di Giuseppe Bivona
Lasciamo
il casello autostradale di Rocca di Caprileone
e ci inerpichiamo attraverso strade tortuose verso le alture dei Nebrodi incontrando ai lati piccoli paesi che si snodano su crinali in una
serie di contrafforti: Mirto, Frazzanò, Galati e poi Longi.
Piccoli centri montani ,sostenuti da una cosi detta economia rurale povera , sollevata dalle
rimesse degli emigrati ed integrate da interventi
assistenziali spiccioli.
Borghi puliti, silenziosi, riservati sopravvissuti
quasi per miracolo ,più alle sfide delle
scelleratezze umane che, alle avversità naturali.
Salendo
,ad una curva, Alice si sporge dal
finestrino , stese il braccio come voler afferrare Alicudi e Filicudi , erano
cosi vicini….. a portata di mano.
Giù in basso una stretta striscia pianeggiante , un budello dal colore indefinito, stretto tra monti e
mare, a tratti slargato, quasi interamente occupato da fabbricati che senza soluzione di continuità, si
estendono a dismisura, tanto ad est quanto ad ovest. Da quasi 50 anni, questo
budello , stretto e lungo è cresciuto smoderatamente
,famelico e insaziabile , fino a scoppiare, incapace di contenere , sopportare
e ordinare, una crescita vertiginosa, uno sviluppo obbligato cosi da rendere i
paesoni triste menti congestionati,
rumorosi e caotici ,in altre parole invivibili!
Eppure
non più di qualche decennio fa ,questo “contrasto”l’ho abbiamo letto ,studiato
e analizzato con strumenti di valutazioni sostanzialmente benevoli,giudicato
con un diverso paradigma: la sacralità dello sviluppo, la freccia del tempo scoccata verso il progresso. Accettammo la “modernità” con indulgenza ,quasi come un
evento ineluttabile.
Oggi,
paradossalmente ,questi luoghi montani dall’orografia tormentata,storicamente
isolati, per anni ed anni ostaggio di
una fame atavica e della povertà
assoluta,dominate per secoli dall’ingiustizia e dalla disperazione,sembrano ,
per incanto esserne liberati.
Si sono scrollati di dosso il pesante fardello che per anni hanno retto sul groppone, e liberandosene li riversarono
per intero nel carattere torrentizio e
violento delle fiumare fino a trascinarli giù a valle nella paludosa
, limacciosa “marina”.
E
qui,che la fiumara umana, abbagliata
dalle luci intense dei negozi, attratta dal luccichio delle vetrine, per uno stano sortilegio, in un gioco di
trasmutazioni, si sono ricombinati e ricomposti
sotto le nuove sembianze del degrado urbano, sociale e ambientale.
Salendo,
il tortuoso percorso lascia, a tratti ,qualche brandello di spazio alla “ distrazione” , Così la memoria corre
indietro, gli anni della contestazione studentesca quando alla fine degli anni
sessanta frequentavamo la Facoltà di Agraria,eravamo un minuto isolato
gruppetto, ma tenaci ,ci scoprivamo impegnati a “leggere”gli episodi di lotta
o(rivolta)contadina nel tentativo di riscoprirli ed esaltarli.
Così
con una buona dose di ingenuità e con non poche forzature ,semplificammo quelle
vicende come mito della rivoluzione risolutiva, enfatizzavamo l’importanza
dell’azione spontanea delle masse, speranzosi
nell’iniziativa contadina, nelle campagne che assediassero le città, un fronte
compatto che si contrapponeva alla società industriale. Aspiravamo ad nuovo modello di vita ,che nella semplicità e
solidarietà dei rapporti comunitari del mondo rurale, potessero trovare qualche
suggestione.
Gli
anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale infuocarono le
coscienze meridionaliste e accesero animati dibattiti in un contesto in cui
le”terapie”proposte si infrangevano per un verso con l’ottusità e
l’intransigenza della vecchia classe latifondista e dall’altro con l’utopia di
una certa sinistra fautrice di una soluzione “bolscevica”.
In
questi stessi anni uomini come Rossi-Doria della scuola di Portici analizzarono
con maggiore serenità e obbiettività la realtà meridionale evidenziandone con
chiarezza come le aree interne,”l’osso” a prescindere dalla distribuzione
fondiaria non potevano che esprimere un rigido rapporto tra risorse e sviluppo,
anzi proprio l’eccessiva pressione demografica in questa realtà ,condizionava
ogni tentativo di rinascita. Fu sua la felice espressione di “latifondo
contadino”.
Erano
invece le aree costiere quelle più o meno pianeggianti, se pur limitate, a
costituire la così detta “Polpa” ,suscettibile con gli interventi di bonifica,
dell’irrigazione e sostenute dall’assistenza tecnica ,a consentire uno sviluppo
agricolo più estensibile.
Cosi
con questo dualismo più o meno accentuato e con qualche occasionale eccezione , che in questo mezzo secolo
si caratterizzò lo sviluppo agricolo in Sicilia e in tutto il meridione.
Tuttavia
le aree agricole della così detta “polpa” oltre a esprimere una elevata
intensità colturale e un deciso aumento della produttività grazie agli
investimenti e alle innovazioni tecniche, divengono sempre più particolarmente
appetibili agli insediamenti urbani ,industriali e al terziario ,erodendone anno per anno con famelicità, la base
territoriale. Il “budello”, congestionato tra le montagne e il mare, non sa più
cosa inventarsi per la creazione di “spazi” , la pianura è limitata ,
striminzita,invece la bramosia di profitto è smisurata.
Per
contro,le aree interne,”l’osso”dopo aver pagato
un prezzo umano non indifferente con l’emigrazione e lo spopolamento
raggiungono un difficile equilibrio,talvolta per difetto,tra risorse e
pressione demografica e quasi inconsapevolmente scoprono il “territorio” il
“paesaggio” il “panorama” ma ancor più la dimensione umana del vivere , del lento scorrere del tempo, del silenzio.
Insomma
uno scrigno dimenticato e abbandonato da
anni, che ad un tratto svela con sorpresa, una ricchezza di tesori
inestimabili.
Ora
, giù alla “ marina” una violenta tempesta di acqua, fango e detriti si è
abbattuta seminando morte e distruzione .
Una “violenza” della natura che scuote le nostre certezze, infrange i
sogni che per mezzo secolo hanno
alimentato il nostro modello di sviluppo.
Modifichiamo
radicalmente e in profondità l’ambiente in cui viviamo ed operiamo e poi, con una ingenua stoltezza, aspettiamo
che gli “enti” di natura stiano tranquillamente al loro
posto , ordinati e ubbidienti alle
nostre voglie scellerate
Guardiamo il futuro fiduciosi e speranzosi come un semplice…..prolungamento del presente o una regolare
, ovvia estensione del passato.
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