giovedì 4 gennaio 2024

L'eredità della memoria.


 Peppino Bivona

Il libro “Un secolo di inquietudini” sottotitolo “Menfi dalla Carboneria ai fasci dei lavoratori” scritto da Enzo Lotà e Rocco Riportella, si legge  con curioso interesse per la semplice ragione che tratta  vicende e fatti, registrati nel secolo XIX, tutto sommato  un tempo a noi relativamente vicino, con personaggi che incontriamo ogni giorno  nella toponomastica, agli angoli delle strade o immortalate, a futura memoria, negli edifici pubblici, come quelli scolastici. 

 

 Ora, finito di leggerlo, mi sono chiesto,  cosa hanno voluto comunicarci i due bravi Autori? 

Quale lezione possiamo trarne? 

Chiunque si cimenta nello scrivere ha sempre un obbiettivo  palese o  nascosto, (a volte anche a se stesso!)

La scelta del titolo ”Un secolo di inquietudini”  ovvero di agitazioni, sommosse, disordini sembra perfettamente coerente  con la formazione culturale e politica  degli Autori in particolare con quella di Rocco Riportella, fervente mazziniano, perciò repubblicano, ortodosso  interprete  delle vicende risorgimentali,  cosi come ci sono stati raccontati fin dai banchi di scuola.

Meno chiara  mi risulta il contributo di Enzo Lotà, impegnato politicamente a sinistra e attento conoscitore delle dinamiche sociali, delle complesse vicende del nostro territorio. Non ho capito se, consapevolmente o inconsapevolmente, abbia trascurato il contributo  sul periodo storico che ci riguarda, di  politici e studiosi  dello spessore di Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci ,Guido Dorso,o Napoleone Colajanni. 

Questi, avrebbero offerto, al lavoro svolto, una chiave di lettura e pur anche interpretativa, radicalmente differente, evitando  agli autori di finire dritto  nella  melmosa retorica risorgimentale dominante. 

Tutto ciò, per amor del vero, al netto dei capitoli sui Fasci Siciliani, su cui possiamo solo aggiungere alcune precisazioni.

Tutti  siamo convinti che il nostro risorgimento  coincise con la rivoluzione borghese  e con la fine del vecchio sistema feudale. L'Italia aspirava ad una unità(o unione) nazionale  nella stessa misura in cui gli altri stati europei avevano già, da qualche tempo, fissati i confini . La nuova economia capitalistica  mal sopportava  i “confini “ e ancor meno le barriere doganali.

Non c'è alcun dubbio che le classi elitarie, anche del nostro mezzogiorno, compresa la Sicilia,  non potevano restare insensibili al richiamo  della modernità  al mutamento dei tempi. All'adeguamento o alle sfide lanciate dai nuovi paradigmi economici, politici e sociali.

 Qui si apre a mio parere un dilemma a cui con serenità e serietà dobbiamo rispondere. 

L'unificazione  dell'Italia rispose  al sogno di una élite intellettuale ed economica   su cui ruotarono tutte le vicende risorgimentali ,oppure si risolse con una occupazione concepita dallo stato sabaudo, ovvero una ulteriore invasione, trasformando il mezzogiorno in una colonia? 

Nell'ultimo mezzo secolo le ricerche storiche e documentazioni d'archivio, hanno riscritto la storia risorgimentale cosi come per anni ci veniva propinata  dai “vincitori”.Su queste vicende sono stati scritti innumerevoli volumi, produzioni cinematografiche, testi teatrali, sceneggiati televisivi. Per non menzionare famosi romanzi come il “Gattopardo” di Tommasi di Lampedusa, “ I vicerè” di De Roberto, fino al più vicino Sciascia, e al contemporaneo agrigentino, Matteo Collura.

Noi tutti siamo consapevoli  della necessità di far parte di una  comunità e costruire sempre più saldamente la nostra identità nazionale. Tuttavia questa costruzione se vuole essere solida deve fare i conti con la verità storica. Gli accadimenti risorgimentali non sono stati sempre limpidi e trasparenti, non sono mancati servili accondiscendenze, brogli, tradimenti, furberie inganni,corruzioni, malaffare. esecuzioni sommarie...

Questo “vizio” di origine sembra aver plasmato  gran parte dei nostri comportamenti  e modellato i nostri atteggiamenti nei confronti dello Stato e della cosa pubblica in generale .Verrebbe da dire che tutti noi non abbiamo fatto bene i “conti “con la storia!

Lasciamo perciò  alla scuola e in particolare ai suoi insegnanti  recuperare il tempo sprecato, col compito di stimolare queste ricerche, suscitare curiosità, desiderio  per una conoscenza più approfondita.

Ma ora veniamo al tema del libro che più suscita non poche perplessità.

