hanno approfittato delle opportunità offerte dall’emigrazione per sfuggire alla miseria più abietta.
Instancabilmente dedicato a trarre la vita dalla terra, la sua esistenza è indissolubilmente legata al lavoro inteso come un presente senza fine, perciò considera la vita come una parentesi. Questa convinzione scaturisce dalla familiarità quotidiana che i contadini hanno con il ciclo della vita, della nascita e la morte. Hanno una loro  religiosità che non ha mai conciso con quella praticata  dal potere o dei sacerdoti.
Il contadino, come dicevamo, vede la vita anche come un intermezzo, per la sua doppia ed opposta visione del tempo che a sua volta deriva dalla duplice natura della sua economia. Sogna di tornare a vivere una vita senza soprusi, libero dalle tirannie, perciò i suoi ideali sono rivolti al passato, ma i suoi obblighi sono necessariamente rivolti al futuro, un futuro che non vedrà. La morte non lo proietta in un tempo futuro, la sua concezione di immortalità è diversa dalla nostra : egli torna al passato.
Questi due momenti temporali ,passato e futuro,  non sono in contrapposizione  come può sembrare a prima vista, per la semplice ragione che il contadino ha una visione ciclica del tempo: sono due modi diversi di girare intorno al cerchio. Accetta gli accadimenti della vita senza trasformarli in qualcosa di assoluto. La nostra cultura occidentale ha una visione del tempo unidirezionale come una freccia che scocca da un arco,non sopporta l’idea di un tempo ciclico ,dà una sorta di vertigine morale, tutto ruota intorno al principio causa-effetto. Il contadino ha grande difficoltà ad accettare la definizione  di tempo storico , se non come impronta  lasciata dalla ruota che gira
Nel mondo contadino il concetto di uguaglianza è intimamente legato a due condizioni: alla necessita del lavoro e alla scarsità o sobrietà dello stile di vita. Contrariamente ai modelli liberali e marxisti dove l’ideale di uguaglianza presuppone un mondo di abbondanza, rivendicando diritti uguali per tutti in presenza di eccedenza , di cornucopia,  elargite grazie ai progressi della scienza e dello sviluppo. L’ideale di uguaglianza è molto diverso per il contadino: riconosce un mondo di scarsità e si impegna in un aiuto reciproco e fraterno, fa uso del dono come connettivo socio-economico della comunità.
Strettamente legato all’accettazione della scarsità è il riconoscimento della relativa ignoranza dell’uomo. Si può restare ammirati dalla conoscenze, dall’applicazione dei risultati  ma mai il progredire delle conoscenze,  in alcun modo, possono ridurre la portata di ciò che deve  rimanere inspiegabilmente sconosciuto. Pongono un limite alla conoscenza Non cè nulla nell’esperienza della loro vita che possa indurli a credere a cause finali perché la loro esperienza si svolge in un mondo aperto e ampio esposto ad infinite variabili. L’ignoto può essere rimosso solo entro i confini di un esperimento di laboratorio.
In tempi diversi e a secondo i paesi, la storia moderna inizia con l’avvio del progresso come obiettivo e motore della storia. Questo principio è nato con l’avvento della borghesia come classe, poi continuato attraverso le rivoluzioni moderne e socialiste, che ne  hanno completato la definizione. Bisogna guardare sempre avanti, perché il futuro offre ancora maggiori speranze Nella visione contadina il futuro è visto come una sequenza di ripetuti  atti di sopravvivenza. Ogni atto è come introdurre un filo in una cruna di un ago: il filo è tradizione.
L’esperienza di crescita e sviluppo per il contadino hanno un significato diverso e totalmente opposto rispetto all’esperienza culturale cittadina. Prendiamo per esempio il conservatorismo contadino elemento chiave della sua condotta, la sua ostinata resistenza alle sollecitazioni al cambiamento
Ora la nozione di cambiamento nasce storicamente nella città dove l’ambiente urbano  ha offerto ai suoi abitanti un certo grado di sicurezza e protezione. Così i sistemi di riscaldamento hanno compensato le variazioni di temperatura, l’illuminazione ha reso minima la differenza tra il giorno e la notte. Inoltre una vasta gamma di servizi,dalle scuole alle librerie agli ospedali , dai panettieri ai macellai ha reso meno angosciante la vita. Ovunque edifici progettati come promessa di sicurezza e  continuità.
Al contadino manca qualsiasi tipo di protezione. Ogni giorno deve  fare esperienza con i cambiamenti strettamente legati alla sua esistenza. Alcune di esse sono prevedibili, come il cambio delle stagioni, il processo di invecchiamento e la conseguente perdita di forze; molte altre come le variazioni climatiche, la morte di una mucca colpita da un fulmine, oppure le troppe piogge o la siccità  ecc. sono imprevedibili L’esperienza del cambiamento per il contadino è  più ricca ed intensa di qualunque altra classe sociale , per due ragioni. In primo luogo per le sue capacità di osservazione, coglie dall’ambiente i segni che possono aiutarlo ad interpretare il futuro. La sua attività di osservatore non cessa mai registrando le modifiche e riflettendo su di esse. In secondo luogo la situazione economica. Cosi una variazione anche minima in meno, nella resa di una coltura rispetto all’anno precedente , un calo di prezzo o una spesa imprevista possono avere conseguenze disastrose. Non lascia sfuggire la più piccola osservazione che segnali anche un piccolo, insignificante cambiamento.
A questo punto dobbiamo chiederci, come si rapportano i contadini di  oggi con il sistema  economico globalizzato? Ovvero che spazi di sopravvivenza sono lasciati ai contadini in un contesto dominato da l’agroindustria?

