giovedì 22 marzo 2012

La dispensa di “la gnà Maria”



(ovvero l’abbondanza frugale)
Giuseppe Bivona

Il fatto che il declino possa essere prospero è una nuova idea
entusiasmante che ormai si offre a tutti.
(Howard ed Elisabeth Odum)

Erano trascorsi quasi trent’anni che “lu zù Vito” mancava dal suo paese natale. Terminato il militare non volle più saperne di ritornare a coltivare la terra, alle fatiche disumane di tutti i giorni…, pure la   mattina della santa domenica non gli veniva risparmiata: c’era sempre qualcosa da fare, animali da  accudire, stalle da ripulire ecc. Così restò a Torino e trovò lavoro alla FIAT. Si sposò con una “piemontese”  ed ebbe due figlie. Ma la nuova famiglia mal sopportava il none “Vito”: sapeva troppo di meridionale, d’” incrostazione” contadina. Cosi la moglie e i suoceri decisero di “italianizzarlo” chiamandolo “Guido” suonava meglio, e poi era….più moderno, progressista, industriale. Durante la guerra combatté a fianco dei partigiani, si distinse nella difesa dei macchinari della fabbrica che i tedeschi volevano smantellarli per  trasferirli in Germania.
 L’unica  sorella, Maria, con cui intratteneva corrispondenza epistolare, viveva  in Sicilia. La poverina   aveva due crucci: era si vero che al nord le comuni pietre le chiamavano sassi, ma non riusciva a capacitarsi come potesse essere cambiato il nome ad un “cristiano ” nel “bel mezzo” della sua vita, dopo essere stato  sancito da un atto sacramentale, quale quello battesimale! Ma ancor più desiderava rivedere l’amato fratello, prima che diventasse molto vecchio e non più in grado di viaggiare.
Fu così che “lu zù Vitu” italianizzato e modernizzato “Guido” nel 1954 decise di trascorrere con la moglie le vacanze Natalizie in Sicilia e rivedere la sua  famiglia.
La notizia si diffuse in tutto il quartiere in meno di un baleno. Per una famiglia di antiche tradizioni antifasciste ed ora comunista, accogliere un congiunto partigiano che aveva imbracciato il fucile contro i nazi-fascisti, non era un evento di poco conto o che capitasse tutti i giorni!
La gnà Maria sistemò  la stanza da letto dei due sposi al piano superiore, lontano dalle stalle, un locale piccolo ma dignitoso, attiguo alla “dispensa”.
Stanchissimi del viaggio, gli sposi dormirono tutta la notte e buona parte del giorno successivo, mentre fuori una pioggerella fine, mista a neve, annunciava che da lì a qualche giorno sarebbe arrivato il Santo Natale.
Nel totale silenzio del primo pomeriggio la gnà Maria sentì rumori di sedie che si spostavano al piano superiore: segno che i due “piccioncini” si erano svegliati. Era giunta l’ora di preparare la cena  e sempre piano piano salì le scale per prendere le bontà che conservava nella sua dispensa chiusa a chiave e non accessibile a nessuno, segreta  anche ai più stretti  familiari!
 Le quantità e le qualità  che uscivano dalla dispensa erano insindacabilmente decise e portate a tavola dalla “vecchia”. Una  vera e propria ”ape regina” che non ammetteva eccezioni o trasgressioni.
Fu cosi che lu zù Vitu e sua moglie uscendo dalla stanza videro la porta aperta della dispensa e curiosi si affacciarono. In quel momento la gnà Maria stava sistemando i mazzi di origano appesi al muro: fu il primo impatto  che investi l’odorato dei due sposi.  La stanza non era grande ma ogni piccolo spazio era stato sapientemente sfruttato. A destra la grossa giara contenente “l’ogghiu d’aliva” l’olio di oliva, chiusa con un coperchio di legno e il tutto ricoperto da una vecchia tovaglia da tavola ormai in disuso. Poi una lunga fila di barattoli “ burnie” di terracotta smaltate  contenente  i pomodori secchi “cunzarti” con aglio, basilico, origano ed una spruzzata di aceto finale.  Seguivano  appresso  le acciughe salate,  pressate col peso di un grosso sasso bianco e lucido. I fichi secchi,  infilzati in un filo di spago a formare ghirlande, scendevano  dalle canne appesi alla trave principale: marroni e neri,  tutti spruzzati alla base di una polverina biancastra …ovvero lo zucchero eccedente che affiorava come candida neve. Curiosi i melograni che, per essere conservati a lungo, erano tagliati con il rametto che veniva immerso in una bottiglia piena d’acqua, in tal modo si mantenevano turgidi fino a Natale e Capodanno. Per la tradizione  sono buon augurali, tanti chicchi  quanti denari!
Distese su un tavolozza ruvida ed ampia, stavano pezzi di mostarda  di colore tendenzialmente scuro, ma che lasciavano intravedere  sulla superficie ruvida i pezzettini di mandorle tritate e i semi di finocchio.
La parete che guardava l’unica piccola finestra era piena di pomodorino,  ovvero, il pizzutello. Appeso con tutto il fusto e parte delle radici,  le bacche si mantenevano  sane e turgide fino ed oltre Natale.
 Sotto, sistemati a cavalcioni sopra una canna, riposavano i grappoli di uva Sultanina essiccata in compagnia della vecchia e gloriosa Inzolia….e  poi la farina, i legumi secchi, le trecce d’aglio e di cipolla, le mandorle, i cotogni,  le sorbe e le nespole d’inverno, le olive verdi, intere e scacciate, e quelle nere…
Lu zù Vito e la moglie  restarono entrambi esterrefatti  e quasi all’unisono esclamarono:
 -“ Ma voi siete ricchi! Non vi manca niente, avete tutto il necessario! Noi nella civilissima Torino, nei giorni  in cui occupavamo le fabbriche e non si lavorava, pativamo la fame!”
La gnà Maria si sentì un po’ sfottuta :- “ Noi ricchi? Ma non ditemi stupidaggini!”
    
