giovedì 29 dicembre 2011
lunedì 19 dicembre 2011
A tutti i nostri lettori Auguriamo un Buon Natale e Felice Anno Nuovo…..con un racconto
La buona novella…a
lieto fine
Ormai
era notte fonda , alla periferia del paese non si vedeva anima viva ,faceva
freddo, ma sinceramente non era quello che volevano farci credere le
previsioni metereologi del giorno
precedente. In quel tugurio a forma di grotta, in una mangiatoia ,veniva alla luce il bambino di
Giuseppe e Maria. Il bue e l'asino erano dal tardo pomeriggio in quella
stalla ,riposavano dopo una giornata di lavoro massacrante e ormai davano le
ultime boccate al saporito fieno ,odoroso, quasi voluttuoso....
"Toh, cosa ci tocca vedere" ,disse l'asino al bue. Questi
un po’ più sveglio del compagno, capi subito la estrema necessità ed
urgenza : diede alcune affettuose leccate al pargolo che giaceva
disteso nel presidio alimentare,cosi come avrebbe fatto con il suo vitellino.
Il bambino aveva una straordinaria vitalità , dopo il primo vagito
sembrava sereno e quasi sorridente. Eppure Maria , nei mesi precedenti non
aveva fatto alcuna ecografia , non aveva visto medici che l'avessero
consigliata sulle diete , integratori , vitamine calcio ,fosforo...
Poi
negli anni successivi , non ebbe alcuna visita ne controlli da parte di
pediatri...niente vaccinazioni , ne crisi da svezzamento . Quando emise i primi
dentini da latte Giuseppe le pose tra le mani la
"scarpetta" di un pane di circa 15 giorni : non la lasciava un
secondo, succhiava e masticava quasi come le offrisse un straordinario piacere !
Il
ragazzo crebbe sano e robusto, chissà quanti anni poteva campare! Se non fosse
stato per quella crocefissione... a soli 33anni nel pieno della sua
vitalità!
E
se poi invece fossero stati 90 o 120 anni! Che stramberia è questa!
Ebbene si, ci crediate o no ,ma in un regione
impervia della penisola indiana è stata scoperta una tomba bi millenaria di un
certo Giosufa ,che ha tutta l'aria di essere la stessa persona con Gesù.
A testimonianza che Ponzio Pilato seppe fare
qualcosa di più e di meglio, di quanto raccontatoci dalla
"storia" ufficiale,qualcosa di diverso che limitarsi a lavarsi
le mani , a conferma delle perentorie richieste di sua moglie che non lo
molla un istante , perché aveva a cuore la sua salvezza di Gesù detto il
Cristo!
sabato 17 dicembre 2011
Da “Il segreto della domanda”
La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e
tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a
conforto o a rimedio del quale, sono state senza fine ideate pratiche di cura.
Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica che, nonostante quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non sia un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.
Del resto, a differenza degli animali, l’uomo non è corredato di istinti, ossia di risposte rigide agli stimoli, e perciò la sua esistenza, non essendo pre-codificata, è posta come compito. Eludere questo compito è rinunciare alla condizione umana, è perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo “di tutti”, anche di chi al momento non soffre, perché, di fronte alla sofferenza, fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire.
Nasce da qui la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.
Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamolo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.
Qui si dividono Oriente e Occidente. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.
L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. A questo punto le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza l’Occidente è scaturito, divaricano.
Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è castigo e ad un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”, ma consiste nella contrapposizione tra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte delle singole esistenze è condizione di vita, e l’economia delle singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della loro vita.
Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire, perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura.
Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono o di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile. Una volta accolta la caducità dell’esistenza, occorre imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo rattrappimento, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare.
La pratica filosofica è iscritta in questa visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere, ed entro certi limiti dominare, non ipotizzando un mondo ultraterreno come nella tradizione giudaico-cristiana, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere.
Per questo il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.
Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balìa della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto, tipicamente greco, che nasce dallo sfondo tragico, segnerà il carattere dell’Occidente che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente, e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore, ama la vita e tutto ciò che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.
La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non si ingaggia solo col nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, quando è infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).
Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica che, nonostante quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non sia un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.
Del resto, a differenza degli animali, l’uomo non è corredato di istinti, ossia di risposte rigide agli stimoli, e perciò la sua esistenza, non essendo pre-codificata, è posta come compito. Eludere questo compito è rinunciare alla condizione umana, è perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo “di tutti”, anche di chi al momento non soffre, perché, di fronte alla sofferenza, fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire.
Nasce da qui la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.
Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamolo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.
Qui si dividono Oriente e Occidente. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.
L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. A questo punto le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza l’Occidente è scaturito, divaricano.
Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è castigo e ad un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”, ma consiste nella contrapposizione tra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte delle singole esistenze è condizione di vita, e l’economia delle singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della loro vita.
Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire, perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura.
Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono o di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile. Una volta accolta la caducità dell’esistenza, occorre imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo rattrappimento, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare.
La pratica filosofica è iscritta in questa visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere, ed entro certi limiti dominare, non ipotizzando un mondo ultraterreno come nella tradizione giudaico-cristiana, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere.
Per questo il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.
Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balìa della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto, tipicamente greco, che nasce dallo sfondo tragico, segnerà il carattere dell’Occidente che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente, e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore, ama la vita e tutto ciò che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.
La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non si ingaggia solo col nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, quando è infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).
Da queste considerazioni è nata
l’esigenza di creare, grazie all’interesse della casa editrice Apogeo, una
collana che raccogliesse i contributi non solo europei e americani, ma anche
italiani dedicati alle pratiche filosofiche, a partire dalla persuasione che
nell’età della tecnica la domanda di senso si è ulteriormente radicalizzata,
perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita come
nell’età pre-tecnologica, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che
non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati.
All’interno degli apparati tecnici, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-teconologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.
Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, sono inefficaci in ordine al tipo di insensatezza che caratterizza l’età della tecnica. La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso.
Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, con Socrate, Platone, Aristotele, con lo stoicismo e l’epicureismo, la filosofia, prima di rinchiudersi nella turris eburnea delle aule accademiche e diventare autoreferenziale, si è applicata al mondo della vita per reperire le forme migliori per il governo di sé e il governo della città. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi si identifica con la tecnica, in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza.
Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro.
All’interno degli apparati tecnici, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-teconologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.
Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, sono inefficaci in ordine al tipo di insensatezza che caratterizza l’età della tecnica. La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso.
Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, con Socrate, Platone, Aristotele, con lo stoicismo e l’epicureismo, la filosofia, prima di rinchiudersi nella turris eburnea delle aule accademiche e diventare autoreferenziale, si è applicata al mondo della vita per reperire le forme migliori per il governo di sé e il governo della città. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi si identifica con la tecnica, in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza.
Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro.
Umberto Galimberti
Mais les feuilles sont mortes ?

Ad Alice lo spettacolo
delle foglie autunnali ha sempre trasmesso tristezza e senso di caducità
, leggiadre creature dai colori variegati ,indefiniti , terrei , forse consapevoli
di doversi prima o poi “staccarsi “ dal ramo , eppure quanta
fierezza esprimono in quell’atto!
“Bè “ disse il
Gufo, attento come sempre alle note emozionanti
di Alice “ a ben pensarci le foglie autunnali, per strano che possa
sembrare , trasmettono armonia e serenità. Sono giunte al termine della loro
vita, si lasciano cadere quasi senza
opporre resistenza , non si aggrappano a
niente , anzi trasformano la loro caduta
in una danza di impareggiabile dolcezza ad eleganza.”
Alice : “Invece noi non cessiamo di attaccarci alle cose , bramosi di possedere ,
timorosi di perderli ,ansiosi nel difenderli, sempre più “avere” e sempre meno
“essere”. Insomma facciamo esattamente tutto il contrario di quello che
fanno queste lievi, delicate, dignitose
figlie dell’albero. Dovremmo imparare da loro!”
Il Gufo annuiva ,
certo l’attaccamento alle cose materiali è un prodotto culturale
della nostra mente ,dell’ego , di
una voglia insaziabile , irrequieta , indomabile che sempre vuole, vuole ,né mai si accontenta
,incessantemente desiderosa di altro ,
ancora ed ancora , sempre più a lungo , come se la vita fosse una eterna corsa agli acquisti , dove tutto è in vendita
perché tutto ha un prezzo “ Invece le
cose di valore non hanno un prezzo , hanno appunto un valore che è tutta un altra cosa :non si possono
venderle , non si possono comprare , si possono cercare di meritarle ,di esserne degni e custodirle fedelmente.”
Disse quasi tutto di un fiato il Gufo.
“Eppure” riprese
Alice basterebbe essere più “modesti” : le foglie cadono al suolo ,ma senza
disperazione , sanno che quello è il loro destino , ma sanno che continueranno
a vivere in altre forme in altri corpi , in altre stagioni . Sanno che il loro
“cadere” è necessario perché tra qualche
mese possano sbocciare altre gemme sul ramo , altre foglie si schiudono al
tiepido sole di primavera . Cosi i vecchi debbono fare altrettanto, lasciare il posto ai giovani , è
una legge di natura ,chi ha fatto il
proprio tempo si distacca perché
altre generazioni possano farsi avanti .
