lunedì 22 dicembre 2014

Buono da mangiare o giusto per nutrirci?



Il cibo deve essere: più buono o più giusto?

Giuseppe Bivona

“La vucca è n’aneddu  chi si futti  turri e casteddu” ( La bocca è un  muscolo anelli forme in grado  di dissipare interi patrimoni compresi torri e castelli)

                                       L’anziana nonnina espresse la sua opinione  con tono sommesso  , ma scandendo con precisione le parole ,  forse perché voleva che non ci fossero dubbi! Entrò nell’ampio salone  della sala-soggiorno e fu investita  da una tavolata riccamente imbandita di ogni ben di dio.
Alice udì la provocazione dell’anziana donna  e a primo acchito non ne comprese il senso logico però storse garbatamente il naso. Figurarsi, Lei … cosi attenta e meticolosa nell’esaltazione dei sapori ,  alla ricerca puntigliosa della combinazione tra gli elementi cibali .. e poi la raffinatezza nell’individuazione del giusto equilibrio dei componenti,  giusta cottura ….insomma qualcosa che rasenti…. erotismo!   

Per farla breve  ad  Alice  le sensazioni olfattive e gustative sono delle emozioni  umane talvolta uniche ed irripetibili, che sarebbe un sacrilegio non goderseli!
Eppure la “nonnina” passando accanto al tavolo, riccamente assortito ed appoggiandosi al suo bastone  ripeteva come una nenia…” Ormai ogni giorno è Natale,una festa continua,  ma l’abbondanza  annulla il desiderio e senza desiderio non c’e godimento….Viviamo  nell’era che ha perso il senso dell’limite , possiamo mangiare tutto quello che desideriamo. Una volta non era cosi, attendevamo  bramosi  le feste e come se la vigilia…insomma il sabato era meglio della domenica!!”
Si, Alice sapeva  ed amava cucinare come poche donne sanno fare ,( i più gettonati sono sempre dell’atro genere) la sua cultura agroalimentare  era sorretta dalla dote naturale legata strettamente al suo  ..buon naso.!
Perciò non perse tempo: “ Strano, molte persone anziane  si “rifugiano” nel cibo  come la sola ed unica esperienza che possa sentirle in vita, quasi che con  le emozioni del gusto  le facessero sentire ancora  saldamente attaccati  alle cose terrene ,legati al sottile filo della vita.”
Invece la nostra “nonnina” non si lascia incantare dalle sirene del gusto . Dai suoi oltre novantanni  aveva maturato ,per le tanti stagioni trascorse  una  lapidaria certezza: le porte dell’inferno sono lastricate   dal facile  ed immediato godimento “
Il dialogo, a  tratti informale continua,”Chissà,” pensò Alice   “ma  certe persone, anziane e non, oggi sembrano occultare il piacere del cibo quasi fosse un atto …peccaminoso! Lo avranno ereditato da San ‘Agostino che il solo unico amore l’ho dobbiamo esprimerlo nel desiderio assoluto con dio e non distrarlo in altre direzioni” .
L’anziana donna non sembrava farsi intimorire dalle dotte citazioni di Alice , rimase in silenzio qualche istante e poi  continuò:
