lunedì 19 dicembre 2011

A tutti i nostri lettori Auguriamo un Buon Natale e Felice Anno Nuovo…..con un racconto



 La buona novella…a lieto fine

                                             Ormai  era notte fonda , alla periferia del paese non si vedeva anima viva ,faceva freddo, ma sinceramente non era quello che volevano farci credere le previsioni  metereologi  del giorno precedente. In quel tugurio a forma di  grotta, in  una mangiatoia ,veniva alla luce il bambino di Giuseppe e Maria. Il bue e l'asino  erano dal tardo pomeriggio in quella stalla ,riposavano dopo una giornata di lavoro massacrante e ormai davano le ultime boccate  al saporito fieno ,odoroso, quasi voluttuoso.... "Toh, cosa ci tocca vedere" ,disse  l'asino al bue. Questi un po’ più sveglio del compagno, capi subito la estrema necessità ed urgenza : diede alcune affettuose leccate al pargolo  che giaceva  disteso nel presidio alimentare,cosi come avrebbe fatto con il suo vitellino. Il bambino aveva una straordinaria vitalità  , dopo il primo vagito sembrava sereno e  quasi sorridente. Eppure Maria , nei mesi precedenti non aveva fatto alcuna ecografia , non aveva visto medici  che l'avessero consigliata sulle diete , integratori , vitamine calcio ,fosforo...
Poi negli anni successivi , non ebbe alcuna visita ne controlli da parte di pediatri...niente vaccinazioni , ne crisi da svezzamento . Quando emise i primi dentini da latte Giuseppe le pose tra le mani  la "scarpetta" di un pane di circa 15 giorni : non la lasciava un secondo, succhiava e masticava quasi come le offrisse un straordinario  piacere ! 
Il ragazzo crebbe sano e robusto, chissà quanti anni poteva campare! Se non fosse stato  per quella crocefissione... a soli 33anni nel pieno della sua vitalità! 
E se poi invece fossero stati 90 o 120 anni! Che stramberia è questa!
Ebbene  si,  ci crediate o  no ,ma in un regione impervia della penisola indiana è stata scoperta una tomba bi millenaria di un certo Giosufa ,che ha tutta l'aria di essere la stessa persona con Gesù.
 A testimonianza che Ponzio Pilato seppe fare qualcosa di più e di meglio, di quanto raccontatoci dalla "storia" ufficiale,qualcosa di diverso che limitarsi a lavarsi le mani , a conferma delle perentorie richieste di sua moglie che non lo molla un istante , perché aveva a cuore la sua salvezza di Gesù detto il Cristo!

sabato 17 dicembre 2011

Da “Il segreto della domanda”


La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a conforto o a rimedio del quale, sono state senza fine ideate pratiche di cura.
Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica che, nonostante quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non sia un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.
Del resto, a differenza degli animali, l’uomo non è corredato di istinti, ossia di risposte rigide agli stimoli, e perciò la sua esistenza, non essendo pre-codificata, è posta come compito. Eludere questo compito è rinunciare alla condizione umana, è perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo “di tutti”, anche di chi al momento non soffre, perché, di fronte alla sofferenza, fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire.
Nasce da qui la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.
Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamolo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.
Qui si dividono Oriente e Occidente. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.
L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. A questo punto le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza l’Occidente è scaturito, divaricano.
Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è castigo e ad un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”, ma consiste nella contrapposizione tra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte delle singole esistenze è condizione di vita, e l’economia delle singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della loro vita.
Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire, perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura.
Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono o di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile. Una volta accolta la caducità dell’esistenza, occorre imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo rattrappimento, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare.
La pratica filosofica è iscritta in questa visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere, ed entro certi limiti dominare, non ipotizzando un mondo ultraterreno come nella tradizione giudaico-cristiana, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere.
Per questo il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.
Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balìa della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto, tipicamente greco, che nasce dallo sfondo tragico, segnerà il carattere dell’Occidente che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente, e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore, ama la vita e tutto ciò che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.
La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non si ingaggia solo col nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, quando è infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).
Da queste considerazioni è nata l’esigenza di creare, grazie all’interesse della casa editrice Apogeo, una collana che raccogliesse i contributi non solo europei e americani, ma anche italiani dedicati alle pratiche filosofiche, a partire dalla persuasione che nell’età della tecnica la domanda di senso si è ulteriormente radicalizzata, perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita come nell’età pre-tecnologica, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati.
All’interno degli apparati tecnici, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-teconologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.
Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, sono inefficaci in ordine al tipo di insensatezza che caratterizza l’età della tecnica. La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso.
Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, con Socrate, Platone, Aristotele, con lo stoicismo e l’epicureismo, la filosofia, prima di rinchiudersi nella turris eburnea delle aule accademiche e diventare autoreferenziale, si è applicata al mondo della vita per reperire le forme migliori per il governo di sé e il governo della città. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi si identifica con la tecnica, in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza.
Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro.
  Umberto Galimberti

Mais les feuilles sont mortes ?



