La Sicilia di Vincenzo Consolo:
Dall’olivo all’olivastro
(parte prima)
.
di Peppino Bivona
Spossato, lacero, i
polmoni pieni di salmastro, guadagna finalmente la spiaggia, avanza sopra un
mondo solido, in mezzo ad alberi e arbusti. E’ l’uomo più solo sulla terra,
senza un compagno, un oggetto l’uomo più spoglio e debole, in preda a
smarrimento , panico in quel luogo estremo ,sconosciuto, che come il mare può
nascondere insidie, violenze. Ulisse ha toccato il punto più basso
dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e
martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro (spuntano da
uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del
bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero e
di destino, della perdita di se, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza
in seno a un consorzio civile, una cultura.) ,si nasconde sotto le foglie
secche per passare la notte paurosa che incombe. E’ svegliato al mattino dalle
voci, dalle grida gioiose e aggraziate di fanciulle , di Nausicaa e delle sue
compagne . Esce dal riparo e si presenta a loro , il sesso schermato da una
fronda , come per simbolica autocastrazione , per non allarmare le vergini
,come umile supplice, dimesso.”( da “ L’olivo e l’olivastro” di V. Consolo).
Vincenzo Consolo nel suo
romanzo “L’Olivo e l’olivastro “pone sul piano metaforico le differenze
tipologiche che intercorrono tra i tratti specifici dell’olivo coltivato,
gentile e di quello selvatico (olivastro) spostandole sul piano socio-
culturale e nella realtà socio-geografica , ma anche storico-morale della
Sicilia . Lo scrittore, per offrire gli strumenti del trasferimento concettuale
dal piano botanico a quello culturale, suggerendo e favorendo, in tal modo,
un'interpretazione metaforica ed una riflessione cospicua e pensosa, utilizza
una figura mitologico-narrativa assai vicina e gradita alla sua ideologia:
Ulisse.
Consolo ipotizza che Odisseo, dopo una delle sue sofferte
peregrinazioni geografiche e gnoseologiche, sia approdato, per trovare rifugio,
in una tana ricavata in un grosso tronco di un olivo ed un olivastro. La
distanza, a questo punto, tra l'olivo e l'olivastro, ovvero tra l'affiliarsi ai
codici del consorzio civile e l'estraniarsi nell'asprezza della natura, diventa
la chiave di lettura dei paesaggi siciliani visitati dal personaggio del libro,
un io narrante senza nome, che emigra nel 1968, a seguito del terremoto del
Belice da Gibellina e poi torna e constata le “condizioni” della Sicilia. Le
situazioni dell’isola hanno come tratto connotativo e distintivo proprio la
commistione dell'olivo e dell'olivastro, ovvero della civiltà e dell'assenza
della stessa.
Tutto trae dalle constatazioni fatte dal personaggio consoliano,
è che quella linea cronologica, che prevede la trasformazione dell'olivastro in
olivo, che auspica, in termini di efficacia produttiva, il passaggio (tramite
innesto) dalla forma selvatica, aliena e distante dalle prospettive della
rendita regolare, alla specie gentile e fertile, grazie all'osservazione di
pratiche regolamentate (quali la concimazione, l'irrigazione e la potatura). Ma
in Sicilia è stata totalmente travisata ed invertita, nella misura in cui si
attua, paradossalmente, il passaggio dall'olivo all'olivastro. La Sicilia si è
allontanata e continua a farlo dalle regole del consorzio civile per posizionarsi
nel caos aspro della natura. La constatazione, insomma, di chi ritorna, lungi
dall'osservare un miglioramento del tessuto sociologico, registra,
inequivocabilmente, un regresso, che tocca il limite dell'imbarbarimento.
Partendo da questa idea invertita della società siciliana,
Consolo valuta il paradosso dell'isola: dalla storia illustre, generata dalla
confluenza di popoli e civiltà colonizzatori, che hanno resa opulenta la
Sicilia, non solo materialmente ma anche culturalmente, si passa, quasi ritmicamente
ed in modo inesorabile, alla cancellazione di queste testimonianze, al loro
annullamento incosciente (o forse fin troppo cosciente!) in nome
dell'adattamento a codici, che si pongono come unico obiettivo quello di
sovvertire le altre regole.
Ecco come descrive Consolo tale percorso delle constatazioni
siciliane, servendosi sempre, per l'agevolazione interpretativa a vantaggio dei
suoi lettori, della figura odissiaca: «Ma, una volta immerso nella vastità del
mare, è come fosse il suo un viaggio in verticale, una discesa negli abissi,
nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo,
distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra
smarrimenti, inganni, oblii, malìe, perdite tremende, fino alla solitudine,
all'assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita» .