E’ vero gnà Maria, non eravate “ricchi”, eravate poveri, ma con una sobria ebbrezza della vita!  Non avevate molti soldi, anzi, in verità  pochi, ma disponevate di tanti  beni, il giusto necessario e  tutti essenziali. Il superfluo, abbiamo iniziato a conoscerlo, ahimè, negli ultimi decenni del secolo scorso. Le merci circolavano in poche e anguste “putie” del necessario, lontano anni luce  dalle nuove cattedrali del consumismo, quelle in cui, per intenderci, pensiamo di andare a riempire il carrello della spesa “di ogni ben di Dio” senza riflettere sulle  banalità, inutilità e spesso spazzatura dei cibi che acquistiamo.
 E poi…. volete  metter con  quanta dignità e fierezza  esponevate la vostra condizione  di umiltà e frugalità?
Cosa è successo, oggi, alle naturali eredi della gnà Maria? Un nutrito stuolo vociante di donne che imprecano al carovita, a ragione è vero, ma che di contro ha perso di vista quella che un tempo si chiamava “economia domestica” e si insegnava anche nelle scuole. Il sapere fare, gestire la quotidianità con le, a volte o spesso scarse, risorse disponibili in casa, come erano preparate a fare le nostre equilibrate antenate.  Ma la società è cambiata - ci sentiamo dire - ed è vero, ci sono le donne in carriera, gli uomini casalinghi, le massaie abituate ai moderni agi della cucina pronta e via dicendo, ma….. cosa c’è di male a fermarsi un po’ a ragionare sulle cose utili e necessarie e le inutili o superflue, che certo fanno aumentare il PIL, ma non fanno di certo bene né alla nostra tasca né alla nostra salute. E se ancora proviamo a ragionare su questa strada appena imbroccata, ci interessa tanto che aumenti il PIL, parola magica che identifica il benessere, se più che proporzionalmente aumentano le spese per la sanità pubblica a causa di uno stile alimentare e di vita dissennato?
 Strano! Ma dopo mezzo secolo dobbiamo  rivedere i valori nei quali fino ad ora abbiamo creduto.
La frugalità materiale, la sobrietà intesa come mancanza del superfluo, è stata per secoli ritenuta un  valore positivo. Ci ha consentito di sopravvivere. E’ stata l’economia globalizzata di questo “nuovo” mondo a creare  una dissonanza. Del valore “ povertà”  oggi non ne abbiamo alcuna traccia. Intanto più il PIL aumenta, più la natura viene distrutta, più gli uomini sono alienati, più i sistemi di solidarietà vengono smantellati, più le tecniche, le pratiche semplici ma efficaci, assieme ai saperi ancestrali vengono gettati nel dimenticatoio.
La cosiddetta “povertà” di una volta era caratterizzata dall’assenza del superfluo, la miseria di oggi è l’impossibilità di procurare il necessario.

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