Quest’anno l’autunno non si decide ad entrare, sembra indugiare sul limite estremo dell’estate. La vegetazione qui in campagna è ancora verdeggiante come un paio di mesi fa. Alice esce dall’uscio della sua  casa estiva  mentre il sole invia i primi raggi. Si ferma  sotto l’ombroso  lontano alza gli occhi e  vede che sui rami si notano solo poche foglie ingiallite, pochissime cadute a terra. “Eppure siamo quasi alla fine di ottobre “ disse Alice rivolgendosi al Gufo “ Non sarà forse la temperatura  insolitamente mite e l’assenza  di vento e pioggia? Certo rispose il Gufo  “ La caduta delle foglie è per noi uno spettacolo, i botanici direbbero che un perfetto sincronismo, una felice coincidenza, tra le temperature che si abbassano, la luce  del giorno che si attenua  e …. la produzione di ormoni da parte della pianta  che decide di “abbandonarle” non prima di  averle consegnato  un po’ di….. spazzatura accumulata nei mesi primaverili - estivi.
Ad Alice lo spettacolo  delle foglie autunnali ha sempre trasmesso tristezza e senso di caducità , leggiadre creature  dai colori  variegati ,indefiniti , terrei , forse consapevoli di doversi  prima o poi  “staccarsi “ dal ramo , eppure quanta fierezza  esprimono in quell’atto!
 “Bè “ disse il Gufo,  attento come sempre alle note emozionanti di Alice “  a ben pensarci   le foglie autunnali, per strano che possa sembrare , trasmettono armonia e serenità. Sono giunte al termine della loro vita, si lasciano cadere  quasi senza opporre resistenza  , non si aggrappano a niente , anzi trasformano la loro caduta  in una danza di impareggiabile dolcezza ad eleganza.” 
Alice : “Invece noi non cessiamo di  attaccarci alle cose , bramosi di possedere , timorosi di perderli ,ansiosi nel difenderli, sempre più “avere” e sempre meno “essere”. Insomma facciamo esattamente tutto il contrario di quello che fanno  queste lievi, delicate, dignitose figlie dell’albero. Dovremmo imparare da loro!”
Il Gufo annuiva  , certo l’attaccamento alle cose materiali è un prodotto  culturale  della nostra mente ,dell’ego , di  una voglia insaziabile , irrequieta , indomabile  che sempre vuole, vuole ,né mai si accontenta ,incessantemente desiderosa  di altro , ancora ed ancora , sempre più a lungo , come se la vita  fosse una eterna corsa  agli acquisti , dove tutto è in vendita perché tutto ha un prezzo  “ Invece le cose di valore non hanno un prezzo , hanno appunto un valore  che è tutta un altra cosa :non si possono venderle , non si possono comprare , si possono cercare di meritarle  ,di esserne degni e custodirle fedelmente.” Disse quasi tutto di un fiato il Gufo.
 “Eppure” riprese Alice basterebbe essere più “modesti” : le foglie cadono al suolo ,ma senza disperazione , sanno che quello è il loro destino , ma sanno che continueranno a vivere in altre forme in altri corpi , in altre stagioni . Sanno che il loro “cadere” è necessario  perché tra qualche mese  possano sbocciare altre gemme  sul ramo , altre foglie si schiudono al tiepido sole di primavera . Cosi i vecchi debbono fare  altrettanto, lasciare il posto ai giovani , è una legge di natura  ,chi ha fatto il proprio tempo si distacca  perché altre  generazioni possano farsi avanti . E’ il ciclo perenne che eternamente si rinnova. A cosa servirebbe  alla vecchia foglia rimanere attaccata all’albero? Se non ad occupare inutilmente spazio . Ma il suo “sacrificio”  quando l’inverno finirà  e le piogge  avranno ridato forza e vigore  all’albero  nutrimento  ad una foglia nuova,  contribuendo a ridare il miracolo della fertilità”
Il Gufo ora  si era fatto pensieroso “ Non si può vivere solo per se stessi , la nostra vita ha senso ed un valore , nella misura  in cui riesce a rapportarsi col resto  che ci circonda: tutto questo ci dicono le foglie  gialle , arancio o  brune che siano, quando dopo una vita  intensa pienamente vissuta, cedono alla stanchezza , smettono di fare presa , permettono ad un lieve soffio di vento di portale via con se”
“Ma la foglia che  si stacca dal ramo  e cade a terra  “   disse sicura di se Alice” non  cessa di vivere , ma ritorna nel grembo della natura che l’ha generata  , riprende il ciclo della vita dallo stesso terreno che ospita e nutre la pianta ,perche essa stessa feconderà di nuova  energia vitale   e non sarà vissuta invano!”