“Questo nostro mondo è tutto strano   paradossale, stravagante…se siamo isodisfatti , infelici, tristi ed ammalati  attiviamo la “nostra “ economia”,ovvero consumiamo di più,  spendiamo senza riflettere per l’acquisto di prodotti suggeriteci dalla pubblicità , varchiamo senza  ritegno  le soglie delle farmacie per rifocillarci  degli ultimi ritrovati della farmacopea.  Ebbene, per strano che possa sembrare dobbiamo esser”infelici”  per consumare di più! Sembra che l’istinto di morte ,di freudiana memoria, passi   dal desiderio di veleni variamente assortiti sotto forma di  sozzerie alimentari , per non parlare dell’abuso di alcool e tabacco.”
 Oggi moltissimi cibi  ingannano,drogano  il cervello , la sede primaria dove vengono codificati le sensazioni olfattive e gustative , decidiamo sulla bontà di un alimento sulla base di sensazioni emotive, viscerali, emozionali  in un scellerato scambio tra messaggi, impulsi gusto-olfattive e risposta logica emessa dal cervello dopato .
Ogni giorno la signora Clerici  come  tanti altri ,in  altri canali televisivi,ci bombardano di bizzarre ricette propinati da  cuochi più o meno famosi tutti  intenti ad esaltare,stupire, emozionare le papille gustatine ed olfattive . Ci sorprendonocon le più impensabili stramberie  al limite dell’assurdo del buon ..gusto
 Ma Chiediamoci:
E tutto l’apparato  digestivo,  enzimatico, assimilativo  cosa ne pensa dei tantissimi  alimenti che in forma e contenuto cosi disparati entrano senza il “loro “ permesso” nel nostro organismo? 
Come si comporta il nostro fegato quando si vede arrivare dei strani grassi sotto forma isometrica “trans” .
 Che destinazione  riserviamo alle tanti peptoni e polipetdi  , che non riusciranno a trasformarsi in amminoacidi .  Per ogni cibo che ingeriamo  non siamo soliti fare  una attenta analisi Ci limitiamo ad un superficiale ,estetica valutazione  visiva,olfattiva gustativa.
Viviamo uno strano rapporto asimmetrico col cibo , : siamo pressoché identici nelle funzioni metaboliche all’uomo del paleolitico  che non aveva “truccato “  nulla della natura  , invece ingeriamo prodotti alimentari che sono diversi e distanti anni luce dal contesto in cui si è evoluto  l’uomo sapiens
La nonnina, ora se ne stava in silenzio per anni aveva visto e ..sentito stupidaggini in televisione programmi  confezioni al solo unico scopo di esaltazione dei sapori  senza avere il minimo riguardo alla destinazione finale ovvero al mantenimento dello stato di salute e benessere   a tavola nel quotidiano rapporto col cibo. La sua quasi centenaria esperienza  l’induceva ad una strana conclusione : spesso e volentieri  le pietanze più ci appaiono buoni più ci fanno male!!
“ Ma allora “ disse un po’ spazientita Alice “ che cosa dobbiamo mangiare?
La nonnina  alzò il viso e le indirizzò uno sguardo benevolo:
“Dobbiamo sederci a tavola imbandita con “ naturalezza”   e sobrietà , il pasto deve  avere un singolare connotato : deve essere “parco” .  Ovvero dobbiamo alzarci da tavola avendo ancora …fame
A tavola come nella vita  dobbiamo fare esperienza de” limite” sapersi controllare ed opporsi  alla tracotanza del tutto e subito del godimento materiale immediato.  Non spegnere la domanda di bisogno.
Vedrai , alla fine questo “sacrificio “….. ne varrà la pena!!”


