(ovvero l’abbondanza frugale)
Giuseppe Bivona
Il fatto che il declino possa essere prospero è una nuova idea
entusiasmante
che ormai si offre a tutti.
(Howard
ed Elisabeth Odum)
Erano trascorsi quasi trent’anni che “lu zù Vito”
mancava dal suo paese natale. Terminato il militare non volle più saperne di
ritornare a coltivare la terra, alle fatiche disumane di tutti i giorni…, pure
la mattina della santa domenica non gli
veniva risparmiata: c’era sempre qualcosa da fare, animali da accudire, stalle da ripulire ecc. Così restò
a Torino e trovò lavoro alla FIAT. Si sposò con una “piemontese” ed ebbe due figlie. Ma la nuova famiglia mal
sopportava il none “Vito”: sapeva troppo di meridionale, d’” incrostazione”
contadina. Cosi la moglie e i suoceri decisero di “italianizzarlo” chiamandolo
“Guido” suonava meglio, e poi era….più moderno, progressista, industriale.
Durante la guerra combatté a fianco dei partigiani, si distinse nella difesa
dei macchinari della fabbrica che i tedeschi volevano smantellarli per trasferirli in Germania.
L’unica sorella, Maria, con cui intratteneva
corrispondenza epistolare, viveva in
Sicilia. La poverina aveva due crucci:
era si vero che al nord le comuni pietre le chiamavano sassi, ma non riusciva a
capacitarsi come potesse essere cambiato il nome ad un “cristiano ” nel “bel
mezzo” della sua vita, dopo essere stato
sancito da un atto sacramentale, quale quello battesimale! Ma ancor più
desiderava rivedere l’amato fratello, prima che diventasse molto vecchio e non
più in grado di viaggiare.
Fu così che “lu zù Vitu” italianizzato e
modernizzato “Guido” nel 1954 decise di trascorrere con la moglie le vacanze
Natalizie in Sicilia e rivedere la sua
famiglia.
La notizia si diffuse in tutto il quartiere in meno
di un baleno. Per una famiglia di antiche tradizioni antifasciste ed ora
comunista, accogliere un congiunto partigiano che aveva imbracciato il fucile
contro i nazi-fascisti, non era un evento di poco conto o che capitasse tutti i
giorni!
La gnà Maria sistemò la stanza da letto dei due sposi al piano
superiore, lontano dalle stalle, un locale piccolo ma dignitoso, attiguo alla
“dispensa”.
Stanchissimi del viaggio, gli sposi dormirono tutta
la notte e buona parte del giorno successivo, mentre fuori una pioggerella
fine, mista a neve, annunciava che da lì a qualche giorno sarebbe arrivato il
Santo Natale.
Nel totale silenzio del primo pomeriggio la gnà
Maria sentì rumori di sedie che si spostavano al piano superiore: segno che i
due “piccioncini” si erano svegliati. Era giunta l’ora di preparare la
cena e sempre piano piano salì le scale
per prendere le bontà che conservava nella sua dispensa chiusa a chiave e non
accessibile a nessuno, segreta anche ai
più stretti familiari!
Le quantità
e le qualità che uscivano dalla dispensa
erano insindacabilmente decise e portate a tavola dalla “vecchia”. Una vera e propria ”ape regina” che non ammetteva
eccezioni o trasgressioni.
Fu cosi che lu zù Vitu e sua moglie uscendo dalla
stanza videro la porta aperta della dispensa e curiosi si affacciarono. In quel
momento la gnà Maria stava sistemando i mazzi di origano appesi al muro: fu il
primo impatto che investi l’odorato dei
due sposi. La stanza non era grande ma
ogni piccolo spazio era stato sapientemente sfruttato. A destra la grossa giara
contenente “l’ogghiu d’aliva” l’olio di oliva,
chiusa con un coperchio di legno e il tutto ricoperto da una vecchia tovaglia
da tavola ormai in disuso. Poi una lunga fila di barattoli “ burnie” di
terracotta smaltate contenente i pomodori secchi “cunzarti” con aglio,
basilico, origano ed una spruzzata di aceto finale. Seguivano
appresso le acciughe salate, pressate col peso di un grosso sasso bianco e
lucido. I fichi secchi, infilzati in un
filo di spago a formare ghirlande, scendevano
dalle canne appesi alla trave principale: marroni e neri, tutti spruzzati alla base di una polverina
biancastra …ovvero lo zucchero eccedente che affiorava come candida neve.
