martedì 13 dicembre 2011

Il suolo, la sua gestione e la qualità del vino



Se per i georgici latini la vite ama la collina, i nostri vecchi contadini non erano dello stesso parere, anzi consigliavano di piantare la vigna “dunni sedi utti” ossia dove la botte non rotola, quindi in pianura . Operando in realtà ambientali diverse ognuno sosteneva, a buon titolo, il suo punto di vista .Oggi grazie ai progressi della ricerca e alle tecniche agronomiche, possiamo  piantare la vigna dove meglio ci aggrada: disponiamo di un vasto assortimento di portainnesti  per qualsiasi terreno ,fitofarmaci per combattere  tutte le malattie (o quasi) ,macchine ed attrezzi per eseguire qualsiasi operazione colturale e infine ,in cantina ,l’enologo saprà proporci sempre e comunque un vino “dignitoso” buono a bersi senza  rischio che possa farci “male” alla salute. Allora tutto bene madame la Marchesa? Non proprio .
Se in questi ultimi anni abbiamo indiscutibilmente elevato la qualità dei vini grazie ai progressi focalizzati per lo più in cantina,ciò è accaduto in un contesto in cui gli interventi nel processo produttivo sono stati sempre più omologati ,codificati attraverso esperienze condivisi. In altre parole abbiamo “inconsapevolmente” livellato le caratteristiche del vino ,appiattito talune sue peculiarità ,riducendone la complessità e ancor più la diversità attraverso un lento processo di “acculturazione” ,   avrebbe detto Pierpaolo Pasolini .Come se le nuove parole d’ordine dettate da una cultura del gusto globalizzato abbiano, sull’altare di un coartato concetto di qualità ,sacrificato la naturale mediazione tra “cultura” e natura(ambiente) ovvero l’espressione del terroir .Un  esempio lo si coglie nella scelta  dei vitigni adatti al terreno, indifferentemente a bacca bianca o nera come se  la natura “mineralogica” adatta per dare un ottimo vino bianco lo fosse anche per un rosso..Per non parlare della gestione del suolo dove gli spudorati interessi  delle ditte fornitrice dei mezzi tecnici hanno quasi imposto operazioni colturali a “calendario” , preoccupati e assillati di lasciare il terreno uniformemente  modellato e livellato,  di certo visibilmente godibile   .Invece siamo scarsamente rispettosi della sua componente “biotica”:attenti alla sola dimensione fisico-chimica ,riducendone così di fatto negli anni la fertilità . Ebbene si! Dobbiamo ammetterlo: da quando abbiamo sostituito la tradizionale aratura del terreno  con gli animali , di per se  lenta e delicata  , obbligata ad intervenire in condizioni  di “tempera” , il suolo non è più lo stesso.
Sostituendola con  gli interventi meccanici ritenute più efficienti,  perché  più rapidi  ed economici, ma brutale, prescindendo, spesso, dallo stato di umidità del terreno ,abbiamo  sconvolto un sistema vivente complesso e ancora sconosciuto. In pochi decenni ci siamo “giocati” un patrimonio  a cui avevano contribuito a garantirne il difficile equilibrio intere generazioni   Basta strappare un ciuffo di erba in un terreno posto ai margini dei campi non coltivati per osservare intorno alle radici la presenza di terra grumosa somigliante al cus-cus appena cotto . E’ una terra leggera , ben aerata che cade in piccole pallottoline quando si scuote il ciuffo d’erba , in stridente contrasto con la terra liscia polverosa e pesante che domina la parte nuda del campo coltivato  E’ un suolo sempre più privo di vita , su cui siamo costretti ad operare più frequentemente con un vasto arsenale di mezzi meccanici con una ignoranza e arroganza  che ci ricorda il triste aneddoto del cavallo di Attila . Dov’è  finita la fauna del terreno ? Quella epigea avente la specifica funzione di decomporre la lettiera ed aerare il suolo di superficie (collemboli, acari, iuli ecc.) ,l ‘altra endogena  destinata a digerire le radici morte (tisauri, proturi ecc).  