Quaranta anni fa, quando lessi I limiti dello sviluppo, già pensavo che
la crescita nell’uso delle risorse globali (la popolazione per l’uso delle
risorse procapite) si sarebbe arrestata entro i successivi quaranta anni.
L’analisi su modello del gruppo Meadows costituì una conferma forte di ciò che
suggeriva il buon senso e che si basava sui principi che risalivano almeno a
Malthus e ad altri economisti classici precedenti.
Ora sono passati proprio quarant’anni e la crescita economica è ancora
l'obiettivo numero uno della politica di quasi tutte le nazioni – questo è
innegabile. Gli economisti della crescita sostengono che i “neo-malthusiani” si
sono semplicemente sbagliati, e che continueremo a crescere. Ma io penso che la
crescita economica sia già finita nel senso che la crescita che continua è ora
antieconomica – costa di più del suo valore marginale e ci rende sempre più
poveri invece che più ricchi. Noi la chiamiamo ancora crescita economica, o
semplicemente “sviluppo”, nella confusa convinzione che la crescita debba
essere sempre economica. Io sono convinto che noi, specialmente nei Paesi
ricchi, abbiamo raggiunto il limite della crescita economica ma non lo
sappiamo, e disperatamente nascondiamo questo fatto con bilanci nazionali
fallaci, perché lo sviluppo è il nostro idolo e smettere di adorarlo sarebbe
una bestemmia.
Mi potreste chiedere se vorrei vivere al freddo e nell’oscurità in una caverna
piuttosto che accettare tutti i benefici storici dello sviluppo. Naturalmente
no. A mio parere il cumulo dei benefici complessivi dello sviluppo sono più grandi
dei costi totali, anche se alcuni storici dell’economia non sono completamente
d’accordo. In ogni caso non possiamo modificare il passato e dobbiamo essere
grati a coloro che hanno sostenuto i costi per creare la ricchezza di cui oggi
godiamo. Ma, come qualunque economista dovrebbe sapere, sono i costi e i
benefici marginali (non quelli totali) rilevanti per determinare quando la
crescita diventa antieconomica. I benefici marginali diminuiscono perché noi
siamo portati a soddisfare prima i nostri bisogni più urgenti; i costi
marginali aumentano perché noi usiamo prima le risorse più accessibili e
sacrifichiamo gli ecosistemi meno vitali man mano che la crescita va avanti
(conversione della natura in manufatti artificiali). I benefici marginali della
terza automobile valgono quanto i costi marginali degli sconvolgimenti
climatici e l’aumento del livello del mare? Il calo dei benefici marginali
bilancerà l'aumento dei costi marginali finché i benefici netti saranno
positivi - nei fatti questo sarà vero sino a quando i benefici netti cumulativi
di crescita del passato non avranno raggiunto il massimo! Nessuno è contrario a
essere più ricco, almeno fino a un livello sufficiente di ricchezza. Che essere
ricchi sia meglio che essere poveri è vero per definizione. Che la crescita ci
faccia sempre più ricchi è però un errore elementare anche nella logica di base
dell’economia standard.
Come suggerito sopra non vogliamo veramente sapere quando la crescita diventa
antieconomica, perché allora dovremmo smettere di crescere in quel momento - ma
non sappiamo come gestire uno stato stazionario dell'economia, e siamo
religiosamente fedeli alla ideologia del "no limits". Vogliamo
credere che la crescita possa "curare la povertà" senza condivisione e
senza limiti alle dimensioni della «nicchia umana» sulla Terra. Per mantenere
questa illusione confondiamo due distinti significati del termine
"crescita economica". A volte ci si riferisce alla crescita di quella
che chiamiamo economia (il sottosistema fisico del nostro mondo costituito
dalle popolazioni con la loro ricchezza, e i flussi di produzione e consumo).
Quando l'economia diventa fisicamente più grande noi chiamiamo questo
"crescita economica". Ma il termine ha anche un secondo significato
molto diverso - se la crescita di qualcosa fa sì che i benefici aumentino più
rapidamente dei costi anche questa noi la chiamiamo "crescita
economica" poiché la crescita è economica nel senso che produce un
beneficio netto o un profitto. Orbene, la "crescita economica" nel
primo senso comporta "crescita economica" nel secondo senso? No,
assolutamente no. L'idea che una economia più grande debba sempre farci più
ricchi è pura illusione.
Che gli economisti debbano contribuire a questa confusione è sconcertante
perché tutto nella microeconomia è dedicato a trovare la scala ottimale per una
determinata attività - il punto oltre il quale i costi marginali superano i
benefici marginali e un'ulteriore crescita sarebbe antieconomica. La formula
Ricavo marginale = Costo marginale è anche chiamata "la regola del quando
fermarsi" nella crescita di un'impresa. Come mai questa semplice regola
logica di ottimizzazione scompare in macroeconomia? Perché la crescita in
macro-economia non è soggetta ad una analoga "regola del quando smettere"?
Ci rendiamo conto che tutte le attività microeconomiche sono parti del sistema
più grande macroeconomico, e la loro crescita provoca lo spostamento e il
sacrificio di altre parti del sistema. Ma la macro-economia è pensata per
essere un tutt'uno e quando si espande, presumibilmente nel vuoto, non dovrebbe
muovere nulla, e quindi non causare alcun costo. Ma questo è falso,
naturalmente. Anche la macroeconomia è una parte, un sottosistema della
biosfera, una parte dell’economia più grande degli ecosistemi naturali. La
crescita della macro-economia impone anche un costo crescente di opportunità
legato alla riduzione del capitale naturale, che ad un certo punto bloccherà
una ulteriore crescita.