(continua)

domenica 12 novembre 2017

Sopravvivranno i contadini ancora una volta?

(Prima parte)
                                                                                                                                 di Peppino Bivona


“I contadini sono piccoli produttori agricoli che, con pochi strumenti semplici e il lavoro delle loro famiglie, producono principalmente per il proprio consumo diretto ed indiretto  ed assolvono  agli obblighi voluti e   imposti da chi detiene il potere politico ed economico." Theodor Shanin, Contadini e contadine nelle società rurali. (London, 1976)
                                              
                             



                                     La vita contadina è una vita dedicata interamente alla” sopravvivenza”. Questo è forse l'unico filo rosso che unisce i contadini di tutto il mondo.
 I loro strumenti, i loro raccolti, la loro terra, i loro proprietari, possono essere diversi, sia che vivessero in un sistema feudale ,capitalista o comunista, sia che coltivassero riso a Java, il grano in Germania o mais in Messico, ovunque è possibile definire i contadini come una classe di sopravvissuti. Ancora oggi si può dire che gli agricoltori costituiscono la maggior parte degli abitanti del globo. Ma questa maschera un elemento più inquietante. Per la prima volta nella storia si corre il serio rischio circa la possibilità che questi sopravvissuti possono cessare di esistere. In Europa occidentale, nella nostra comunità europea se i piani vanno come sono stati previsti dagli economisti, tra venticinque trent’anni non ci saranno più contadini.
Fino a poco più di mezzo secolo tempo fa, il vissuto contadino era sempre caratterizzato  da un'economia  inserita in un'altra economia. Questo è ciò che gli ha permesso di sopravvivere alle trasformazioni globali che si sono verificati all'interno delle macroeconomie in era inserito: feudale, capitalista, socialista . In ogni contesto storico i metodi per estrarre il “ surplus” sono stati forgiati secondo schemi  diversificati: lavoro forzato, le decime, gli affitti, le tasse, la mezzadria, gli interessi sui prestiti, le regole produzione, ecc
 A differenza di qualsiasi altra classe lavoratrice sfruttata, i contadini hanno sempre rappresentato un corpo separato.  Vivevano a confine di qualsiasi sistema, difficilmente e quasi impossibile che restassero integrati nella struttura  economica e culturale  del momento storico .
Se pensiamo che la struttura gerarchica della società feudali e poi le successive, erano più o meno piramidale, i contadini hanno sempre costituito la base del triangolo. Questo significava, come nel caso di tutte le realtà di confine, che il sistema politico e sociale ha offerto loro il minimo della protezione possibile. Così hanno dovuto badare a sé stessi: sia all’interno della comunità che nella famiglia . Hanno mantenuto e sviluppato proprie leggi, dei codici di comportamento taciti, propri rituali e credenze, particolari conoscenze e la propria saggezza trasmessa oralmente, la loro stessa medicina, le proprie tecniche e, in alcuni casi, la propria lingua.
 Sarebbe tuttavia un errore pensare che si trattava di una cultura indipendente, come se non fosse stata influenzata dalle trasformazioni tecniche, sociali ed economiche della cultura dominante. Nel corso dei secoli la vita dei contadini è stata modificata, ma le priorità ed i valori  (la loro strategia per sopravvivere) costituiscono una tradizione che è sopravvissuta a qualsiasi altro elemento nel resto della società. 

Nessuna classe sociale è stata tanto consapevole  per quanto riguarda la sua economia. Non è l'economia del mercante, né della  borghesia , né l’economia politica marxista. L'autore che ha scritto con  più cognizione di causa, sulla base dell'esperienza personale, circa l'economia contadina è il russo agronomo Chayanov. Chi vuole capire i contadini, tra le altre cose, si deve valersi dei suoi  scritti .
. Si potrebbe dire che il proletariato senza coscienza  di classe (politica) non ha la piena e completa consapevolezza del valore aggiunto che crea per i suoi datori di lavoro; ma per il contadino  questo confronto è fuorviante, perché per il  lavoratore salariato, il lavoro per denaro in un'economia monetaria,  può facilmente ingannarci circa il valore  che essa produce. La qual cosa non accade nella vita economica del contadino che come il resto del suo rapporto nella società e sempre trasparente. Infatti da un canto la sua famiglia ha prodotto o cercato di produrre ciò di cui avevano bisogno per vivere e dall'altro  vede che coloro che non avevano lavorato, appropriarsi di una parte di tale prodotto, il frutto del lavoro della sua famiglia. Il contadino sapeva prima, anticipatamente quello  a cui andava incontro, ma  ha ritenuto di accettarlo per due motivi: primo materiale e il secondo epistemologico. 1) C'era  sempre un surplus perché le esigenze della sua famiglia non erano mai garantiti. 2) Il valore surplus( plus svalore) è un prodotto finale, il risultato di un processo di lavoro compiuto e teso a soddisfare determinati requisiti. 
 Il contadino ha sempre pensato che gli obblighi imposti erano un dovere naturale o un'ingiustizia inevitabile, ma in ogni caso fossero qualcosa che doveva  essere messe in conto prima di iniziare la lotta per la sopravvivenza. Per prima cosa ha dovuto lavorare per i loro padroni, poi per se stesso. Anche come  mezzadro, la parte del raccolto  andava accantonata a fronte delle esigenze di base della sua famiglia. 
 Ma questo non è tutto, restono ancora sulle sue spalle una serie di obblighi  che hanno preso la forma  di un  un handicap permanente. E 'stato a dispetto di queste condizioni come la famiglia ha dovuto iniziare la lotta, già irregolare, contro natura, al fine di guadagnarsi da vivere attraverso il proprio lavoro.
Così, il contadino ha dovuto superare lo svantaggio permanente che lo obbligava a strappare un 'surplus' ha dovuto superare, nel bel mezzo della sua economia dedicata alla sussistenza, tutti i rischi che l’attività agricola comporta: cattivi raccolti, tempeste, siccità, inondazioni, parassiti, gli incidenti, terreni poveri, i parassiti, e soprattutto, essendo  collocato alla base sociale, al confine, con una protezione minima, ha dovuto sopravvivere ai disastri sociali, politiche e naturali: guerre, pestilenze, incendi, saccheggi, ecc