ed infine l’anesica  impegnata a rimescolare la terra evitando la lisciviazione degli elementi (lombrichi ) .Oggi operiamo su suoli “silenziosi” senza animazione tenuti artificiosamente in esistenza da elevati dosaggi di concimi chimici con i soli apporti di azoto fosforo e potassio . Non ci sono più apporti di sostanza organica ma bruciamo la legna di pota e criminalizziamo le erbe infestanti   la cui copertura nel periodo autunno-vernino non influenza minimamente la competizione  verso il vigneto, in  stato di riposo  anzi una sua intelligente gestione non può che sortire benefici effetti . Ma veniamo alle lavorazioni del vigneto. Possibile che ci sia qualcuno che creda ancora alla favola raccontata a scuola, che le lavorazioni del terreno servano ad impedire la risalita “capillare”e perciò fanno risparmiare acqua ?  Che si possa confondere nel bilancio idrico del suolo la diversa incidenza esercitata dalla traspirazione ,l’evaporazione e l’evapotraspirazione ? Il dubbio mi assalì partecipando ad un incontro tecnico  sul  tema dell’inerbimento del vigneto . Le prove sono state condotte su diverse parcelle confrontando l’influenza delle diverse essenze e cosi valutare negli anni i benefici effetti sulla ridotta perdita di suolo per ruscellamento.Tuttavia qualche perplessità verso gli effetti “indesiderati” che in  vigneto inerbito si possa allungare il suo stadio vegetativo di qualche giorno o un lieve abbassamento della fertilità reale delle gemme, credo siano valutazione abbastanza marginali..In tempi in cui   le frequenti e ripetute lavorazioni in particolare nei climi caldo aridi accelerino la mineralizzazione della sostanza organica e la moderna agricoltura è accusata come la maggiore o principale causa di produzione di CO2, oppure di avere  perso in quest’ultimo secolo un metro circa di terreno coltivato, la posta in gioco e più seria!.Una  massima ripetuta fin dai primi anni della “scuola” agraria suonava pressoché così: “una zappettatura vale una mezza annaffiatura “ Vero ! ciò che è meno vero è l’errata interpretazione del meccanismo, cioè se rimuovere la terra impedisse  la “risalita “capillare dell’acqua e quindi il suo risparmio o se invece come sembra più corretto  che le ripetute lavorazioni richiamano acqua dagli strati più profondi rendendola  più disponibile alle radici . la differenza non è di poco conto perchè  su questo equivoco  sono stati “foggiati” schiere di tecnici  La semina al sodo in cerealicoltura solo oggi comincia a destare qualche attenzione.  Gli studi e le ricerche sul suolo in questi anni  dominati di esasperata attenzione per la produttività e la riduzione dei costi ,non hanno avuto il giusto riconoscimento,  diamo per scontato verità che andrebbero meglio verificate ..
Per anni abbiamo posto l’attenzione verso una più efficiente gestione della chioma razionalizzandone ormai gli interventi , abbiamo invece colpevolmente tralasciato la parte nascosta della vite :il suo apparato radicale e tutta la sua dinamica nella determinazione più significativa della qualità .La conoscenza dei suoli e la sua interazione con la fisiologia delle radici  ci svelerà come un suolo ricco di ferro potrà ospitare un vitigno rosso ,mentre in suoli presenti alcune classi di argille andrebbero  bene vitigni a bacca bianca..Siamo ormai certi che lo sviluppo dell’apparato radicale è correlato alla presenza di ossigeno questo elemento dovrà essere presente negli strati più profondi  perciò una lavorazione a non più di 20cm. di profondità sarà indispensabile.
Fermo restando che l’attiva ossigenazione degli strati più profondi è demandata a’’attività della fauna o dalle radici delle erbe infestanti.
Nei prossimi anni la scommessa della nuova viticoltura vedrà come protagonista il suolo coltivato e le sue peculiarità gestionali quelli che assicureranno al vino  la “mineralità “ ossia la sua massima e più intima espressività , insomma un vino unico e irripetibile,un vero grande vino che saprà comunicarci piacevoli emozioni
 Giuseppe Bivona

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