venerdì 12 dicembre 2014

DOVE ANDIAMO?

di Giuseppe Bivona

 Luoghi e non luoghi dove trascorrere le vacanze

Qualche  esempio di” GeniusLoci


                                                        È ormai celebre la distinzione fra luoghi e non luoghi proposta oltre ventanni fa dall'antropologo francese Marc Augé: "Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico si definirà un non-luogo". 
Sono non luoghi gli spazi relativi al transito e alla circolazione di persone, merci, denaro, informazioni: le stazioni ferroviarie, gli autogrill, i sotterranei della metropolitana, le sale d'attesa degli aeroporti, ma anche i supermercati, le banche, le grandi catene alberghiere e ristorative, i campi nomadi e profughi nelle periferie delle città. 
Laddove i luoghi esprimono una tensione emotiva, una storia e un'identità precisa,ovvero un genius loci, i non luoghi sono privi di storia, anonimi, simili gli uni agli altri.
Laddove i luoghi invogliano le persone a stabilire relazioni sociali, i non luoghi si affollano di individui che non comunicano: la vocazione dei non luoghi non è infatti quella di "creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie". 
Laddove i luoghi esprimono i loro significati e la loro identità ad abitanti e visitatori, i non luoghi hanno senso solo per la loro funzione immediata (ristorazione, trasporto, sosta, ecc.) e, paradossalmente, sembrano per questo lasciare spazio alla personalità e inventiva di ciascun individuo, mentre ,senza saperlo,  dettano le stesse condizioni a tutti.
I non luoghi però non sono una semplice negazione dei luoghi, qualcosa che esiste per sottrazione: sempre più spesso, infatti, luoghi e non luoghi si compenetrano. Da un lato spiagge, montagne, monumenti si trasformano inevitabilmente, se troppo frequentati e visti, in non luoghi: nell'affollamento e nella reiterazione perdono unicità e spessore storico, diventano piatte cartoline. Dall'altro autostazioni, metropolitane, aeroporti ecc. possono acquisire nel tempo un'identità storica, o diventare luoghi d'incontro e relazioni umane, con una loro individualità e densità simbolica.