(continua)

domenica 5 novembre 2017

La Sicilia di Consolo



Dall’olivo  all’olivastro (seconda parte)

di Peppinp Bivona


                                                                   Le colonie greche, che si erano insediate nei luoghi dove oggi ci portano le amare constatazioni consoliane, avevano fornito «le loro credenze, i loro costumi e linguaggi . In conformità ad un progetto urbanistico, propugnato dalle esigenze identitarie della madrepatria e condiviso dai coloni, gli ecisti avevano geometrizzato lo spazio, proprio come Consolo ci ricorda: «Occuparono i fertili campi, ricchi di acque, seminarono il frumento, piantarono le viti, gli ulivi, costruì ciascuna famiglia la propria casa. Spazi centrali destinarono al culto, ad azioni e bisogni comuni, spazi per i templi e le piazze delle loro assemblee, cisterne per le loro granaglie, strade agevoli e sicure, luoghi dove interrare e venerare i morti (…). Costruirono con un'idea di uguaglianza e progresso, con una convinzione di tolleranza e rispetto di ogni diversità culturale, linguistica, la volontà di coesione, di sinecismo delle varie fratrie, delle varie stirpi» . Questo era secondo Consolo il passato, il basamento sul quale l'isola doveva costruire la propria identità e dal quale doveva mutuare gli insegnamenti per imprimere un tratto distintivo alla propria storia futura.
Le aspirazioni di uguaglianza e progresso, le esigenze di condivisione, tolleranza e rispetto delle diversità culturali, i bisogni di sinecismo non sono stati continuati ed incrementati, ma mortificati ed oltraggiati. Conseguentemente, per progresso si è inteso lo sviluppo edilizio ed il sovraffollamento sul territorio di «villette, condomìni, alberghi e trattorie» . Per esigenze di uguaglianza si è inteso l'affidamento, da leggere come cieca fiducia, alle tecniche della corruzione, dell'imbarbarimento, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia.

In antitesi al rispetto delle diversità culturali si è insinuata e fissata l'attivazione di un dibattito finalizzato all'accrescimento di atteggiamenti e comportamenti. Tra gli olivastri siciliani, oltre a quelli già citati, Consolo annovera, attribuendogli una posizione privilegiata, anche Gela, «estremo disumano, (…) olivastro, (…) frutto amaro, (…) feto osceno del potere e del progresso , dove oggi, nei luoghi in cui prima nascevano i tesori dei coloni, i campi di frumento e i cavalli, e dove il poeta Eschilo passeggiava e traeva ispirazione, si è sviluppato «il teatro dell'abbaglio e dell'inganno, del petrolio favoloso, (…)qui il Gela1, Gela2, Gela3 (...) accesero Mattei di forza e di speranza, lo spinsero alla sfide dell'ENI statuale al duro capitalismo dei privati, al Gulf Italia Company, alla Montecatini, infusero (…) retorica industriale, (…) posero sopra le facce malariche dei contadini i bianchi caschi di plastica operaia. Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d'ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall'acropoli sul colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero (…) partì lo sconvolgimento, partì l'inferno d'oggi.
Nacque la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme, pitosfori e buganvillee dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell'edilizia selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e all'immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela del mare grasso d'oli, dai frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d'ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell'afasìa, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo»
Ciò che addolora il viandante consoliano è proprio la consapevolezza della natura di questo passaggio, di questo balzo che non ha voluto prevedere un inglobamento delle matrici culturali, nobili ed illustri, ma ha voluto assicurare il superamento nichilistico delle strutture fondanti dell'identità culturale. Come ha potuto Siracusa, ritornando ancora una volta a questa città, dimenticare di essere stata la scuola del passato, la trasposizione della cultura di Atene ed Argo, come ha potuto oscurare i propri interessi, che ruotavano attorno alla letteratura con poeti del calibro di Pindaro, Simonide, Bacchilide? Come ha potuto dimenticare il sincretismo religioso che aveva previsto la trasformazione della dea Atena in Santa Lucia? «Esce per la sua festa la vergine bianca, la Fòtina, la Lucifera, la Palladia, rigida nel suo corpo d’argento, alta sopra l’argento della cassa, esce nell’ellissi dello spazio, nello spazio dell’occhio smisurato, nel barocco anfiteatro dove s’erge la fronte della badìa nel nome suo edificata» . Perché ha mutato la vivacità culturale nell'immobilità della miseria e dell'abbandono? Perché ha sacrificato i templi coi suoi altari, il teatro, le strade dei sepolcri? Come ha potuto profanare con l'olio delle industrie delle attività petrolifere il mare che nel tempo mitologico fu solcato da Odisseo e nel tempo storico dai Corinzi? Quale insegnamento ha assorbito, a livello urbanistico, artistico ed estetico, per realizzare il santuario della Madonna delle Lacrime?
«In costruzione da trent’anni, la chiesa non è ancora ultimata; coi suoi settanta metri di altezza, piantato nel cuore di un parco archeologico, l’edificio, col grigio del suo cemento contro il cielo livido, faceva pensare a una rampa per il lancio di navi spaziali, ma la sua forma di cono scanalato, di campana assottigliata in alto, voleva simboleggiare, per gli architetti francesi che l’avevano ideato, la stilla lacrimosa che, dall’occhio sgorgando, nella caduta s’allarga, si fa goccia. A pianto di una Madonna di gesso colorato, alle lacrime di questa squallida immagine nella casa di un operaio comunista, a questo miracoloso evento accaduto nell’imminenza di una tornata elettorale degli anni Cinquanta, è legato il nuovo santuario» . Dove sono finiti il senso dell'armonia spaziale, della compostezza delle forme e il bisogno dell'adattamento alle peculiarità del territorio?» » .
Le domande di Consolo agli improduttivi e sterili olivastri proseguono, nonostante rendano inefficaci ed insensati finanche gli stessi interrogativi, toccando la Conca d'oro: chi ha voluto che il giardino delle arance divenisse un «sudario di cemento» ? Perché Palermo, luogo che, come suggerisce la sua etimologia, accoglie, ha deciso di accettare, conservare e proteggere univocamente la corruzione, prodotta dall'intrigo, dal ricatto? Cosa ha fatto confondere il senso del bene con quello del male? «Non volle entrare il viaggiatore, sostare nella Palermo che aveva amato, ora città della corruzione e del massacro. Non volle fermarsi in quel luogo dell'agguato, del crepitìo dei kalashnikov e del fragore del tritolo (...), delle strade di crateri e di sangue, dell'intrigo e del ricatto, delle massonerie e delle cosche, in quel luogo dell'Opus Dei, degli eterni Gesuiti del potere e dei politici di retorica e spettacolo (...). Via, via, lontano da quella città che ha disprezzato probità ed intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti”. 