E’ il ciclo perenne che eternamente si rinnova. A cosa servirebbe alla vecchia foglia rimanere attaccata
all’albero? Se non ad occupare inutilmente spazio . Ma il suo “sacrificio” quando l’inverno finirà e le piogge
avranno ridato forza e vigore
all’albero nutrimento ad una foglia nuova, contribuendo a ridare il miracolo della fertilità”
Il Gufo ora si era
fatto pensieroso “ Non si può vivere solo per se stessi , la nostra vita ha
senso ed un valore , nella misura in cui
riesce a rapportarsi col resto che ci
circonda: tutto questo ci dicono le foglie
gialle , arancio o brune che
siano, quando dopo una vita intensa
pienamente vissuta, cedono alla stanchezza , smettono di fare presa ,
permettono ad un lieve soffio di vento di portale via con se”
“Ma la foglia che si
stacca dal ramo e cade a terra “
disse sicura di se Alice” non
cessa di vivere , ma ritorna nel grembo della natura che l’ha
generata , riprende il ciclo della vita
dallo stesso terreno che ospita e nutre la pianta ,perche essa stessa feconderà
di nuova energia vitale e non sarà vissuta invano!”
Le anime dei
vecchi ( Constantinos Kavafis)
Nei loro corpi decrepiti,consunti
stanno le anime dei vecchi. Poverine,
cosi stremate e malinconiche
per la grama esistenza che trascinano.
E che spavento hanno di perderla,e che bene
le vogliono queste anime dubbiose,inconseguenti
e tragicomiche - sistemate come sono
nelle loro frolle decrepite pelli
martedì 13 dicembre 2011
Un evento sorprendente
DA CITTÀ DEL VATICANO
I GRANDI OLI DI OLIVA ENTRANO NELLA
CULTURA ALIMENTARE DEL TERZO MILLENNIO
L’olio d’oliva è un simbolo sacro della religione
cristiana come anche delle altre grandi religioni del Mediterraneo, quella
ebraica e quella islamica. L’unzione faceva parte della con-sacrazione di re e
sacerdoti e la stessa parola “Cristo” , significa, nella sua etimologia greca
“unto”, cioè consacrato e sacro. Anche la parola Messia significa in ebraico
“unto”. L’unzione con olio di oliva rappresenta un simbolo del patto di
alleanza dell’uomo con Dio e la religione cristiana se ne serve nel Battesimo,
nella Cresima, nella unzione degli infermi, nella consacrazione dei sacerdoti e
dei Vescovi, nella consacrazione degli altari.
Questi elementi di simbologia
sacra hanno suggerito una singolare iniziativa dell’Accademia Pontificia delle
Scienze in collaborazione con l’Accademia dei Georgofili di Firenze e cioè la
organizzazione di un convegno sul tema “L’olivo ed il suo olio”. Il
convegno si è tenuto a Città del Vaticano il 16 Dicembre. Il card. Giovanni
Battista Re ha introdotto i lavori con una magnifica relazione sul valore
simbolico, culturale e religioso, dell’olio.
Si è parlato poi di olivicoltura (Prof. Fiorino, Università di Firenze),
di tecnologia dell’olio (prof. Servili, Università di Perugia) e del valore
salutare dell’olio di oliva (prof. Visioli, Università di Parigi), ma forse
l’intervento più innovativo e ricco di prospettive concrete è stato quello del
prof. Claudio Peri, professore emerito dell’Università di Milano. Il prof. Peri
ha presentato un sistema di certificazione dell’eccellenza dell’olio di oliva,
basato sulle specificità delle varianti sensoriali dell’olio e sul valore
“etico” del produttore in termini di capacità e trasparenza. Qualità dell’olio
dunque, ma insieme qualità del produttore per un nuovo patto di fiducia con il
consumatore. Il sistema illustrato dal prof Peri rappresenta il risultato di
una sperimentazione durata tre anni nell’ambito della Associazione TRE-E, una
associazione senza scopo di lucro, nata nel 2004 da una costola dell’Accademia
dei Georgofili e avente come obiettivo la “valorizzazione degli oli di oliva di
assoluta eccellenza”.Le tre E di Etica, Eccellenza ed Efficienza rappresentano
il logo e la missione di questa Associazione. Suscitando grande interesse e
curiosità nell’uditorio il prof. Peri ha anche descritto il sistema “olive
to live” per servire i grandi oli nei ristoranti più qualificati e nelle
famiglie più sensibili alla qualità di questo straordinario prodotto. E’ un
sistema messo a punto da un produttore socio della Associazione TREE, il dr.
