Negli ultimi decenni
il sistema alimentare degli Stati Uniti e della maggior parte delle altre
nazioni si è globalizzato. Il cibo viene scambiato in quantità enormi: non solo
il cibo di lusso (come caffè e cacao), ma anche le derrate alimentari di base
come grano, mais, patate e riso.
La globalizzazione del sistema alimentare ha
portato dei vantaggi: la popolazione dei paesi ricchi ha ora accesso ad
un’ampia varietà di cibi in ogni momento, inclusi frutta e verdura fuori
stagione (come le mele in maggio o gli asparagi in gennaio) ed alimenti che non
possono essere prodotti localmente (come l’avocado in Alaska). Trasporti a
lungo raggio rendono possibile la distribuzione del cibo da aree in cui abbonda
a luoghi in cui è scarso. Mentre nei secoli passati il fallimento regionale di
una coltivazione poteva portare ad una carestia, ora i sui effetti possono
essere neutralizzati tramite l’importazione, relativamente poco costosa, di
cibo dall’estero. Tuttavia, la globalizzazione del sistema alimentare crea
anche una vulnerabilità sistemica. Al crescere del prezzo del carburante,
aumentano i costi dei prodotti d’importazione. Se la disponibilità di
carburanti fosse drasticamente ridotta da qualche evento economico o
geopolitico transitorio, l’intero sistema potrebbe collassare. Un sistema
globalizzato è inoltre più soggetto a contaminazioni accidentali, come visto
recentemente con il caso della melamina, una sostanza tossica finita nel cibo
in Cina. Il miglior modo per rendere il nostro sistema alimentare più
resiliente contro questi rischi è chiaro: decentralizzarlo e rilocalizzarlo.
La rilocalizzazione
avverrà inevitabilmente, prima o poi, come effetto del calo della produzione
del petrolio, dato che non esistono sorgenti di energia alternative in vista
che possano essere introdotte in tempi brevi per prendere il posto dei derivati
petroliferi. Pertanto se vogliamo fare in modo che il processo di Transizione
si sviluppi in modo positivo, piuttosto che catastrofico, bisogna che sia
pianificato e coordinato. Questo richiederà uno sforzo appositamente mirato a
costruire infrastrutture dedicate all’economia alimentare regionale, adatte a
sostenere un’agricoltura diversificata ed a ridurre il quantitativo di
combustibile fossile che è alla base della dieta Nordamericana.
Rilocalizzare
significa produrre localmente una frazione maggiore del fabbisogno alimentare
di base. Nessuno dice che dovremmo eliminare completamente il commercio
alimentare: questo danneggerebbe sia gli agricoltori che i consumatori.
Piuttosto, è necessario fissare delle priorità alla produzione inmodo tale che
le comunità possano fare maggiore affidamento su fonti locali per gli alimenti
di base, mentre le importazioni a lungo raggio dovrebbero essere riservate ai
cibi di lusso. Le derrate alimentari basilari legate alla tradizioni locali,
generalmente di basso valore e di conservabili a lungo, dovrebbero venire
coltivate in tutte le regioni per motivi di sicurezza alimentare. Una simile
decentralizzazione del sistema alimentare produrrà maggiore resilienza sociale,
capace di contrastare le fluttuazioni del prezzo del combustibile. Saranno
anche minimizzati, ove appaiano, i problemi relativi alla contaminazione del
cibo. Nel contempo, rivitalizzare la produzione locale di alimenti aiuterà a
rinnovare l’economia del territorio. I consumatori potranno godere di cibo di
qualità migliore, più fresco e di stagione. Sarà ridotto l’impatto dei
trasporti sul clima. Ogni nazione e regione dovranno escogitare la propria
strategia di rilocalizzazione del sistema alimentare basandosi su un’ampia
valutazione iniziale di debolezze e punti di forza. I punti deboli dovrebbero
essere identificati tramite l’analisi delle numerosissime modalità di
dipendenza dell’approvvigionamento locale di alimenti dalla disponibilità e dal
costo del combustibile fossile, attraverso tutte le fasi del sistema di
produzione agroalimentare e della filiera distributiva. Le opportunità saranno
diverse a seconda delle comunità e delle regioni agricole, benché esistano
molte azioni che i governi possono intraprendere quasi ovunque:
• Incoraggiare la produzione
ed il consumo del cibo locale offrendo supporto alle strutture a questo scopo
necessarie come i mercati contadini (farmers’ market).
• Inserire
all’interno del sistema di gestione dei rifiuti installazioni per la raccolta
dei residui di cibo da convertire in compost, biogas e mangime animale, da
fornire a contadini e allevatori locali.
• Richiedere che una
percentuale minima degli acquisti di cibo per scuole, ospedali, basi militari e
carceri sia approvvigionata entro un raggio di 100km.
• Creare una
normativa sulla sicurezza alimentare in base alla scala di produzione e
distribuzione, in modo che un piccolo produttore che vende i suoi prodotti
direttamente non sia soggetto alle stesse onerose regole di una multinazionale.
Gli agricoltori
stessi devono ripensare le loro strategie: la maggior parte delle aziende
orientate all’esportazione dovrà spostare la produzione verso alimenti di base
per il consumo locale e regionale, uno sforzo che richiederà sia una analisi
dei mercati locali che la scelta di varietà adatte per questi mercati; il
movimento Community Supported Agriculture (Supporto all’Agricoltura di
Comunità-CSA) fornisce un modello di organizzazione aziendale che si è
dimostrato vincente in diverse aree. I piccoli produttori che affrontano significativi
esborsi di capitali durante questa transizione possono costituire cooperative
informali per l’acquisto di macchinari ad esempio trebbiatrici per i cereali,
mulini o presse per la lavorazione dei semi oleosi o microturbine idrauliche
per produrre elettricità. La scelta di rilocalizzare il sistema alimentare sarà
più difficile per alcune nazioni e regioni rispetto ad altre. Dovrebbero essere
incoraggiate la creazione di orti urbani e anche di piccoli allevamenti (di
polli, anatre, oche e conigli) all’interno delle città, ma anche così sarà
necessario approvvigionare la maggior parte del cibo dalla campagna
circostante, trasportandolo alle comunità urbane e periurbane senza utilizzare
combustibile fossile. In questo senso la rilocalizzazione dovrebbe essere vista
come un processo e uno sforzo generale e non come un obiettivo assoluto da
raggiungere.
*Estratto da “La
Transizione Agroalimentare”
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