venerdì 12 dicembre 2014

DOVE ANDIAMO?

di Giuseppe Bivona

 Luoghi e non luoghi dove trascorrere le vacanze

Qualche  esempio di” GeniusLoci


                                                        È ormai celebre la distinzione fra luoghi e non luoghi proposta oltre ventanni fa dall'antropologo francese Marc Augé: "Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico si definirà un non-luogo". 
Sono non luoghi gli spazi relativi al transito e alla circolazione di persone, merci, denaro, informazioni: le stazioni ferroviarie, gli autogrill, i sotterranei della metropolitana, le sale d'attesa degli aeroporti, ma anche i supermercati, le banche, le grandi catene alberghiere e ristorative, i campi nomadi e profughi nelle periferie delle città. 
Laddove i luoghi esprimono una tensione emotiva, una storia e un'identità precisa,ovvero un genius loci, i non luoghi sono privi di storia, anonimi, simili gli uni agli altri.
Laddove i luoghi invogliano le persone a stabilire relazioni sociali, i non luoghi si affollano di individui che non comunicano: la vocazione dei non luoghi non è infatti quella di "creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie". 
Laddove i luoghi esprimono i loro significati e la loro identità ad abitanti e visitatori, i non luoghi hanno senso solo per la loro funzione immediata (ristorazione, trasporto, sosta, ecc.) e, paradossalmente, sembrano per questo lasciare spazio alla personalità e inventiva di ciascun individuo, mentre ,senza saperlo,  dettano le stesse condizioni a tutti.
I non luoghi però non sono una semplice negazione dei luoghi, qualcosa che esiste per sottrazione: sempre più spesso, infatti, luoghi e non luoghi si compenetrano. Da un lato spiagge, montagne, monumenti si trasformano inevitabilmente, se troppo frequentati e visti, in non luoghi: nell'affollamento e nella reiterazione perdono unicità e spessore storico, diventano piatte cartoline. Dall'altro autostazioni, metropolitane, aeroporti ecc. possono acquisire nel tempo un'identità storica, o diventare luoghi d'incontro e relazioni umane, con una loro individualità e densità simbolica.