Le anime dei vecchi ( Constantinos Kavafis)
Nei loro corpi decrepiti,consunti
stanno le anime dei vecchi. Poverine,
cosi stremate e malinconiche
per la grama esistenza che trascinano.
E che spavento hanno di perderla,e che bene
le vogliono queste anime dubbiose,inconseguenti
e tragicomiche - sistemate come sono
nelle loro frolle decrepite pelli

martedì 13 dicembre 2011

Un evento sorprendente



DA CITTÀ DEL VATICANO I GRANDI OLI DI OLIVA ENTRANO NELLA  CULTURA ALIMENTARE DEL TERZO MILLENNIO


                                                             L’olio d’oliva è un simbolo sacro della religione cristiana come anche delle altre grandi religioni del Mediterraneo, quella ebraica e quella islamica. L’unzione faceva parte della con-sacrazione di re e sacerdoti e la stessa parola “Cristo” , significa, nella sua etimologia greca “unto”, cioè consacrato e sacro. Anche la parola Messia significa in ebraico “unto”. L’unzione con olio di oliva rappresenta un simbolo del patto di alleanza dell’uomo con Dio e la religione cristiana se ne serve nel Battesimo, nella Cresima, nella unzione degli infermi, nella consacrazione dei sacerdoti e dei Vescovi, nella consacrazione degli altari.
Questi elementi di simbologia sacra hanno suggerito una singolare iniziativa dell’Accademia Pontificia delle Scienze in collaborazione con l’Accademia dei Georgofili di Firenze e cioè la organizzazione di un convegno sul tema “L’olivo ed il suo olio”. Il convegno si è tenuto a Città del Vaticano il 16 Dicembre. Il card. Giovanni Battista Re ha introdotto i lavori con una magnifica relazione sul valore simbolico, culturale e religioso, dell’olio.  Si è parlato poi di olivicoltura (Prof. Fiorino, Università di Firenze), di tecnologia dell’olio (prof. Servili, Università di Perugia) e del valore salutare dell’olio di oliva (prof. Visioli, Università di Parigi), ma forse l’intervento più innovativo e ricco di prospettive concrete è stato quello del prof. Claudio Peri, professore emerito dell’Università di Milano. Il prof. Peri ha presentato un sistema di certificazione dell’eccellenza dell’olio di oliva, basato sulle specificità delle varianti sensoriali dell’olio e sul valore “etico” del produttore in termini di capacità e trasparenza. Qualità dell’olio dunque, ma insieme qualità del produttore per un nuovo patto di fiducia con il consumatore. Il sistema illustrato dal prof Peri rappresenta il risultato di una sperimentazione durata tre anni nell’ambito della Associazione TRE-E, una associazione senza scopo di lucro, nata nel 2004 da una costola dell’Accademia dei Georgofili e avente come obiettivo la “valorizzazione degli oli di oliva di assoluta eccellenza”.Le tre E di Etica, Eccellenza ed Efficienza rappresentano il logo e la missione di questa Associazione. Suscitando grande interesse e curiosità nell’uditorio il prof. Peri ha anche descritto il sistema “olive to live” per servire i grandi oli nei ristoranti più qualificati e nelle famiglie più sensibili alla qualità di questo straordinario prodotto. E’ un sistema messo a punto da un produttore socio della Associazione TREE, il dr. Paolo Pasquali, titolare di uno splendido “Olive Oil Resort” a Villa Campestri, sulle colline del Mugello . Con questo sistema l’olio viene servito direttamente al momento del pasto da un dispenser che contiene serbatoi inviolabili in acciaio inossidabile nei quali le condizioni ottimali per la conservazione dell’olio vengono mantenute senza interruzione dal momento della produzione al momento dell’uso. E’ un sistema che abolisce le bottiglie e ogni altro tipo di contenitore.   Oli pregiati di vario profilo sensoriale e di varia origine, ma tutti selezionati e garantiti dalla TREE,  vengono forniti al ristorante o alla famiglia direttamente dalla Oleoteca di Villa Campestri con un servizio di consegna e ritiro dei contenitori, insieme ad un servizio di formazione permanente degli chef alla cultura dell’olio. La combinazione del modello TREE e di Olive-to-live rappresenta forse la via più innovativa e promettente di valorizzazione dei grandi oli.  
Così, nel luogo più sacro della nostra cultura religiosa, è stato presentato questo nuovo sistema, trasparente ed etico, di valorizzazione del prodotto più prezioso della nostra cultura alimentare.
                                                                                                                                         Giuseppe Bivona