Nella seconda metà del Novecento il turismo ha progressivamente aumentato il numero di spostamenti di persone nel mondo. Gli statunitensi sono stati i primi a permettersi il viaggio all'estero; negli anni Sessanta è stata la volta degli europei, poi dei canadesi, giapponesi, australiani, finché negli anni Ottanta è esploso il turismo di massa nei paesi ricchi dell'Occidente e Nord del mondo. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), oggi si muovono fuori dai confini nazionali oltre 900 milioni di persone all'anno, ai quali vanno aggiunti spostamenti interni quasi 10 volte superiori a quelli internazionali, per cui le persone che ogni anno viaggiano per turismo sarebbero circa 8 miliardi.
Gli spostamenti di massa hanno moltiplicato a dismisura i non luoghi del mondo, perché da un lato hanno trasformato in non luoghi molti di quelli che un tempo erano luoghi (dal Colosseo alla spiaggia caraibica, dalle Piramidi d'Egitto alle cascate del Niagara), dall'altro hanno indotto l'industria del turismo a costruire nuovi non luoghi: villaggi vacanze, complessi alberghieri e residenziali, campeggi.
Da vent'anni gli operatori del turismo internazionale moltiplicano sistematicamente l'offerta di non luoghi, e lo fanno per una ragione molto semplice: i non luoghi dei viaggi e delle vacanze hanno un'attrattiva particolare, piacciono, sono desiderati dai più. Vediamo perché.
Il non luogo non è mai del tutto nuovo. Lo si è già visto rappresentato in cartolina, sui cataloghi delle agenzie viaggi, sui media, sui souvenir portati a casa da amici e parenti che ci sono già stati. Così, vedere con i propri occhi un monumento celebre, visitare una città d'arte invasa dal turismo è soprattutto un atto di riconoscimento visivo. La gratificazione viene proprio da questo: non occorre sforzarsi troppo, non occorre neanche leggere o ascoltare le spiegazioni della guida turistica, perché riconoscendo dal vero ciò che abbiamo visto in foto ci sembra di sapere già quanto basta.
Il non luogo ci fa girare il mondo senza metterci mai a confronto con le diversità che ci sono nel mondo, il che è molto rassicurante: possiamo dirci gran viaggiatori senza aver mai messo in discussione le nostre abitudini e i nostri pregiudizi, sempre più forti nella convinzione che "tutto il mondo è paese".
I villaggi turistici e i grandi alberghi sono tutti simili fra loro, ovunque si trovino, anche quando gli operatori ne promuovono l'originalità, addirittura l'unicità, con lo stereotipo del "luogo esclusivo". In questi non luoghi si parla lo stesso esperanto (un inglese piatto e semplificato), si fanno le stesse cose (spiaggia, bar, un po' di sport, animazione), si mangiano gli stessi cibi (la cucina internazionale), si incontrano le stesse maschere (l'animatore, l'istruttore sportivo, l'addetta al baby club), si guardano gli stessi paesaggi (riquadri di spiagge fra palme e bungalow, sfondi di natura immancabilmente "incontaminata" e "rigogliosa", come dicono i cataloghi). Le varianti locali sono ridotte al minimo: un piatto più o meno speziato, una musica in sottofondo invece di un'altra, un verde più o meno brillante. 
Gli incontri con le popolazioni locali, con le loro storie e vite, sono sporadici e filtrati dalle gite organizzate, dalle escursioni fuori dal non luogo: andata e ritorno in giornata, dietro una guida locale ben ammaestrata a trattare con i turisti, a dare e dire ciò che vogliono. Non una parola sulle condizioni politiche, sociali ed economiche del paese in cui ci si trova, su dittature, persecuzioni, fame, malattie, così frequenti nel Sud del mondo. E così nei Caraibi si incontrano indigeni sempre "calienti", "poveri ma dignitosi", con "il ritmo nel sangue", in Oriente le persone sono sempre "sorridenti", in Africa i neri sempre "ospitali" e "contenti di vederci". 
Il non luogo ci fa sentire più liberi. "Lo spazio del non luogo libera colui che vi penetra dalle sue determinazioni abituali. Egli è solo ciò che fa o vive come passeggero, cliente, guidatore". Nel non luogo delle vacanze non siamo obbligati, se non vogliamo, a giocare i ruoli della vita di tutti i giorni: non siamo più né medici né commercianti né impiegati, siamo solo turisti. Il non luogo delle vacanze ci regala dunque un po' del suo anonimato, allentando la morsa della vita ordinaria, in cui il nostro profilo professionale, sociale, culturale tiene in scacco la nostra identità personale ed emotiva. 
Questa libertà provvisoria ci piace, ma in fondo non sappiamo che farcene: non riuscendo a ricomporre ciò che abbiamo lasciato a casa con ciò che abbiamo portato in vacanza, non sappiamo stabilire relazioni con gli altri che vadano oltre la nostra comune permanenza nel non luogo.
Il non luogo annulla le differenze fra i suoi visitatori, perché è opportunamente progettato, con diversi costi di accesso, per accogliere persone omogenee per censo e classe sociale. Una cosa è certa: nello stesso non luogo tutti hanno speso esattamente la stessa cifra e dunque tutti sono uguali. Una bella soddisfazione!. 