Nella seconda metà del Novecento il turismo ha progressivamente aumentato il numero di spostamenti di persone nel mondo. Gli statunitensi sono stati i primi a permettersi il viaggio all'estero; negli anni Sessanta è stata la volta degli europei, poi dei canadesi, giapponesi, australiani, finché negli anni Ottanta è esploso il turismo di massa nei paesi ricchi dell'Occidente e Nord del mondo. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), oggi si muovono fuori dai confini nazionali oltre 900 milioni di persone all'anno, ai quali vanno aggiunti spostamenti interni quasi 10 volte superiori a quelli internazionali, per cui le persone che ogni anno viaggiano per turismo sarebbero circa 8 miliardi.
Gli spostamenti di massa hanno moltiplicato a dismisura i non luoghi del mondo, perché da un lato hanno trasformato in non luoghi molti di quelli che un tempo erano luoghi (dal Colosseo alla spiaggia caraibica, dalle Piramidi d'Egitto alle cascate del Niagara), dall'altro hanno indotto l'industria del turismo a costruire nuovi non luoghi: villaggi vacanze, complessi alberghieri e residenziali, campeggi.
Da vent'anni gli operatori del turismo internazionale moltiplicano sistematicamente l'offerta di non luoghi, e lo fanno per una ragione molto semplice: i non luoghi dei viaggi e delle vacanze hanno un'attrattiva particolare, piacciono, sono desiderati dai più. Vediamo perché.
Il non luogo non è mai del tutto nuovo. Lo si è già visto rappresentato in cartolina, sui cataloghi delle agenzie viaggi, sui media, sui souvenir portati a casa da amici e parenti che ci sono già stati. Così, vedere con i propri occhi un monumento celebre, visitare una città d'arte invasa dal turismo è soprattutto un atto di riconoscimento visivo. La gratificazione viene proprio da questo: non occorre sforzarsi troppo, non occorre neanche leggere o ascoltare le spiegazioni della guida turistica, perché riconoscendo dal vero ciò che abbiamo visto in foto ci sembra di sapere già quanto basta.
Il non luogo ci fa girare il mondo senza metterci mai a confronto con le diversità che ci sono nel mondo, il che è molto rassicurante: possiamo dirci gran viaggiatori senza aver mai messo in discussione le nostre abitudini e i nostri pregiudizi, sempre più forti nella convinzione che "tutto il mondo è paese".
I villaggi turistici e i grandi alberghi sono tutti simili fra loro, ovunque si trovino, anche quando gli operatori ne promuovono l'originalità, addirittura l'unicità, con lo stereotipo del "luogo esclusivo". In questi non luoghi si parla lo stesso esperanto (un inglese piatto e semplificato), si fanno le stesse cose (spiaggia, bar, un po' di sport, animazione), si mangiano gli stessi cibi (la cucina internazionale), si incontrano le stesse maschere (l'animatore, l'istruttore sportivo, l'addetta al baby club), si guardano gli stessi paesaggi (riquadri di spiagge fra palme e bungalow, sfondi di natura immancabilmente "incontaminata" e "rigogliosa", come dicono i cataloghi). Le varianti locali sono ridotte al minimo: un piatto più o meno speziato, una musica in sottofondo invece di un'altra, un verde più o meno brillante. 
Gli incontri con le popolazioni locali, con le loro storie e vite, sono sporadici e filtrati dalle gite organizzate, dalle escursioni fuori dal non luogo: andata e ritorno in giornata, dietro una guida locale ben ammaestrata a trattare con i turisti, a dare e dire ciò che vogliono. Non una parola sulle condizioni politiche, sociali ed economiche del paese in cui ci si trova, su dittature, persecuzioni, fame, malattie, così frequenti nel Sud del mondo. E così nei Caraibi si incontrano indigeni sempre "calienti", "poveri ma dignitosi", con "il ritmo nel sangue", in Oriente le persone sono sempre "sorridenti", in Africa i neri sempre "ospitali" e "contenti di vederci". 
Il non luogo ci fa sentire più liberi. "Lo spazio del non luogo libera colui che vi penetra dalle sue determinazioni abituali. Egli è solo ciò che fa o vive come passeggero, cliente, guidatore". Nel non luogo delle vacanze non siamo obbligati, se non vogliamo, a giocare i ruoli della vita di tutti i giorni: non siamo più né medici né commercianti né impiegati, siamo solo turisti. Il non luogo delle vacanze ci regala dunque un po' del suo anonimato, allentando la morsa della vita ordinaria, in cui il nostro profilo professionale, sociale, culturale tiene in scacco la nostra identità personale ed emotiva. 
Questa libertà provvisoria ci piace, ma in fondo non sappiamo che farcene: non riuscendo a ricomporre ciò che abbiamo lasciato a casa con ciò che abbiamo portato in vacanza, non sappiamo stabilire relazioni con gli altri che vadano oltre la nostra comune permanenza nel non luogo.
Il non luogo annulla le differenze fra i suoi visitatori, perché è opportunamente progettato, con diversi costi di accesso, per accogliere persone omogenee per censo e classe sociale. Una cosa è certa: nello stesso non luogo tutti hanno speso esattamente la stessa cifra e dunque tutti sono uguali. Una bella soddisfazione!. 