Il suolo, la sua gestione e la qualità del vino



Se per i georgici latini la vite ama la collina, i nostri vecchi contadini non erano dello stesso parere, anzi consigliavano di piantare la vigna “dunni sedi utti” ossia dove la botte non rotola, quindi in pianura . Operando in realtà ambientali diverse ognuno sosteneva, a buon titolo, il suo punto di vista .Oggi grazie ai progressi della ricerca e alle tecniche agronomiche, possiamo  piantare la vigna dove meglio ci aggrada: disponiamo di un vasto assortimento di portainnesti  per qualsiasi terreno ,fitofarmaci per combattere  tutte le malattie (o quasi) ,macchine ed attrezzi per eseguire qualsiasi operazione colturale e infine ,in cantina ,l’enologo saprà proporci sempre e comunque un vino “dignitoso” buono a bersi senza  rischio che possa farci “male” alla salute. Allora tutto bene madame la Marchesa? Non proprio .
Se in questi ultimi anni abbiamo indiscutibilmente elevato la qualità dei vini grazie ai progressi focalizzati per lo più in cantina,ciò è accaduto in un contesto in cui gli interventi nel processo produttivo sono stati sempre più omologati ,codificati attraverso esperienze condivisi. In altre parole abbiamo “inconsapevolmente” livellato le caratteristiche del vino ,appiattito talune sue peculiarità ,riducendone la complessità e ancor più la diversità attraverso un lento processo di “acculturazione” ,   avrebbe detto Pierpaolo Pasolini .Come se le nuove parole d’ordine dettate da una cultura del gusto globalizzato abbiano, sull’altare di un coartato concetto di qualità ,sacrificato la naturale mediazione tra “cultura” e natura(ambiente) ovvero l’espressione del terroir .Un  esempio lo si coglie nella scelta  dei vitigni adatti al terreno, indifferentemente a bacca bianca o nera come se  la natura “mineralogica” adatta per dare un ottimo vino bianco lo fosse anche per un rosso..Per non parlare della gestione del suolo dove gli spudorati interessi  delle ditte fornitrice dei mezzi tecnici hanno quasi imposto operazioni colturali a “calendario” , preoccupati e assillati di lasciare il terreno uniformemente  modellato e livellato,  di certo visibilmente godibile   .Invece siamo scarsamente rispettosi della sua componente “biotica”:attenti alla sola dimensione fisico-chimica ,riducendone così di fatto negli anni la fertilità . Ebbene si! Dobbiamo ammetterlo: da quando abbiamo sostituito la tradizionale aratura del terreno  con gli animali , di per se  lenta e delicata  , obbligata ad intervenire in condizioni  di “tempera” , il suolo non è più lo stesso.
Sostituendola con  gli interventi meccanici ritenute più efficienti,  perché  più rapidi  ed economici, ma brutale, prescindendo, spesso, dallo stato di umidità del terreno ,abbiamo  sconvolto un sistema vivente complesso e ancora sconosciuto. In pochi decenni ci siamo “giocati” un patrimonio  a cui avevano contribuito a garantirne il difficile equilibrio intere generazioni   Basta strappare un ciuffo di erba in un terreno posto ai margini dei campi non coltivati per osservare intorno alle radici la presenza di terra grumosa somigliante al cus-cus appena cotto . E’ una terra leggera , ben aerata che cade in piccole pallottoline quando si scuote il ciuffo d’erba , in stridente contrasto con la terra liscia polverosa e pesante che domina la parte nuda del campo coltivato  E’ un suolo sempre più privo di vita , su cui siamo costretti ad operare più frequentemente con un vasto arsenale di mezzi meccanici con una ignoranza e arroganza  che ci ricorda il triste aneddoto del cavallo di Attila . Dov’è  finita la fauna del terreno ? Quella epigea avente la specifica funzione di decomporre la lettiera ed aerare il suolo di superficie (collemboli, acari, iuli ecc.) ,l ‘altra endogena  destinata a digerire le radici morte (tisauri, proturi ecc).  