Poiché la copertura metaforica è palese all'interno della trama
narrativa, occorre comprendere quali entità si celino dietro le streghe
odissiache, dietro i giganti, i mostri, gli oblii e gli inganni. Serve, in
sostanza, capire quali siano le Calipso della Sicilia, che tutto nascondono e
rendono invisibile, quali siano le Scilla e Cariddi siciliane, che tutto
triturano e divorano, quali siano le Sirene dell'isola, che persuadono ad
ascoltare i loro dolci canti, rivelatori di contenuti inconoscibili, chi siano
i Lotofagi che forniscono il frutto dell’oblio, della perdita della memoria.
Dell’olivastro, che hanno soppiantato l'olivo. «In quale luogo pascolavano le
mitiche vacche?
È certo che non esiste una geografia reale dell'Odissea, ma
un'antica tradizione, che va da Timeo a Ovidio, a Plinio, ad Appiano, le
colloca nella bellissima piana di Mylai. “Tutta l'estensione del Promontorio
verdeggiante in vari punti di vigne, e i suoi uliveti, e le sue case vagamente
sparse per ogni dove; tutta l'estensione dell'amenissima Piana, coi suoi fiumi,
coi poggetti, e i colli e le valli, e i monti che la circondano (…)”. Ai
milazzesi è stato distrutto per sempre, verso la fine degli anni Cinquanta,
quell' “incantevole” teatro, come è stato distrutto agli augustani, ai
siracusani, ai gelesi. Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove
si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di
tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica e
infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo,
mare, menti, cultura» Ciò che gli suscita più rabbia, però, è proprio il fatto
che la Sicilia abbia smarrito il senso della gloria del passato storico ed
abbia consentito l’attivazione di processi, come questi, di imbarbarimento ed
orrore. «Corre sulla strada per
Siracusa, lungo la costa bianca e porosa di calcare, ai piedi del tavolato degli
Iblei, va oltre il Tauro, Brùcoli, Villasmundo, va dentro l'immenso inferno di
ferro e fiamme, vapori e fumi, dentro le fabbriche di cementi e concimi, acidi
e diossine, centrali termoelettriche e raffinerie, dentro Melilli e Priolo di
cilindri e piramidi, serbatoi di nafte, oli, benzine, dentro il regno sinistro
di Lestrigoni potenti, di feroci giganti che calpestano uomini, legge, morale,
corrompono e ricattano» .
Il passato documentario di siti come Megara Hyblaeea, Thapsos è
stato sacrificato in nome della necessità di costruzione di binari ferroviari e
strade, per consentire, cioè, una mobilità più fluida. Anche la potenzialità di
sviluppo dell'isola mediante il settore del turismo è stata compromessa
definitivamente in virtù dell'incontrovertibile alterazione delle coste e dei
fondali marini. Le attrattive paesaggistiche dell'area e le potenzialità insite
nella stessa, sia agricole che turistiche, sono state invalidate per sempre.
La posizione di Consolo dinanzi a questo spettacolo è
dubitativa, contempla tutte le perplessità di chi non è ancora riuscito a
trovare una risposta di fronte alla constatazione dei dati del presente: quella
dell'insediamento industriale era, assai probabilmente, una scelta da fare per
fornire un aiuto al problema occupazionale dell'isola, ma andava gestita in maniera
differente, con provvedimenti diversi, per evitare i sacrifici consumati su
un'area di indiscutibile valore.
Quali ragioni o principi, continua a chiedersi Consolo, hanno
potuto legittimare la sopraffazione spudorata da parte dell'industria petrolifera?
C'è stata realmente una valutazione delle convenienze sociali prima
dell'avviamento del polo? Da cosa sono dipese queste forme di acuta cecità da
parte di chi lo ha progettato ed avallato istituzionalmente? Come valutare
l'intorpidimento da parte di chi, quasi volontariamente e con felice
convinzione, ha ceduto i propri terreni agricoli per assicurarsi un posto di
lavoro in qualche azienda nascente? Chi sono stati gli agenti di questo
imbonimento? Quali sono stati gli “argomenti” presentati dalle tecniche
retoriche? Quanto è legittimo fagocitare la storia in nome dell'elevamento del
reddito, dell'incremento demografico e dello sviluppo economico?
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