Se per i georgici latini la vite ama la collina, i nostri
vecchi contadini non erano dello stesso parere, anzi consigliavano di piantare
la vigna “dunni sedi utti” ossia dove la botte non rotola, quindi in pianura .
Operando in realtà ambientali diverse ognuno sosteneva, a buon titolo, il suo
punto di vista .Oggi grazie ai progressi della ricerca e alle tecniche
agronomiche, possiamo piantare la vigna
dove meglio ci aggrada: disponiamo di un vasto assortimento di
portainnesti per qualsiasi terreno
,fitofarmaci per combattere tutte le
malattie (o quasi) ,macchine ed attrezzi per eseguire qualsiasi operazione
colturale e infine ,in cantina ,l’enologo saprà proporci sempre e comunque un
vino “dignitoso” buono a bersi senza
rischio che possa farci “male” alla salute. Allora tutto bene madame la
Marchesa? Non proprio .
Se in questi ultimi anni abbiamo indiscutibilmente elevato
la qualità dei vini grazie ai progressi focalizzati per lo più in cantina,ciò è
accaduto in un contesto in cui gli interventi nel processo produttivo sono
stati sempre più omologati ,codificati attraverso esperienze condivisi. In
altre parole abbiamo “inconsapevolmente” livellato le caratteristiche del vino
,appiattito talune sue peculiarità ,riducendone la complessità e ancor più la
diversità attraverso un lento processo di “acculturazione” , avrebbe detto Pierpaolo Pasolini .Come se le
nuove parole d’ordine dettate da una cultura del gusto globalizzato abbiano,
sull’altare di un coartato concetto di qualità ,sacrificato la naturale
mediazione tra “cultura” e natura(ambiente) ovvero l’espressione del terroir
.Un esempio lo si coglie nella
scelta dei vitigni adatti al terreno,
indifferentemente a bacca bianca o nera come se
la natura “mineralogica” adatta per dare un ottimo vino bianco lo fosse
anche per un rosso..Per non parlare della gestione del suolo dove gli spudorati
interessi delle ditte fornitrice dei
mezzi tecnici hanno quasi imposto operazioni colturali a “calendario” ,
preoccupati e assillati di lasciare il terreno uniformemente modellato e livellato, di certo visibilmente godibile .Invece siamo scarsamente rispettosi della
sua componente “biotica”:attenti alla sola dimensione fisico-chimica
,riducendone così di fatto negli anni la fertilità . Ebbene si! Dobbiamo
ammetterlo: da quando abbiamo sostituito la tradizionale aratura del
terreno con gli animali , di per se lenta e delicata , obbligata ad intervenire in condizioni di “tempera” , il suolo non è più lo stesso.
Sostituendola con gli
interventi meccanici ritenute più efficienti,
perché più rapidi ed economici, ma brutale, prescindendo,
spesso, dallo stato di umidità del terreno ,abbiamo sconvolto un sistema vivente complesso e
ancora sconosciuto. In pochi decenni ci siamo “giocati” un patrimonio a cui avevano contribuito a garantirne il
difficile equilibrio intere generazioni
Basta strappare un ciuffo di erba in un terreno posto ai margini dei
campi non coltivati per osservare intorno alle radici la presenza di terra
grumosa somigliante al cus-cus appena cotto . E’ una terra leggera , ben aerata
che cade in piccole pallottoline quando si scuote il ciuffo d’erba , in
stridente contrasto con la terra liscia polverosa e pesante che domina la parte
nuda del campo coltivato E’ un suolo
sempre più privo di vita , su cui siamo costretti ad operare più frequentemente
con un vasto arsenale di mezzi meccanici con una ignoranza e arroganza che ci ricorda il triste aneddoto del cavallo
di Attila . Dov’è finita la fauna del
terreno ? Quella epigea avente la specifica funzione di decomporre la lettiera
ed aerare il suolo di superficie (collemboli, acari, iuli ecc.) ,l ‘altra
endogena destinata a digerire le radici
morte (tisauri, proturi ecc). ed infine l’anesica impegnata a rimescolare la terra evitando la
lisciviazione degli elementi (lombrichi ) .Oggi operiamo su suoli “silenziosi”