ed infine l’anesica  impegnata a rimescolare la terra evitando la lisciviazione degli elementi (lombrichi ) .Oggi operiamo su suoli “silenziosi” senza animazione tenuti artificiosamente in esistenza da elevati dosaggi di concimi chimici con i soli apporti di azoto fosforo e potassio . Non ci sono più apporti di sostanza organica ma bruciamo la legna di pota e criminalizziamo le erbe infestanti   la cui copertura nel periodo autunno-vernino non influenza minimamente la competizione  verso il vigneto, in  stato di riposo  anzi una sua intelligente gestione non può che sortire benefici effetti . Ma veniamo alle lavorazioni del vigneto. Possibile che ci sia qualcuno che creda ancora alla favola raccontata a scuola, che le lavorazioni del terreno servano ad impedire la risalita “capillare”e perciò fanno risparmiare acqua ?  Che si possa confondere nel bilancio idrico del suolo la diversa incidenza esercitata dalla traspirazione ,l’evaporazione e l’evapotraspirazione ? Il dubbio mi assalì partecipando ad un incontro tecnico  sul  tema dell’inerbimento del vigneto . Le prove sono state condotte su diverse parcelle confrontando l’influenza delle diverse essenze e cosi valutare negli anni i benefici effetti sulla ridotta perdita di suolo per ruscellamento.Tuttavia qualche perplessità verso gli effetti “indesiderati” che in  vigneto inerbito si possa allungare il suo stadio vegetativo di qualche giorno o un lieve abbassamento della fertilità reale delle gemme, credo siano valutazione abbastanza marginali..In tempi in cui   le frequenti e ripetute lavorazioni in particolare nei climi caldo aridi accelerino la mineralizzazione della sostanza organica e la moderna agricoltura è accusata come la maggiore o principale causa di produzione di CO2, oppure di avere  perso in quest’ultimo secolo un metro circa di terreno coltivato, la posta in gioco e più seria!.Una  massima ripetuta fin dai primi anni della “scuola” agraria suonava pressoché così: “una zappettatura vale una mezza annaffiatura “ Vero ! ciò che è meno vero è l’errata interpretazione del meccanismo, cioè se rimuovere la terra impedisse  la “risalita “capillare dell’acqua e quindi il suo risparmio o se invece come sembra più corretto  che le ripetute lavorazioni richiamano acqua dagli strati più profondi rendendola  più disponibile alle radici . la differenza non è di poco conto perchè  su questo equivoco  sono stati “foggiati” schiere di tecnici  La semina al sodo in cerealicoltura solo oggi comincia a destare qualche attenzione.  Gli studi e le ricerche sul suolo in questi anni  dominati di esasperata attenzione per la produttività e la riduzione dei costi ,non hanno avuto il giusto riconoscimento,  diamo per scontato verità che andrebbero meglio verificate ..
Per anni abbiamo posto l’attenzione verso una più efficiente gestione della chioma razionalizzandone ormai gli interventi , abbiamo invece colpevolmente tralasciato la parte nascosta della vite :il suo apparato radicale e tutta la sua dinamica nella determinazione più significativa della qualità .La conoscenza dei suoli e la sua interazione con la fisiologia delle radici  ci svelerà come un suolo ricco di ferro potrà ospitare un vitigno rosso ,mentre in suoli presenti alcune classi di argille andrebbero  bene vitigni a bacca bianca..Siamo ormai certi che lo sviluppo dell’apparato radicale è correlato alla presenza di ossigeno questo elemento dovrà essere presente negli strati più profondi  perciò una lavorazione a non più di 20cm. di profondità sarà indispensabile.
Fermo restando che l’attiva ossigenazione degli strati più profondi è demandata a’’attività della fauna o dalle radici delle erbe infestanti.
Nei prossimi anni la scommessa della nuova viticoltura vedrà come protagonista il suolo coltivato e le sue peculiarità gestionali quelli che assicureranno al vino  la “mineralità “ ossia la sua massima e più intima espressività , insomma un vino unico e irripetibile,un vero grande vino che saprà comunicarci piacevoli emozioni
 Giuseppe Bivona