Curiosi i melograni che, per essere conservati a lungo, erano tagliati con il
rametto che veniva immerso in una bottiglia piena d’acqua, in tal modo si
mantenevano turgidi fino a Natale e Capodanno. Per la tradizione sono buon augurali, tanti chicchi quanti denari!
Distese su un tavolozza ruvida ed ampia, stavano
pezzi di mostarda di colore
tendenzialmente scuro, ma che lasciavano intravedere sulla superficie ruvida i pezzettini di
mandorle tritate e i semi di finocchio.
La parete che guardava l’unica piccola finestra era
piena di pomodorino, ovvero, il
pizzutello. Appeso con tutto il fusto e parte delle radici, le bacche si mantenevano sane e turgide fino ed oltre Natale.
Sotto,
sistemati a cavalcioni sopra una canna, riposavano i grappoli di uva Sultanina
essiccata in compagnia della vecchia e gloriosa Inzolia….e poi la farina, i legumi secchi, le trecce
d’aglio e di cipolla, le mandorle, i cotogni,
le sorbe e le nespole d’inverno, le olive verdi, intere e scacciate, e
quelle nere…
Lu zù Vito e la moglie restarono entrambi esterrefatti e quasi all’unisono esclamarono:
-“ Ma voi
siete ricchi! Non vi manca niente, avete tutto il necessario! Noi nella
civilissima Torino, nei giorni in cui
occupavamo le fabbriche e non si lavorava, pativamo la fame!”
La gnà Maria si sentì un po’ sfottuta :- “ Noi
ricchi? Ma non ditemi stupidaggini!”
E’ vero gnà
Maria, non eravate “ricchi”, eravate poveri, ma con una sobria ebbrezza della
vita! Non avevate molti soldi, anzi, in
verità pochi, ma disponevate di tanti beni, il giusto necessario e tutti essenziali. Il superfluo, abbiamo
iniziato a conoscerlo, ahimè, negli ultimi decenni del secolo scorso. Le merci
circolavano in poche e anguste “putie” del necessario, lontano anni luce dalle nuove cattedrali del consumismo, quelle
in cui, per intenderci, pensiamo di andare a riempire il carrello della spesa
“di ogni ben di Dio” senza riflettere sulle
banalità, inutilità e spesso spazzatura dei cibi che acquistiamo.
E poi…. volete
metter con quanta dignità e
fierezza esponevate la vostra condizione di umiltà e frugalità?
Cosa è
successo, oggi, alle naturali eredi della gnà Maria? Un nutrito stuolo vociante
di donne che imprecano al carovita, a ragione è vero, ma che di contro ha perso
di vista quella che un tempo si chiamava “economia domestica” e si insegnava
anche nelle scuole. Il sapere fare, gestire la quotidianità con le, a volte o
spesso scarse, risorse disponibili in casa, come erano preparate a fare le
nostre equilibrate antenate. Ma la
società è cambiata - ci sentiamo dire - ed è vero, ci sono le donne in
carriera, gli uomini casalinghi, le massaie abituate ai moderni agi della
cucina pronta e via dicendo, ma….. cosa c’è di male a fermarsi un po’ a
ragionare sulle cose utili e necessarie e le inutili o superflue, che certo
fanno aumentare il PIL, ma non fanno di certo bene né alla nostra tasca né alla
nostra salute. E se ancora proviamo a ragionare su questa strada appena
imbroccata, ci interessa tanto che aumenti il PIL, parola magica che identifica
il benessere, se più che proporzionalmente aumentano le spese per la sanità
pubblica a causa di uno stile alimentare e di vita dissennato?
Strano! Ma dopo mezzo secolo dobbiamo rivedere i valori nei quali fino ad ora
abbiamo creduto.
La frugalità
materiale, la sobrietà intesa come mancanza del superfluo, è stata per secoli
ritenuta un valore positivo. Ci ha
consentito di sopravvivere. E’ stata l’economia globalizzata di questo “nuovo”
mondo a creare una dissonanza. Del valore
“ povertà” oggi non ne abbiamo alcuna
traccia. Intanto più il PIL aumenta, più la natura viene distrutta, più gli
uomini sono alienati, più i sistemi di solidarietà vengono smantellati, più le
tecniche, le pratiche semplici ma efficaci, assieme ai saperi ancestrali
vengono gettati nel dimenticatoio.
La cosiddetta “povertà” di una
volta era caratterizzata dall’assenza del superfluo, la miseria di oggi è
l’impossibilità di procurare il necessario.
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