Questo è l’amore smisurato di Consolo per la sua Sicilia Egli non pretendeva nei confronti del passato una devozione ed un'imitazione meccanica, incorrendo, così, nella pratica pericolosa della reificazione dei dati culturali, ma auspicava un'evoluzione storica responsabile, la quale, dopo aver letto e compreso i significati simbolici del passato, li utilizzasse per modificarli, per ricavarne i principi universali, di indiscussa validità, classici appunto del passato, li utilizzasse per modificarli, per ricavarne i principi universali, di indiscussa validità, classici appunto.

domenica 29 ottobre 2017

Dall’olivo all’olivastro

La Sicilia di Vincenzo Consolo:
Dall’olivo all’olivastro
(parte prima)

.

di Peppino Bivona


                                     Spossato, lacero, i polmoni pieni di salmastro, guadagna finalmente la spiaggia, avanza sopra un mondo solido, in mezzo ad alberi e arbusti. E’ l’uomo più solo sulla terra, senza un compagno, un oggetto l’uomo più spoglio e debole, in preda a smarrimento , panico in quel luogo estremo ,sconosciuto, che come il mare può nascondere insidie, violenze. Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro (spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero e di destino, della perdita di se, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura.) ,si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. E’ svegliato al mattino dalle voci, dalle grida gioiose e aggraziate di fanciulle , di Nausicaa e delle sue compagne . Esce dal riparo e si presenta a loro , il sesso schermato da una fronda , come per simbolica autocastrazione , per non allarmare le vergini ,come umile supplice, dimesso.”( da “ L’olivo e l’olivastro” di V. Consolo).
 Vincenzo Consolo nel suo romanzo “L’Olivo e l’olivastro “pone sul piano metaforico le differenze tipologiche che intercorrono tra i tratti specifici dell’olivo coltivato, gentile e di quello selvatico (olivastro) spostandole sul piano socio- culturale e nella realtà socio-geografica , ma anche storico-morale della Sicilia . Lo scrittore, per offrire gli strumenti del trasferimento concettuale dal piano botanico a quello culturale, suggerendo e favorendo, in tal modo, un'interpretazione metaforica ed una riflessione cospicua e pensosa, utilizza una figura mitologico-narrativa assai vicina e gradita alla sua ideologia: Ulisse.
Consolo ipotizza che Odisseo, dopo una delle sue sofferte peregrinazioni geografiche e gnoseologiche, sia approdato, per trovare rifugio, in una tana ricavata in un grosso tronco di un olivo ed un olivastro. La distanza, a questo punto, tra l'olivo e l'olivastro, ovvero tra l'affiliarsi ai codici del consorzio civile e l'estraniarsi nell'asprezza della natura, diventa la chiave di lettura dei paesaggi siciliani visitati dal personaggio del libro, un io narrante senza nome, che emigra nel 1968, a seguito del terremoto del Belice da Gibellina e poi torna e constata le “condizioni” della Sicilia. Le situazioni dell’isola hanno come tratto connotativo e distintivo proprio la commistione dell'olivo e dell'olivastro, ovvero della civiltà e dell'assenza della stessa.
Tutto trae dalle constatazioni fatte dal personaggio consoliano, è che quella linea cronologica, che prevede la trasformazione dell'olivastro in olivo, che auspica, in termini di efficacia produttiva, il passaggio (tramite innesto) dalla forma selvatica, aliena e distante dalle prospettive della rendita regolare, alla specie gentile e fertile, grazie all'osservazione di pratiche regolamentate (quali la concimazione, l'irrigazione e la potatura). Ma in Sicilia è stata totalmente travisata ed invertita, nella misura in cui si attua, paradossalmente, il passaggio dall'olivo all'olivastro. La Sicilia si è allontanata e continua a farlo dalle regole del consorzio civile per posizionarsi nel caos aspro della natura. La constatazione, insomma, di chi ritorna, lungi dall'osservare un miglioramento del tessuto sociologico, registra, inequivocabilmente, un regresso, che tocca il limite dell'imbarbarimento.