senza animazione tenuti artificiosamente in esistenza da elevati dosaggi di
concimi chimici con i soli apporti di azoto fosforo e potassio . Non ci sono
più apporti di sostanza organica ma bruciamo la legna di pota e criminalizziamo
le erbe infestanti la cui copertura nel
periodo autunno-vernino non influenza minimamente la competizione verso il vigneto, in stato di riposo anzi una sua intelligente gestione non può
che sortire benefici effetti . Ma veniamo alle lavorazioni del vigneto. Possibile
che ci sia qualcuno che creda ancora alla favola raccontata a scuola, che le
lavorazioni del terreno servano ad impedire la risalita “capillare”e perciò
fanno risparmiare acqua ? Che si possa
confondere nel bilancio idrico del suolo la diversa incidenza esercitata dalla
traspirazione ,l’evaporazione e l’evapotraspirazione ? Il dubbio mi assalì
partecipando ad un incontro tecnico sul tema dell’inerbimento del vigneto . Le prove
sono state condotte su diverse parcelle confrontando l’influenza delle diverse
essenze e cosi valutare negli anni i benefici effetti sulla ridotta perdita di
suolo per ruscellamento.Tuttavia qualche perplessità verso gli effetti
“indesiderati” che in vigneto inerbito
si possa allungare il suo stadio vegetativo di qualche giorno o un lieve
abbassamento della fertilità reale delle gemme, credo siano valutazione abbastanza
marginali..In tempi in cui le frequenti
e ripetute lavorazioni in particolare nei climi caldo aridi accelerino la
mineralizzazione della sostanza organica e la moderna agricoltura è accusata
come la maggiore o principale causa di produzione di CO2, oppure di avere perso in quest’ultimo secolo un metro circa
di terreno coltivato, la posta in gioco e più seria!.Una massima ripetuta fin dai primi anni della
“scuola” agraria suonava pressoché così: “una zappettatura vale una mezza
annaffiatura “ Vero ! ciò che è meno vero è l’errata interpretazione del
meccanismo, cioè se rimuovere la terra impedisse la “risalita “capillare dell’acqua e quindi
il suo risparmio o se invece come sembra più corretto che le ripetute lavorazioni richiamano acqua
dagli strati più profondi rendendola più
disponibile alle radici . la differenza non è di poco conto perchè su questo equivoco sono stati “foggiati” schiere di tecnici La semina al sodo in cerealicoltura solo oggi
comincia a destare qualche attenzione.
Gli studi e le ricerche sul suolo in questi anni dominati di esasperata attenzione per la
produttività e la riduzione dei costi ,non hanno avuto il giusto
riconoscimento, diamo per scontato
verità che andrebbero meglio verificate ..
Per anni abbiamo posto l’attenzione verso una più efficiente
gestione della chioma razionalizzandone ormai gli interventi , abbiamo invece
colpevolmente tralasciato la parte nascosta della vite :il suo apparato
radicale e tutta la sua dinamica nella determinazione più significativa della
qualità .La conoscenza dei suoli e la sua interazione con la fisiologia delle
radici ci svelerà come un suolo ricco di
ferro potrà ospitare un vitigno rosso ,mentre in suoli presenti alcune classi
di argille andrebbero bene vitigni a
bacca bianca..Siamo ormai certi che lo sviluppo dell’apparato radicale è
correlato alla presenza di ossigeno questo elemento dovrà essere presente negli
strati più profondi perciò una
lavorazione a non più di 20cm. di profondità sarà indispensabile.
Fermo restando che l’attiva ossigenazione degli strati più
profondi è demandata a’’attività della fauna o dalle radici delle erbe
infestanti.
Nei prossimi anni la scommessa della nuova viticoltura vedrà
come protagonista il suolo coltivato e le sue peculiarità gestionali quelli che
assicureranno al vino la “mineralità “
ossia la sua massima e più intima espressività , insomma un vino unico e
irripetibile,un vero grande vino che saprà comunicarci piacevoli emozioni
Giuseppe Bivona
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