Ma alcuni dicono che se la nostra misura empirica della crescita è il PIL, che
si basa sull'acquisto e la vendita volontaria di beni e servizi in regime di
libero mercato, allora questo garantisce che la crescita sia sempre costituita
da beni e non "mali." Questo perché la gente volontariamente
acquisterebbe solo beni. Se la gente, infatti, si comprasse un «male» allora
dovremmo ridefinirlo come un bene! Ma questa strada non ci porta lontano. Il
libero mercato non dà un prezzo ai "mali". Ciò nonostante i mali sono
inevitabilmente prodotti in aggiunta ai beni. Siccome ai mali non viene
attribuito un prezzo, non si possono sottrarre dal PIL - che invece registra la
produzione aggiuntiva di anti-mali (che hanno un prezzo), e li classifica come
beni. Per esempio, non sottraiamo al PIL il costo dell'inquinamento come un
male, ma aggiungiamo al PIL il costo degli interventi anti-inquinamento come un
bene. Questa è contabilità asimmetrica. Inoltre consideriamo il consumo del
capitale naturale (l'esaurimento di miniere, pozzi, falde acquifere, foreste,
riserve di pesca, suolo fertile, ecc.) come se si trattasse di reddito
piuttosto che perdita di capitale - un colossale errore contabile.
Paradossalmente, di conseguenza, quali che siano le altre cose misurabili col
PIL, esso è anche il miglior indice statistico che abbiamo dell'aggregato di inquinamento,
esaurimento, congestione, e perdita di biodiversità. L'economista Kenneth
Boulding ha suggerito, con un pizzico d'ironia, di ribattezzare il PIL
chiamandolo CIL (Costo interno lordo). Quantomeno dovremmo mettere costi e
benefici in una contabilità separata per il confronto. Gli economisti e gli
psicologi stanno scoprendo che, al di là di una soglia di sufficienza, la
correlazione positiva tra il PIL e la felicità autostimata scompare. Questo
fatto non è sorprendente perché il PIL non è mai stato inteso come una misura
della felicità o del benessere, ma solo di attività, alcune delle quali
gioiose, alcune benefiche, alcune necessarie, alcune correttive, alcune banali,
alcune dannose, ed alcune stupide.
In sintesi, la crescita economica nel significato 1 (scala) può diventare, e
negli Stati Uniti è diventata, crescita antieconomica nel senso 2 (benefici
netti). Ed è il significato 2 che conta di più. Penso che I limiti dello
sviluppo nel senso 2 siano stati raggiunti negli ultimi quaranta anni, ma noi
abbiamo volontariamente rimosso questo fatto, con grande danno della maggior
parte di noi, ma a beneficio di una minoranza elitaria che continua a
propagandare l'ideologia della crescita, perché ha trovato il modo di
privatizzare i benefici della crescita e, nel mentre, socializzarne i sempre
crescenti costi. La grande domanda che mi faccio è se sarà possibile negare,
illudersi e oscurare questa realtà anche per i prossimi quarant'anni. Se
continuiamo a negare il limite alla crescita economica quanto tempo ci resta
prima di schiantarci in maniera catastrofica contro i limiti biofisici? Spero
che nei prossimi 40 anni possiamo finalmente riconoscere e adattarci ai limiti
di una economia più sostenibile. L'adattamento significa passare da uno stato
di crescita ad un stato stazionario dell'economia, uno stato quasi certamente
di scala più piccola di quella attuale. Con scala intendo dimensioni fisiche
dell'economia compatibili con l'ecosistema, che possono probabilmente essere
misurate al meglio in termini di throughput delle risorse. E, ironia della
sorte, il miglior indice esistente che abbiamo di throughput è probabilmente il
PIL reale!
Devo confessare la sorpresa che la «negazione» abbia resistito per 40
anni. Penso che il risveglio richiederà qualcosa tipo pentimento e conversione,
per dirla in termini religiosi. È ozioso "prevedere" se avremo la
forza spirituale e la chiarezza razionale per una tale conversione. La
previsione della direzione della storia si fonda su un determinismo che nega
che scopo e impegno siano fattori causali indipendenti. Nessuno ottiene un
premio per predire il suo comportamento. La previsione del comportamento degli
altri è problematica, poiché gli altri sono simili a noi. Se siamo davvero
deterministi allora non importa ciò che prevediamo - anche le nostre previsioni
sono determinate. Essendo un non-determinista io spero, e lavoro, per giungere
alla fine della «crescita-mania» entro i prossimi 40 anni. Questa è la mia
personale scommessa sul futuro a medio termine. Quanta fiducia pongo nel
vincere questa scommessa? Circa il 30%, forse. È del tutto plausibile infatti
che esauriremo completamente le risorse della terra e i sistemi di
supporto vitale in tentativi rovinosamente costosi di crescere comunque, forse
con la conquista militare delle risorse di altre nazioni e dei restanti beni
comuni, forse con il tentativo di conquista della "frontiera alta"
dello spazio. Molti pensano che solo perché abbiamo gestito un paio di
acrobazie spaziali con equipaggio e con spese enormi la fantascienza della
colonizzazione dello spazio siderale sia tecnicamente, economicamente,
politicamente, ed eticamente praticabile. E queste sono le stesse persone che
ci dicono che lo stato stazionario dell'economia sulla terra è un compito
troppo difficile da realizzare.
di Herman Daly
da The Next Forty Years, Jorgen Randers
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