Partendo da questa idea invertita della società siciliana, Consolo valuta il paradosso dell'isola: dalla storia illustre, generata dalla confluenza di popoli e civiltà colonizzatori, che hanno resa opulenta la Sicilia, non solo materialmente ma anche culturalmente, si passa, quasi ritmicamente ed in modo inesorabile, alla cancellazione di queste testimonianze, al loro annullamento incosciente (o forse fin troppo cosciente!) in nome dell'adattamento a codici, che si pongono come unico obiettivo quello di sovvertire le altre regole.
Ecco come descrive Consolo tale percorso delle constatazioni siciliane, servendosi sempre, per l'agevolazione interpretativa a vantaggio dei suoi lettori, della figura odissiaca: «Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, malìe, perdite tremende, fino alla solitudine, all'assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita» .
Poiché la copertura metaforica è palese all'interno della trama narrativa, occorre comprendere quali entità si celino dietro le streghe odissiache, dietro i giganti, i mostri, gli oblii e gli inganni. Serve, in sostanza, capire quali siano le Calipso della Sicilia, che tutto nascondono e rendono invisibile, quali siano le Scilla e Cariddi siciliane, che tutto triturano e divorano, quali siano le Sirene dell'isola, che persuadono ad ascoltare i loro dolci canti, rivelatori di contenuti inconoscibili, chi siano i Lotofagi che forniscono il frutto dell’oblio, della perdita della memoria. Dell’olivastro, che hanno soppiantato l'olivo. «In quale luogo pascolavano le mitiche vacche?
È certo che non esiste una geografia reale dell'Odissea, ma un'antica tradizione, che va da Timeo a Ovidio, a Plinio, ad Appiano, le colloca nella bellissima piana di Mylai. “Tutta l'estensione del Promontorio verdeggiante in vari punti di vigne, e i suoi uliveti, e le sue case vagamente sparse per ogni dove; tutta l'estensione dell'amenissima Piana, coi suoi fiumi, coi poggetti, e i colli e le valli, e i monti che la circondano (…)”. Ai milazzesi è stato distrutto per sempre, verso la fine degli anni Cinquanta, quell' “incantevole” teatro, come è stato distrutto agli augustani, ai siracusani, ai gelesi. Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica e infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura» Ciò che gli suscita più rabbia, però, è proprio il fatto che la Sicilia abbia smarrito il senso della gloria del passato storico ed abbia consentito l’attivazione di processi, come questi, di imbarbarimento ed orrore.  «Corre sulla strada per Siracusa, lungo la costa bianca e porosa di calcare, ai piedi del tavolato degli Iblei, va oltre il Tauro, Brùcoli, Villasmundo, va dentro l'immenso inferno di ferro e fiamme, vapori e fumi, dentro le fabbriche di cementi e concimi, acidi e diossine, centrali termoelettriche e raffinerie, dentro Melilli e Priolo di cilindri e piramidi, serbatoi di nafte, oli, benzine, dentro il regno sinistro di Lestrigoni potenti, di feroci giganti che calpestano uomini, legge, morale, corrompono e ricattano» .
Il passato documentario di siti come Megara Hyblaeea, Thapsos è stato sacrificato in nome della necessità di costruzione di binari ferroviari e strade, per consentire, cioè, una mobilità più fluida. Anche la potenzialità di sviluppo dell'isola mediante il settore del turismo è stata compromessa definitivamente in virtù dell'incontrovertibile alterazione delle coste e dei fondali marini. Le attrattive paesaggistiche dell'area e le potenzialità insite nella stessa, sia agricole che turistiche, sono state invalidate per sempre.
La posizione di Consolo dinanzi a questo spettacolo è dubitativa, contempla tutte le perplessità di chi non è ancora riuscito a trovare una risposta di fronte alla constatazione dei dati del presente: quella dell'insediamento industriale era, assai probabilmente, una scelta da fare per fornire un aiuto al problema occupazionale dell'isola, ma andava gestita in maniera differente, con provvedimenti diversi, per evitare i sacrifici consumati su un'area di indiscutibile valore.