Ci sono non luoghi economici per turisti che comprano solo viaggi "tutto compreso"; non luoghi un po' più costosi per chi, pur cercando il tutto organizzato, non ama identificarsi con la massa e vuole qualcosa di speciale ma non troppo; non luoghi per coloro che desiderano vacanze veramente "alternative" o "avventurose", itinerari poco frequentati o insoliti, e per questo sono disposti a spendere molto più dei precedenti. 
In sintesi, il non luogo è particolarmente adatto all'idea di vacanza, intesa come vuoto, come buco nel pieno della vita ordinaria: vuoto di esperienza, vuoto di differenze, vuoto di storia, di identità, di relazioni. Non a caso le persone che tornano da un non luogo di vacanza lamentano tutte che, una volta riprese le solite cose, i vissuti della vacanza svaporano in poche ore. Per forza: erano vissuti sotto vuoto.
Eppure milioni di persone, nei paesi ricchi del mondo, lavorano tutto l'anno per concedersi qualche settimana di questi vuoti, e i non luoghi delle vacanze sono fra i più ambiti oggetti dei loro desideri e sogni: sono, appunto, vacanze "da sogno". 
Ma si dice anche, ed è altrettanto vero, che i popoli ricchi, gli stessi che viaggiano per turismo e vacanza, sono incapaci di desiderare davvero qualcosa: i bambini e gli adolescenti possiedono tutto ancora prima di chiederlo, gli adulti ingrassano, fagocitando oggetti e simboli senza averli davvero desiderati. 
Ma allora desideriamo troppo o troppo poco? Entrambe le cose, dipende da cosa intendiamo per desiderio. Il desiderio infatti è bifronte: collettivo e sociale da un lato, personale e individuale dall'altro. 
Si desidera una cosa perché altri le hanno dato una forma desiderabile, o semplicemente perché altri la desiderano. In quanto socialmente determinati, i desideri cambiano nel tempo e nello spazio e hanno una natura storica: un vestito secondo una certa moda piuttosto che un'altra, un cibo francese e non italiano, un uomo con una posizione sociale elevata invece che uno spiantato. 
Ma si desidera anche ciò che appaga il nostro più intimo modo di essere, che è in armonia con la nostra storia personale. In quanto legati ai bisogni degli individui, i desideri seguono le diverse inclinazioni personali: un abito demodé che mi sta così bene, un orologio vecchio che era del nonno, un lavoro che mi fa guadagnare meno ma mi piace di più, un amore che non risponde alle aspettative della famiglia ma mi rende felice.
Il punto è che la società di massa, producendo in serie i desideri collettivi, impedisce a quelli individuali non solo di esprimersi, ma sempre più spesso di nascere. È come se lo spazio del desiderabile fosse talmente pieno di desideri confezionati per noi da altri, che non sappiamo più dove mettere i desideri che sono davvero nostri. 
Dunque abbiamo troppi desideri collettivi, troppo pochi desideri personali. Dunque non sappiamo più desiderare nulla che altri non abbiano pensato per noi. Dunque i non luoghi fanno al caso nostro: privi di identità e storia, non ci costringono a confrontarci con la nostra né ci impongono alcuna relazione, né con loro né con i loro abitanti e visitatori. 
D'altra parte concepire un desiderio, coltivarlo, assaporarne la durata, cercare di realizzarlo in tempi e modi che rispettino la sua e la nostra natura è molto più faticoso che comprare al volo uno qualunque dei tanti desideri che la prima vetrina ci propone. E cercare un luogo, invece di un non luogo, è altrettanto faticoso: significa conoscere e riflettere sulla sua storia, sulla sua realtà politica, economica, sociale, sulle persone che in quel luogo incontreremo, su ciò che potranno darci e che noi potremo dare loro. Significa anche sapere se è davvero il luogo in cui vogliamo andare, se fa al caso nostro. Significa in altre parole sapere cosa desideriamo, ed è proprio questo che ci viene più difficile. 
Pensiamo a come si decidono i non luoghi delle vacanze: si va in agenzia, si guardano più o meno frettolosamente le foto di due o tre cataloghi, si compra il primo pacchetto che si adatta alla nostra disponibilità economica, al periodo in cui vogliamo partire, a preferenze generiche per il mare piuttosto che la montagna, per una vacanza "naturalistica" piuttosto che "culturale", per certe zone del mondo. È quasi per caso che finiamo in un posto invece di un altro, non certo per scelta ponderata e consapevole, né tanto meno perché lo abbiamo desiderato.
Così alla fine, una volta tornati dal non luogo di vacanza, racconteremo che ci siamo riposati, divertiti, rilassati, magari pure che abbiamo avuto una storia d'amore con l'animatore o l'animatrice, con il vicino di ombrellone. Difficilmente però racconteremo che siamo stati felici. No, la felicità è troppo, la felicità occorre davvero desiderarla, e il nostro non luogo non l'abbiamo davvero desiderato. 
D'altra parte, la felicità è quella cosa che il greco antico chiamava eudaimonía, con una parola molto densa che contiene dai mon, cioè il demone, il dio personale di cui parlava Socrate, ma anche l'anima, il soffio vitale, ciò che permette al corpo di stare in vita. Per trovare la felicità occorre prima desiderarla, e per desiderarla occorre dunque ascoltare e seguire il proprio demone interiore. Ma la voce del dio personale, come quella del genio del luogo, si perde nel frastuono dell'olimpo di massa.

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