Paolo Pasquali, titolare di uno splendido “Olive Oil Resort” a Villa Campestri,
sulle colline del Mugello . Con questo sistema l’olio viene servito
direttamente al momento del pasto da un dispenser che contiene serbatoi
inviolabili in acciaio inossidabile nei quali le condizioni ottimali per la
conservazione dell’olio vengono mantenute senza interruzione dal momento della
produzione al momento dell’uso. E’ un sistema che abolisce le bottiglie e ogni
altro tipo di contenitore. Oli pregiati
di vario profilo sensoriale e di varia origine, ma tutti selezionati e
garantiti dalla TREE, vengono forniti al
ristorante o alla famiglia direttamente dalla Oleoteca di Villa Campestri con
un servizio di consegna e ritiro dei contenitori, insieme ad un servizio di
formazione permanente degli chef alla cultura dell’olio. La combinazione del
modello TREE e di Olive-to-live rappresenta forse la via più innovativa e
promettente di valorizzazione dei grandi oli.
Così, nel luogo più sacro della
nostra cultura religiosa, è stato presentato questo nuovo sistema, trasparente
ed etico, di valorizzazione del prodotto più prezioso della nostra cultura
alimentare.
Giuseppe Bivona
Il suolo, la sua gestione e la qualità del vino
Se per i georgici latini la vite ama la collina, i nostri
vecchi contadini non erano dello stesso parere, anzi consigliavano di piantare
la vigna “dunni sedi utti” ossia dove la botte non rotola, quindi in pianura .
Operando in realtà ambientali diverse ognuno sosteneva, a buon titolo, il suo
punto di vista .Oggi grazie ai progressi della ricerca e alle tecniche
agronomiche, possiamo piantare la vigna
dove meglio ci aggrada: disponiamo di un vasto assortimento di
portainnesti per qualsiasi terreno
,fitofarmaci per combattere tutte le
malattie (o quasi) ,macchine ed attrezzi per eseguire qualsiasi operazione
colturale e infine ,in cantina ,l’enologo saprà proporci sempre e comunque un
vino “dignitoso” buono a bersi senza
rischio che possa farci “male” alla salute. Allora tutto bene madame la
Marchesa? Non proprio .
Se in questi ultimi anni abbiamo indiscutibilmente elevato
la qualità dei vini grazie ai progressi focalizzati per lo più in cantina,ciò è
accaduto in un contesto in cui gli interventi nel processo produttivo sono
stati sempre più omologati ,codificati attraverso esperienze condivisi. In
altre parole abbiamo “inconsapevolmente” livellato le caratteristiche del vino
,appiattito talune sue peculiarità ,riducendone la complessità e ancor più la
diversità attraverso un lento processo di “acculturazione” , avrebbe detto Pierpaolo Pasolini .Come se le
nuove parole d’ordine dettate da una cultura del gusto globalizzato abbiano,
sull’altare di un coartato concetto di qualità ,sacrificato la naturale
mediazione tra “cultura” e natura(ambiente) ovvero l’espressione del terroir
.Un esempio lo si coglie nella
scelta dei vitigni adatti al terreno,
indifferentemente a bacca bianca o nera come se
la natura “mineralogica” adatta per dare un ottimo vino bianco lo fosse
anche per un rosso..Per non parlare della gestione del suolo dove gli spudorati
interessi delle ditte fornitrice dei
mezzi tecnici hanno quasi imposto operazioni colturali a “calendario” ,
preoccupati e assillati di lasciare il terreno uniformemente modellato e livellato, di certo visibilmente godibile .Invece siamo scarsamente rispettosi della
sua componente “biotica”:attenti alla sola dimensione fisico-chimica
,riducendone così di fatto negli anni la fertilità . Ebbene si! Dobbiamo
ammetterlo: da quando abbiamo sostituito la tradizionale aratura del
terreno con gli animali , di per se lenta e delicata , obbligata ad intervenire in condizioni di “tempera” , il suolo non è più lo stesso.

Per anni abbiamo posto l’attenzione verso una più efficiente
gestione della chioma razionalizzandone ormai gli interventi , abbiamo invece
colpevolmente tralasciato la parte nascosta della vite :il suo apparato
radicale e tutta la sua dinamica nella determinazione più significativa della
qualità .La conoscenza dei suoli e la sua interazione con la fisiologia delle
radici ci svelerà come un suolo ricco di
ferro potrà ospitare un vitigno rosso ,mentre in suoli presenti alcune classi
di argille andrebbero bene vitigni a
bacca bianca..Siamo ormai certi che lo sviluppo dell’apparato radicale è
correlato alla presenza di ossigeno questo elemento dovrà essere presente negli
strati più profondi perciò una
lavorazione a non più di 20cm. di profondità sarà indispensabile.
Fermo restando che l’attiva ossigenazione degli strati più
profondi è demandata a’’attività della fauna o dalle radici delle erbe
infestanti.
Nei prossimi anni la scommessa della nuova viticoltura vedrà
come protagonista il suolo coltivato e le sue peculiarità gestionali quelli che
assicureranno al vino la “mineralità “
ossia la sua massima e più intima espressività , insomma un vino unico e
irripetibile,un vero grande vino che saprà comunicarci piacevoli emozioni
Giuseppe Bivona
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