Quali ragioni o principi, continua a chiedersi Consolo, hanno potuto legittimare la sopraffazione spudorata da parte dell'industria petrolifera? C'è stata realmente una valutazione delle convenienze sociali prima dell'avviamento del polo? Da cosa sono dipese queste forme di acuta cecità da parte di chi lo ha progettato ed avallato istituzionalmente? Come valutare l'intorpidimento da parte di chi, quasi volontariamente e con felice convinzione, ha ceduto i propri terreni agricoli per assicurarsi un posto di lavoro in qualche azienda nascente? Chi sono stati gli agenti di questo imbonimento? Quali sono stati gli “argomenti” presentati dalle tecniche retoriche? Quanto è legittimo fagocitare la storia in nome dell'elevamento del reddito, dell'incremento demografico e dello sviluppo economico? 

sabato 28 ottobre 2017

EuropeanRuralParliamentItaly

EuropeanRuralParliamentItaly

di  NucciaTornatore


European Rural Parliament,  sono  presenti in quasi tutti i  Paesi Europei ,    è una campagna a lungo termine per dare voce delle popolazioni rurali,  abbiamo incontrato   Nino Sutera, promotore dell'iniziativa  per rivolgergli alcune domande.



Che cos’è un Parlamento Rurale Europeo?
Una struttura politica, ma non partitica.'Parlamento rurale' non è una parte formale del governo, né è un parlamento nel senso di un organo legislativo o decisionale. Si tratta di un processo 'bottom-up' di coinvolgimento e dibattito tra il popolo rurale e politici, per consentire una migliore comprensione, politica più efficace e di azione per affrontare le questioni rurali.
Un Parlamento rurale è   un processo che fornisce opportunità per le persone con un interesse per le comunità rurali per condividere idee, prendere in considerazione i problemi e le soluzioni. Parlamento rurale permettono alle persone e decisori a lavorare insieme su questioni prioritarie per sviluppare soluzioni nuove e creative. Essi rafforzano la voce delle comunità rurali e li aiutano a influenzare le decisioni che li riguardano. Il loro successo in Europa negli ultimi 20 anni   ha ispirato a avviare un Parlamento rurale in ogni stato
Di cosa si tratta?
Il Parlamento europeo Rural è una campagna a lungo termine per esprimere la voce delle popolazioni rurali in Europa. 
 Perché è necessario?
150 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione europea, vive in aree rurali. Essi contribuiscono notevolmente alle economie locali, nazionali ed europee. La loro funzione sociale ed il benessere economico è di fondamentale importanza. Affrontano grandi sfide, tra cui la perdita dei giovani e dei servizi rurali in molte regioni. Il loro futuro dipende da un'azione energica da parte delle comunità rurali stesse, e le politiche  ben concepiti e l'azione da parte dei governi a tutti i livelli.
La campagna ERP  è guidato dalla convinzione che gli interessi delle comunità rurali (ossia tutte le persone che vivono o lavorano in regioni rurali) sono sottorappresentate nei dibattiti nazionali ed europei e nella definizione di politiche e programmi; 
Qual è il suo obiettivo?
 Il Parlamento europeo rurale è stato concepito per:
• Rafforzare la voce delle comunità rurali d'Europa, e per assicurare che gli interessi e il benessere di queste comunità   riflettono nelle politiche nazionali ed europee
• Promuovere auto-aiuto, comprensione comune, la solidarietà, lo scambio di buone prassi e la cooperazione tra le comunità rurali in tutta Europa.
Chi può partecipare al Parlamento  rurale?
All'Iniziativa hanno già dato l'adesione una pluralità  di organizzazioni pubbliche  e private, ONG, associazioni, Gal, reti informali. Intendiamo condividere con tutti i nostri Amici un percorso per addivenire al "Manifesto della neoruralità" in occasione dell'evento pubblico nazionale di presentazione, aperto ai contributi e alla sensibilità di chi vuole contribuire a dare voce alle aree rurali. 
Con quale ambizione?
L'ambizione è quella di far dialogare i portatori di interesse. Che già rappresenta un obiettivo molto ambizioso.
Oggi, come è noto, in tanti forse in tantissimi si occupano di politiche per il territorio, ma spesso non dialogano tra di loro.


La LiberaUniversitàRuraleSaper&SaporOnlus  è tra i promotori del 
ComitatoPromotore EuropeanRuralParliamentItaly,  

 

                 

                                                                  
          


 

martedì 24 ottobre 2017

Le mani in “pasta”

Le mani in “pasta”

 di Peppino Bivona




                            Se” ‘l’erba del vicino è sempre più verde” cosi il pane della zia Lillina, per noi ragazzi,   era tutta un’altra “musica” rispetto a quello preparato dalle nostre madri. Ora vi chiederete stupiti, come sia possibile che uno stesso grano, macinato nel medesimo mulino, lievitato con l’identico lievito madre, possa dare origine ad una cosi variegata espressione diversificata di gusti e di sapori?
Ebbene a quei tempi, dove ancora l’Igiene non era assimilata alla religione di stato e il disinfettante neanche alla sua “acquasantiera”, ogni casa esprimeva un suo “odore” una percezione identificativa, distintiva, in particolare la cucina il luogo dove la vita quotidiana era maggiormente vissuta. Le case erano pavimentate con mattoni rosso-giallo di argilla, porosi e luccicanti solo la domenica mattina, le pareti imbiancate di calce spenta, lasciando all’azzurro dell”’azuolo” una variante cromatica del bagno.