Nel terzo capitolo ”La breve primavera dei popoli”, gli autori  accennano alla formazione di una borghesia rurale che esercita l'attività agricola in forma diretta e in autonomia. Da questo primo ”lievito” prenderà avvio una classe sociale , che attraverso le vicende, che vanno dai moti del 20-21,poi del 48,infine con l'arrivo di Garibaldi, segnerà la definitiva nascita dall'unità d'Italia. Questa borghesia rurale menfitana, carbonara e massonica patriottica e liberale, sarebbe lo “zoccolo duro”  su cui si è edificato la struttura politica tecno-amministrativa di cui gode oggi “felice” il nostro paese. 

Noi non dubitiamo della sincerità degli Autori, anche perché frutto di approfondite indagini storiche e di ricerche  d'archivio, in particolare. 

    Tuttavia noi non siamo per niente d'accordo! 

Le nostre convinzioni nascono da “cattive” letture e da talune “testimonianze”. Si! Avete capito bene! Testimonianze.

Ebbene sappiate che a cavallo degli anni 60 la nostra Biblioteca Comunale Santi Bivona era sistemata in alcune stanze a piano terra nella casa del maestro Buscemi, in via della Vittoria. Come un pò dappertutto, le consultazioni presso le biblioteca era scarse e rare.

 Fu cosi che un gruppo di cittadini, artigiani, agricoltori ,impiegati “capeggiati” dall'Ing. Bilello  si ritrovavano la sera, dopo il lavoro, a leggere i giornale e a dibattere gli avvenimenti più significativi.

  Anch'io ragazzo, mi ero fatto socio. Pagavamo una piccola cifra mensile e disponevamo dei servizi di pulizia (di don Filippo).

Nelle lunghe serate invernali, spesso fredde e piovosi,  li vedevo arrivare e prender posto intorno al vasto tavolo di lettura. Ricordo i loro volti, i loro nomi:  Bucalo, Ferraro, Giovinco, Sutera, Alesi, Palminteri,  Rotolo e l'Ing. Bilello: chiamato spesso in causa a dirimere  non pochi contenziosi.

Strano che possa sembrarvi, è che le testimonianze, nei ricordi di queste persone anziane, coincidevano con le analisi storiche di Salvemini  o Dorso! 

In buona sostanza questa “borghesia rurale” altro non erano che  i notabili “i cappeddi” i “cavallacci” i galantuomini, i benpensanti( ovvero, pensavano solo al loro bene). 

Era quella che Gramsci la definisce borghesia parassitaria, che viveva del sangue e col sudore di centinaia di piccoli coloni, metateri, per non parlare dei terraggeri.

 Gaetano Salvemini non ha dubbi: questa classe media borghese e gran parte degli intellettuale  tradì, la rivoluzione meridionale, scelsero di abdicare al suo ruolo storico, preferì “annusare le ascelle“ della aristocrazia, succederle, continuare a perseguire la secolare condotta dei baroni, ovvero scelsero la comoda “rendita” anziché il rischio dell'impresa, ovvero il  profitto.

 Nell'accaparrarsi dei beni demaniali, appropriarsi furbescamente degli usi civici, impadronirsi con la complicità del governo sabaudo dei beni della “mano morta”, accumularono quello che nella versione verghiana si chiama “la roba” 

Per essa si combinavano matrimoni d'interesse, s'azzuffavano violentemente, fino all'omicidio. Nelle campagne i rapporti contrattuali erano insostenibili, i salari da fame: un giorno di lavoro di un bracciante  bastava appena a comprare due chili di pane. 

A far valere questi contratti erano gli eredi ( o gli stessi) delle  vendite carbonare o delle logge massoniche o dei liberali risorgimentali. Nei “patti“ di Corleone furono inserite alcune proposte migliorative, tra cui la trasformazione del contratto di terratico a metataria. Questi galantuomini ebbero il coraggio di negare l'accordo.

Il terratico, assieme ai contratti verticali e promiscui erano le forme più angariose  che si possono immaginare. I poveri contadini nei mesi antecedenti la semina, proponevano al proprietario- possessore del fondo di coltivarlo pagando “in natura”   il temporaneo affitto del terreno, nella misura di 7,8,9 volte la semente impiegata. Quasi sempre questi disgraziati non disponevano del grano da semina   e veniva anticipato dal proprietario il quale ne richiedeva l'”interesse” l'addito e tutto quando la fervida fantasia le suggeriva.  Non vogliamo tediarvi con questi triste vicende, ma sappiate   che i miei amici anziani , di questa “borghesia rurale” non avevano ne una buona stima ,nè un buon ricordo. 

Ma ci ritorneremo meglio la prossima volta...


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