Ci sono non luoghi economici per turisti che comprano solo viaggi "tutto compreso"; non luoghi un po' più costosi per chi, pur cercando il tutto organizzato, non ama identificarsi con la massa e vuole qualcosa di speciale ma non troppo; non luoghi per coloro che desiderano vacanze veramente "alternative" o "avventurose", itinerari poco frequentati o insoliti, e per questo sono disposti a spendere molto più dei precedenti. 
In sintesi, il non luogo è particolarmente adatto all'idea di vacanza, intesa come vuoto, come buco nel pieno della vita ordinaria: vuoto di esperienza, vuoto di differenze, vuoto di storia, di identità, di relazioni. Non a caso le persone che tornano da un non luogo di vacanza lamentano tutte che, una volta riprese le solite cose, i vissuti della vacanza svaporano in poche ore. Per forza: erano vissuti sotto vuoto.
Eppure milioni di persone, nei paesi ricchi del mondo, lavorano tutto l'anno per concedersi qualche settimana di questi vuoti, e i non luoghi delle vacanze sono fra i più ambiti oggetti dei loro desideri e sogni: sono, appunto, vacanze "da sogno". 
Ma si dice anche, ed è altrettanto vero, che i popoli ricchi, gli stessi che viaggiano per turismo e vacanza, sono incapaci di desiderare davvero qualcosa: i bambini e gli adolescenti possiedono tutto ancora prima di chiederlo, gli adulti ingrassano, fagocitando oggetti e simboli senza averli davvero desiderati. 
Ma allora desideriamo troppo o troppo poco? Entrambe le cose, dipende da cosa intendiamo per desiderio. Il desiderio infatti è bifronte: collettivo e sociale da un lato, personale e individuale dall'altro. 
Si desidera una cosa perché altri le hanno dato una forma desiderabile, o semplicemente perché altri la desiderano. In quanto socialmente determinati, i desideri cambiano nel tempo e nello spazio e hanno una natura storica: un vestito secondo una certa moda piuttosto che un'altra, un cibo francese e non italiano, un uomo con una posizione sociale elevata invece che uno spiantato. 
Ma si desidera anche ciò che appaga il nostro più intimo modo di essere, che è in armonia con la nostra storia personale. In quanto legati ai bisogni degli individui, i desideri seguono le diverse inclinazioni personali: un abito demodé che mi sta così bene, un orologio vecchio che era del nonno, un lavoro che mi fa guadagnare meno ma mi piace di più, un amore che non risponde alle aspettative della famiglia ma mi rende felice.
Il punto è che la società di massa, producendo in serie i desideri collettivi, impedisce a quelli individuali non solo di esprimersi, ma sempre più spesso di nascere. È come se lo spazio del desiderabile fosse talmente pieno di desideri confezionati per noi da altri, che non sappiamo più dove mettere i desideri che sono davvero nostri. 
Dunque abbiamo troppi desideri collettivi, troppo pochi desideri personali. Dunque non sappiamo più desiderare nulla che altri non abbiano pensato per noi. Dunque i non luoghi fanno al caso nostro: privi di identità e storia, non ci costringono a confrontarci con la nostra né ci impongono alcuna relazione, né con loro né con i loro abitanti e visitatori. 
D'altra parte concepire un desiderio, coltivarlo, assaporarne la durata, cercare di realizzarlo in tempi e modi che rispettino la sua e la nostra natura è molto più faticoso che comprare al volo uno qualunque dei tanti desideri che la prima vetrina ci propone. E cercare un luogo, invece di un non luogo, è altrettanto faticoso: significa conoscere e riflettere sulla sua storia, sulla sua realtà politica, economica, sociale, sulle persone che in quel luogo incontreremo, su ciò che potranno darci e che noi potremo dare loro. Significa anche sapere se è davvero il luogo in cui vogliamo andare, se fa al caso nostro. Significa in altre parole sapere cosa desideriamo, ed è proprio questo che ci viene più difficile. 
Pensiamo a come si decidono i non luoghi delle vacanze: si va in agenzia, si guardano più o meno frettolosamente le foto di due o tre cataloghi, si compra il primo pacchetto che si adatta alla nostra disponibilità economica, al periodo in cui vogliamo partire, a preferenze generiche per il mare piuttosto che la montagna, per una vacanza "naturalistica" piuttosto che "culturale", per certe zone del mondo. È quasi per caso che finiamo in un posto invece di un altro, non certo per scelta ponderata e consapevole, né tanto meno perché lo abbiamo desiderato.
Così alla fine, una volta tornati dal non luogo di vacanza, racconteremo che ci siamo riposati, divertiti, rilassati, magari pure che abbiamo avuto una storia d'amore con l'animatore o l'animatrice, con il vicino di ombrellone. Difficilmente però racconteremo che siamo stati felici. No, la felicità è troppo, la felicità occorre davvero desiderarla, e il nostro non luogo non l'abbiamo davvero desiderato. 
D'altra parte, la felicità è quella cosa che il greco antico chiamava eudaimonía, con una parola molto densa che contiene dai mon, cioè il demone, il dio personale di cui parlava Socrate, ma anche l'anima, il soffio vitale, ciò che permette al corpo di stare in vita. Per trovare la felicità occorre prima desiderarla, e per desiderarla occorre dunque ascoltare e seguire il proprio demone interiore. Ma la voce del dio personale, come quella del genio del luogo, si perde nel frastuono dell'olimpo di massa.