La preoccupazione vera e seria per ogni famiglia a quell’epoca era una ed una sola: mettere dentro casa la “mancia” ovvero le provviste necessarie a superare l’inverno spesso freddo e piovoso. La derrate più importante era ovviamente il grano, conservato nei “ cannizzi” e alla bisogna tirato fuori per macinarlo. A molirlo andavano come di consueto solo gli uomini ai quali veniva riservata, a spese del mugnaio, una lauta e ricca pietanza con “pasta di casa”. Nondimeno il pane, in questo mondo rurale, dominava l’universo assetto relazionale socio-economico  dello scambio, all’insegna della sopravvivenza, tuttavia una” fedda di pani”  non si negava a nessuno.
Il pane era legato al vissuto quotidiano quasi a simbolo di tutti gli accadimenti della vita di ogni giorno: consapevolezza sociale, accensione per una rivolta, scambio e mediazione politica, ricatto per il futuro.
 Ma la farina, di ritorno dal mulino di “pietra”, doveva essere consumata nel giro di due tre mesi, il germe di grano andava in “avaria” Ebbene si, ora come allora è il tempo  che sancisce la nostra esperienza quotidiana!. Il magico crescente era tramandato da generazioni in generazioni   scambiato quotidianamente con i vicini di casa che ne rinnovavano l’origina pasta conservata e aggiornata come pasta acida.
”Lu criscenti s’av’à rinnovari.”L’anticu s’av’à miscari cu lu novu! Sulu accussì si fa lu pani”  scrive in un racconto contenuto in”Rosolio alla cannella” Licia Cardillo. Il crescente come metafora del passato, del trascorso ovvero la memoria….la farina da impastare invece il presente, l’attuale. Dalla loro mescolanza nasce il pane ma anche il senso della nostra vita.
  Cosa avviene intanto in questo microcosmo silenzioso e umile?  Non vogliamo svelarvelo senza che la nuda realtà palesi il disincanto delle passioni “dolci”. Donne sbracciate, dai polsi liberi e possenti, irruenti, affondavano a pugni chiusi , quasi con rabbia , quella pasta prima  informe, poi resa  via via più plastica dai movimenti ritmati, volevano plasmare qualcosa che somigliasse alla loro identità, lasciare il segno della loro presenza, dell’alterità femminile, spesso disconosciuta e talvolta offesa ed umiliata.
 Le mani si slegavano dai polsi , divenivano “snodabili” , insufflavano nella pasta quanto più aria ricca di  ossigeno c’era bisogno  per moltiplicare i lieviti. La pasta nello “ scannaturi” veniva rigirata innumerevoli volte  finché sotto le abili mani  delle nostre nonne non se ne percepivano la sofficità, la leggerezza, il tutto esaltato dal buon odore del “malto”:  è così prendeva avvio la nuova  vita. Le forme impastate con maestria ,rotonde o allungate , venivano  avviate alla lenta e complessa lievitazione. Un sonno profondo, dominato dall’inconscio, dalla irrazionalità, dalla imperscrutabilità degli eventi.
Poi come a rompere questo magico assopimento, la nostra nonna dopo alcune ore, nel più totale silenzio, si avvicinava al letto dove erano sistemate le pagnotte  , scopriva adagio la coperta  e sollevandole con il palmo della mano ne batteva forte l fondo. Sentiva forte e chiaro il tonfo netto del pane a fine lievitazione, leggero ,soffice, malleabile ,la crosta leggermente screpolata. Il forno che “camiava” da circa un’ora era quasi pronto,  la “ramaglia” si era tutta consumata,  il “cielo” del forno era divenuto di un bianco candido  . La scopa di palma nana ripuliva il fondo del forno ,con un po’ d’acqua la nonna ne saggiava il giusto calore , tutto era pronto per “l’infornata” da chiudere con l’immancabile “ balata”.
Aspettavamo taciturni che il calore del forno compisse il suo dovere: regalarci il pane Queste erano  ore  di  affannosa attesa: chissà cosa ci riserverà la “fornata” Chi voleva aprire, subito si scontrava coi tanti che giudicavano  necessario il tempo giusto per cuocerlo. Infine esce il primo pane anticipato da un profumo indescrivibile che inonda tutta la presenza attesa. I pane tratto dal forno inebria i cuori, sollecita indescrivibili emozioni: chi decide di “cunzarlu” con olio e origano, chi lo impreziosisce con acciughe salate , chi ancora con olive nere o verdi . Buona parte del profumo  è addebitabile all’immancabile sesamo , “ la giuggiulena” , una strana pianta  approdata per caso nelle nostre zone. Questo era un rituale, un evento settimanale: il pane era sempre uguale ma nello stesso tempo diverso, la conservazione nella diversità , quello stesso paradigma che sanciva l’amore coniugale!
Ora non più! Altri grani ci danno diversamente farine, bianche di un candore mortifero, smagrite, indebolite, incapaci di nutrire i lieviti di assecondarli nel loro lavoro di demolizione dell’amido, hanno bisogno di aiuto. Abbiamo, invento “ l’ettaro lanciato”  senza risparmiare concimi ,diserbanti, insetticidi e tutto quanto fosse necessario per raggiungere i 100 q.li per ettaro.
Farine buone solo per alimentare i porci!!

Cosi non vi meravigliate se nel retrobottega di un moderno panificio scorgerete scatoloni di malto ,di integratori ,di attivatori chiamati a completare per quanto sia possibile una breve lenta, sofferta, faticosa lievitazione .  

domenica 15 ottobre 2017

Chi ha rubato i semi ai contadini?

