lunedì 5 marzo 2012

Viaggio a Longi


di Giuseppe Bivona


Lasciamo il casello autostradale di Rocca di Caprileone  e ci inerpichiamo attraverso strade tortuose verso le alture dei  Nebrodi incontrando ai lati  piccoli paesi che si snodano su crinali in una serie di contrafforti: Mirto, Frazzanò, Galati e poi  Longi.  Piccoli centri montani ,sostenuti da una  cosi detta  economia rurale povera , sollevata dalle rimesse degli emigrati ed  integrate da interventi assistenziali spiccioli.
 Borghi puliti, silenziosi, riservati sopravvissuti quasi per miracolo ,più alle sfide  delle scelleratezze umane che, alle avversità naturali.
Salendo ,ad una curva, Alice  si sporge dal finestrino , stese il braccio come voler afferrare Alicudi e Filicudi , erano cosi vicini….. a portata di mano.
 Giù in basso una  stretta striscia pianeggiante , un  budello  dal colore indefinito, stretto tra monti e mare, a tratti slargato, quasi interamente occupato da fabbricati  che senza soluzione di continuità, si estendono a dismisura, tanto ad est quanto ad ovest. Da quasi 50 anni, questo budello , stretto e lungo  è cresciuto smoderatamente ,famelico e insaziabile , fino a scoppiare, incapace di contenere , sopportare e ordinare, una crescita vertiginosa, uno sviluppo obbligato cosi da rendere i paesoni  triste menti congestionati, rumorosi e caotici ,in altre parole invivibili!
Eppure non più di qualche  decennio  fa ,questo “contrasto”l’ho abbiamo letto ,studiato e analizzato con strumenti di valutazioni sostanzialmente benevoli,giudicato con un diverso paradigma: la sacralità dello sviluppo, la freccia del tempo  scoccata verso il  progresso. Accettammo  la “modernità” con indulgenza ,quasi come un evento  ineluttabile.
Oggi, paradossalmente ,questi luoghi montani dall’orografia tormentata,storicamente isolati,  per anni ed anni ostaggio di una fame  atavica e della povertà assoluta,dominate per secoli dall’ingiustizia e dalla disperazione,sembrano , per incanto esserne liberati.
Si  sono scrollati  di dosso il pesante fardello che per anni  hanno retto sul groppone, e liberandosene li riversarono per intero  nel carattere torrentizio e violento delle  fiumare  fino a trascinarli giù a valle nella paludosa , limacciosa “marina”.
E qui,che la fiumara umana, abbagliata  dalle luci intense dei negozi, attratta dal luccichio delle vetrine,  per uno stano sortilegio, in un gioco di trasmutazioni, si sono ricombinati e ricomposti  sotto le nuove sembianze del degrado urbano, sociale e ambientale.
Salendo, il tortuoso percorso lascia, a tratti ,qualche brandello di spazio alla  “ distrazione” , Così la memoria corre indietro, gli anni della contestazione studentesca quando alla fine degli anni sessanta frequentavamo la Facoltà di Agraria,eravamo un minuto isolato gruppetto,  ma tenaci ,ci scoprivamo  impegnati a “leggere”gli episodi di lotta o(rivolta)contadina nel tentativo di riscoprirli ed esaltarli.
Così con una buona dose di ingenuità e con non poche forzature ,semplificammo quelle vicende come mito della rivoluzione risolutiva, enfatizzavamo l’importanza dell’azione spontanea delle masse,  speranzosi nell’iniziativa contadina, nelle campagne che assediassero le città, un fronte compatto che si contrapponeva alla società industriale. Aspiravamo ad  nuovo modello di vita ,che nella semplicità e solidarietà dei rapporti comunitari del mondo rurale, potessero trovare qualche suggestione.
Gli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale infuocarono le coscienze meridionaliste e accesero animati dibattiti in un contesto in cui le”terapie”proposte si infrangevano per un verso con l’ottusità e l’intransigenza della vecchia classe latifondista e dall’altro con l’utopia di una certa sinistra fautrice di una soluzione “bolscevica”.
In questi stessi anni uomini come Rossi-Doria della scuola di Portici analizzarono con maggiore serenità e obbiettività la realtà meridionale evidenziandone con chiarezza come le aree interne,”l’osso” a prescindere dalla distribuzione fondiaria non potevano che esprimere un rigido rapporto tra risorse e sviluppo, anzi proprio l’eccessiva pressione demografica in questa realtà ,condizionava ogni tentativo di rinascita. Fu sua la felice espressione di “latifondo contadino”.
Erano invece le aree costiere quelle più o meno pianeggianti, se pur limitate, a costituire la così detta “Polpa” ,suscettibile con gli interventi di bonifica, dell’irrigazione e sostenute dall’assistenza tecnica ,a consentire uno sviluppo agricolo più estensibile.
Cosi con questo dualismo più o meno accentuato e con qualche  occasionale eccezione , che in questo mezzo secolo si caratterizzò lo sviluppo agricolo in Sicilia e in tutto il meridione.
Tuttavia le aree agricole della così detta “polpa” oltre a esprimere una elevata intensità colturale e un deciso aumento della produttività grazie agli investimenti e alle innovazioni tecniche, divengono sempre più particolarmente appetibili agli insediamenti urbani ,industriali e al terziario ,erodendone  anno per anno con famelicità, la base territoriale. Il “budello”, congestionato tra le montagne e il mare, non sa più cosa inventarsi per la creazione di “spazi” , la pianura è limitata , striminzita,invece la bramosia di profitto è smisurata.
Per contro,le aree interne,”l’osso”dopo aver pagato  un prezzo umano non indifferente con l’emigrazione e lo spopolamento raggiungono un difficile equilibrio,talvolta per difetto,tra risorse e pressione demografica e quasi inconsapevolmente scoprono il “territorio” il “paesaggio” il “panorama” ma ancor più la dimensione umana del vivere  , del lento scorrere del tempo, del silenzio.
Insomma  uno scrigno dimenticato e abbandonato da anni, che ad un tratto svela con sorpresa, una ricchezza di tesori inestimabili.
Ora , giù alla “ marina” una violenta tempesta di acqua, fango e detriti si è abbattuta  seminando morte e distruzione . Una  “violenza” della natura  che scuote le nostre certezze, infrange i sogni  che per mezzo secolo hanno alimentato il nostro modello di sviluppo.
Modifichiamo radicalmente e in profondità l’ambiente in cui viviamo ed operiamo  e poi, con una ingenua stoltezza,  aspettiamo  che  gli “enti”  di natura stiano tranquillamente al loro posto , ordinati e ubbidienti  alle nostre  voglie scellerate
Guardiamo  il futuro fiduciosi e speranzosi come un  semplice…..prolungamento del presente o una regolare , ovvia estensione del passato.

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