sabato 6 dicembre 2014

Un chicco di sole


(seconda parte)

Giuseppe Bivona

Una farina che  si ricava  da piante  di frumento  che hanno perso  la loro  connessione  col sole  e che è maltrattata dalle tecnologie  di molitura  non può essere  che di scadente qualità .Non ha in se le forze  per consentire  una buona panificazione. Per questo le farine  sono ormai addizionate  di additivi vari . L’aggiunta di additivi  è un artificio  per consentire  la panificazione  che senza di loro non  potrebbe avvenire 

                                Oggi, il grano”moderno” è l’esempio più eloquente della stupidità umana come espressione dell’anomalo rapporto che l’uomo ha istaurato  con la natura . L’uomo non si sente più parte della Natura ,  se ne è separato e tenta di dominarla,  di  sfruttarla, senza preoccuparsi  delle condizioni disastrose in cui sta lasciando la terra alle future generazioni.
L’uomo contemporaneo vive una profonda contraddizione,  al limite della inconciliabilità, una sorta di “asimmetria” esistenziale: da un lato le sue capacità razionali gli consentono di manipolare gli alimenti in modo radicale e profondo. Attraverso la “tecnica” soddisfa ogni suo desiderio, appaga i gusti, esalta i sapori, rende disponibile nel tempo e nello spazio gli alimenti, insomma rende possibile l’impossibile. 
Tuttavia, per l’altro verso, questi alimenti, quando li ingeriamo, debbono fare i conti con il nostro sistema  enzimatico, metabolico, digestivo,  assimilativo che, per fortuna o sfortuna …è rimasto tale e quale madre natura ci ha consegnato raggiunto l’apice della catena evolutiva. 
Eppure le nostre difese immunitarie non perdono occasione per lanciarci dei messaggi chiari ed inequivocabili:  le intolleranze o le reazioni allergiche  debbono essere percepite  come un deciso monito  a cambiare la nostra “dieta” o meglio lo stile di vita. Forse a rimuovere il nostro atteggiamento  nei riguardi della terra, una esortazione  ad interrompere il processo di devastante follia , di collettiva ubriacatura..
 Il grano è un frutto particolare  che la natura ci ha donato e che per secoli  ne abbiamo rispettato  e curato la sua identità  in un rapporto simbiotico: io diffondo e difendo i tuoi “ geni “ e tu mi garantisci l’alimentazione in particolare nei mesi invernali: un patto  tra “esseri”   seri e responsabili.
 Così, per  diversi millenni, i nostri contadini selezionarono le sementi , ebbero cura amorevole del chicco di grano, come uno scrigno depositario dell’energia solare. Pensate, dopo la mietitura  i covoni restavano nell’aia per diversi giorni ,  perché si essiccasse e fosse consentito al silicio di migrare dallo stelo e dalle foglie alle preziose cariossidi. 
Poi fummo travolti  dalla follia, la tecnica pervade la nostra vita , colonizza le nostre menti,  annulla ogni pensiero alternativo, siamo omologati  sull’altare dell’efficienza, dell’economicità , dell’efficacia. Passiamo  dai beni alle merci,  dal valore d’uso al valore di scambio! 
L’industria molitoria ed agroalimentare  ci chiede un prodotto  particolare: che non si “deteriori “ il cui shelf life  sia il più lungo possibile perciò  non trova di meglio che le farine doppio zero, inalterabili per una conservazione illimitata nel tempo . Ma chiede  di più: vuole un contenuto glutinino il doppio di quello posseduto dai grani tradizionali . 
 Cosi  accade che le semplici tecniche di incrocio  non soddisfino le richieste della moderna  attività  molitoria ed agroalimentare, bisogna abbandonare la coltivazione dei vecchi obsoleti grani “poveri”  incapaci di rispondere alle nuove emozioni dettate dal gusto e dai variegati sapori , abbisogna  percorrere le nuove vie tracciate  dalle profonde modifiche incise sul DNA attraverso le radiazioni  nucleari  tipo gamma
 L’insensatezza umana  raggiunge il suo epilogo: i nuovi grani consentono di mettere in mostra torte farcite  dal volume incredibile, di lievitare finché lo spazio lo possa consentire, senza limite, senza misura…
Disponiamo di prodotti alimentari morbidi, cedevoli, flessibili ,  gommosi  e impalpabili, buoni a rispondere positivamente  ai dettami inventati  dai  precetti  pubblicitari. Le nostre sensazioni gustative ed olfattive sono colonizzate,  rese  prigioniere,   asservite  alle papille, elaborate da un cervello drogato,  percepite  come piacevoli sensazioni  emozionionali, ma! …
La struttura organica  e la successione metabolica  non rispondono alle emozioni gustative ed olfattive, il cibo introdotto viene sottoposto ai processi digestivi ed assimilativi secondo dettami precisi ed inalterati.  Deve conformarsi agli imperativi  per cui è stato “progettato”. L’esempio più eloquente sono le ”margarine”  la  cui struttura chimica  assume la conformazione “trans”  per cui non viene riconosciuta dalla ghiandola epatica e così passa indenne nel sangue con tutto il disastro che è capace di arrecare. Il glutine, come la caseina, è una calamità della nostra presenza alimentare.  Per Colin Campell sono due disastri che sconvolgono il nostro sistema villico – assimilativo- intestinalee….immunitario.   I grani moderni sono stati “inventati “ per rispondere  alle necessità dell’industria dolciaria e pastaria. Disporre di una percentuale di glutine  che ne rasenta il doppio delle varietà tradizionali   permette di commercializzare paste  che possono essere reclamizzate  resistenti alla cottura, lasciare l’acqua di cottura quasi limpida, sentirle sempre al dente. Ma nessuno vi ha detto  che questo glutine , la sua quantità, il suo rapporto interno ( gliadine e gluteline), reso possibile dalle concimazioni con nitrati,  è  la frazione tossica per i celiaci!