Peppino Bivona




Dobbiamo riportare i contadini a coltivare le varietà per la biodiversità, per loro stessi, per la sicurezza alimentare, per il futuro." - Vandana Shiva 





Non abbiamo il diritto di consumare felicità senza 
produrne, proprio come non abbiamo il diritto di 
consumare ricchezza senza guadagnare.
                                                                                   George Bernard Shaw


                   Un tempo quando nelle menti albergava la ragione e il buon senso, i contadini possedevano e utilizzavano i loro semi, li selezionavano, li conservavano, li tramandavano, li scambiavano, erano insomma un patrimonio genetico vegetale delle comunità. Selezionare i semi era un lavoro affidato quasi sempre ai più anziani, i soli che avendo negli anni accumulato più “saperi” sceglievano sulla base del fenotipo i caratteri meritevoli di essere tramandati.

 Lo scenario era familiare: l’anziano contadino, precedeva di poco il resto della famiglia che si apprestava a raccogliere i pomodori “seccagni”, nel suo paniere c’era solo posto per i pomodori “migliori” ,i frutti più colorati, sani ,resistenti ,gustosi, produttivi.  Anno dopo anno venivano scelte i semi dai frutti  che meglio rispondevano alle esigenze del luogo .Erano  mediatori  , attenti e scrupolosi ,consapevoli  della necessità di non arrestare mai questo lungo e complesso processo di adattamento, sempre  in armonia  con il cambiamento climatico, con le condizioni  pedologiche  del luogo .
 Per strano che possa sembrare, le parole “tramandare “e “mutare” ci danno un segno tangibile del mutamento e della tradizione. Il cambiamento che non conosce la continuità genera innovazioni senza radici, senza contesto, senza dare tempo alla comunità di accoglierlo come un bene atteso, di apprenderne il corretto uso, e farne un bene comune.
 Di fatto, invece, le innovazioni isolate e distanti, generano una sorta di eresia dalle conoscenza. Non conosce la vita e  il rispetto per essa
 Ma che senso avrebbe la tradizione senza il lento, inesorabile, cambiamento?
 Avremmo espresso una rigida ripetizione, una monotona “clonazione”, buona per i musei o per alimentare nostalgie.

 No, la rigidità nega la vita, ne diventa inutile parodia, facendosi caricatura del passato.

La Tradizione non è conservatorismo né fascinazione del passato storico, niente è più lontano dalla tradizione di un museo folcloristico.” La verità è che la tradizione non consiste    in un semplice trasmissione del sapere: è invece la trasmissione di un saper vivere. Il tradizionalismo si contrappone alla tradizione perché uccide l’organismo vivente, per diventare un adepto del fossile “ 
 Il percorso che accompagna la vita delle varietà vegetali, parte dalla selezione, lungo un itinerario attraverso un   continuo adattamento. Ci ricorda che la natura non esprime solo e solamente varietà agricole, cosi come noi le conosciamo, ma che esistono le specie, le loro forme spontanee, , gli ecotipi , declinate  sulla  base delle condizioni climatiche,  agronomiche. Le varietà nella loro stretta accezione prendono “forma” da una precisa e definita attività umana, se volete “comunitaria “, come potrebbe accadere ad un “manufatto “ .
Le varietà, a differenza degli ecotipi non sono il prodotto di un incontro occasionale, nel tempo, ma ben di più , ovvero  sono il prodotto  dell’incontro della “ necessità “ con la cultura “ . Perciò sono varietà locali caratterizzate in modo originale e dinamico, sia nella loro modalità epigenetica, quale capacità di esprimere una incessante capacita di ridefinizione del codice costitutivo, sia degli aspetti fenotipici quali estensori di forma e di comportamento 
Cosi alla massima espressione genetica e diversità varietale   operata dalle comunità rurali e contadine, assistiamo oggi alla massima restrizione genetica e fenotipica dell’agricoltura industriale, semplificata e banalizzata fino all’estrema mortificazione della diversità che sfocia nella pratica monoculturale e monovarietale.
 La monocoltura non appartiene al mondo contadino essa è figlia dell’agricoltura intensiva, di precisione, di ordine formale, industriale, quella che prima di produrre prodotti coltiva profitti e contributi, ma produce inquinamento, erosione della terra e della diversità.
Oggi i prodotti delle monocolture, coltivate dalla “monocultura delle menti”, odorano di artificiosità, di moda, di intransigenza e fanatismo, di svalutazione della diversità della pluralità e dalla “contaminazione”  che in agricoltura sono elementi di ricchezza e in natura garanzie di sopravvivenza .
Le esigenze mercantile legate all’uniformità delle tecnologie colturali, di raccolta, confezione , distribuzione e vendita, hanno  sortito  un vero e proprio disorientamento identitario , un approccio astratto alla natura delle cose.
Quella della purezza delle varietà è una esigenza estranea al mondo contadino. Le nuove varietà commerciali sono caratterizzate da uniformità, stabilita e distinguibilità . Sono requisiti previsti per l’iscrizione ai registri varietali, sono coordinate buoni per i parametri ufficiali, definiscono i limiti per la commercializzazione delle sementi, sono caratteri conformi alla loro brevettazione, allo sfruttamento dei benefici commerciali  legati al loro uso .
 Quanto sono diversi e distanti dai campi dei contadini, dove le varietà si incrociano liberamente dando vita a mescolanze di popolazioni!

Le ansie per la purezza varietale tradiscono il misconoscimento e la negazione delle armonie e dei movimenti che spontaneamente e con sapienza anima la natura e ne sono rivelazione. Le ansie per la purezza varietale tradiscono una volontà pianificatrice, una bonaria propensione alla separazione, al rigetto di cosa non è abbastanza puro da compensare, il disorientamento morale, estetico e ontologico che intesse la filigrana della vita.