giovedì 29 dicembre 2011
lunedì 19 dicembre 2011
A tutti i nostri lettori Auguriamo un Buon Natale e Felice Anno Nuovo…..con un racconto
La buona novella…a
lieto fine
Ormai
era notte fonda , alla periferia del paese non si vedeva anima viva ,faceva
freddo, ma sinceramente non era quello che volevano farci credere le
previsioni metereologi del giorno
precedente. In quel tugurio a forma di grotta, in una mangiatoia ,veniva alla luce il bambino di
Giuseppe e Maria. Il bue e l'asino erano dal tardo pomeriggio in quella
stalla ,riposavano dopo una giornata di lavoro massacrante e ormai davano le
ultime boccate al saporito fieno ,odoroso, quasi voluttuoso....
"Toh, cosa ci tocca vedere" ,disse l'asino al bue. Questi
un po’ più sveglio del compagno, capi subito la estrema necessità ed
urgenza : diede alcune affettuose leccate al pargolo che giaceva
disteso nel presidio alimentare,cosi come avrebbe fatto con il suo vitellino.
Il bambino aveva una straordinaria vitalità , dopo il primo vagito
sembrava sereno e quasi sorridente. Eppure Maria , nei mesi precedenti non
aveva fatto alcuna ecografia , non aveva visto medici che l'avessero
consigliata sulle diete , integratori , vitamine calcio ,fosforo...
Poi
negli anni successivi , non ebbe alcuna visita ne controlli da parte di
pediatri...niente vaccinazioni , ne crisi da svezzamento . Quando emise i primi
dentini da latte Giuseppe le pose tra le mani la
"scarpetta" di un pane di circa 15 giorni : non la lasciava un
secondo, succhiava e masticava quasi come le offrisse un straordinario piacere !
Il
ragazzo crebbe sano e robusto, chissà quanti anni poteva campare! Se non fosse
stato per quella crocefissione... a soli 33anni nel pieno della sua
vitalità!
E
se poi invece fossero stati 90 o 120 anni! Che stramberia è questa!
Ebbene si, ci crediate o no ,ma in un regione
impervia della penisola indiana è stata scoperta una tomba bi millenaria di un
certo Giosufa ,che ha tutta l'aria di essere la stessa persona con Gesù.
A testimonianza che Ponzio Pilato seppe fare
qualcosa di più e di meglio, di quanto raccontatoci dalla
"storia" ufficiale,qualcosa di diverso che limitarsi a lavarsi
le mani , a conferma delle perentorie richieste di sua moglie che non lo
molla un istante , perché aveva a cuore la sua salvezza di Gesù detto il
Cristo!
sabato 17 dicembre 2011
Da “Il segreto della domanda”
La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e
tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a
conforto o a rimedio del quale, sono state senza fine ideate pratiche di cura.
Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica che, nonostante quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non sia un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.
Del resto, a differenza degli animali, l’uomo non è corredato di istinti, ossia di risposte rigide agli stimoli, e perciò la sua esistenza, non essendo pre-codificata, è posta come compito. Eludere questo compito è rinunciare alla condizione umana, è perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo “di tutti”, anche di chi al momento non soffre, perché, di fronte alla sofferenza, fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire.
Nasce da qui la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.
Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamolo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.
Qui si dividono Oriente e Occidente. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.
L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. A questo punto le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza l’Occidente è scaturito, divaricano.
Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è castigo e ad un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”, ma consiste nella contrapposizione tra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte delle singole esistenze è condizione di vita, e l’economia delle singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della loro vita.
Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire, perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura.
Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono o di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile. Una volta accolta la caducità dell’esistenza, occorre imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo rattrappimento, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare.
La pratica filosofica è iscritta in questa visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere, ed entro certi limiti dominare, non ipotizzando un mondo ultraterreno come nella tradizione giudaico-cristiana, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere.
Per questo il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.
Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balìa della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto, tipicamente greco, che nasce dallo sfondo tragico, segnerà il carattere dell’Occidente che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente, e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore, ama la vita e tutto ciò che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.
La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non si ingaggia solo col nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, quando è infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).
Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica che, nonostante quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non sia un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.
Del resto, a differenza degli animali, l’uomo non è corredato di istinti, ossia di risposte rigide agli stimoli, e perciò la sua esistenza, non essendo pre-codificata, è posta come compito. Eludere questo compito è rinunciare alla condizione umana, è perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo “di tutti”, anche di chi al momento non soffre, perché, di fronte alla sofferenza, fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire.
Nasce da qui la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.
Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamolo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.
Qui si dividono Oriente e Occidente. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.
L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. A questo punto le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza l’Occidente è scaturito, divaricano.
Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è castigo e ad un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”, ma consiste nella contrapposizione tra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte delle singole esistenze è condizione di vita, e l’economia delle singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della loro vita.
Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire, perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura.
Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono o di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile. Una volta accolta la caducità dell’esistenza, occorre imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo rattrappimento, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare.
La pratica filosofica è iscritta in questa visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere, ed entro certi limiti dominare, non ipotizzando un mondo ultraterreno come nella tradizione giudaico-cristiana, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere.
Per questo il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.
Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balìa della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto, tipicamente greco, che nasce dallo sfondo tragico, segnerà il carattere dell’Occidente che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente, e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore, ama la vita e tutto ciò che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.
La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non si ingaggia solo col nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, quando è infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).
Da queste considerazioni è nata
l’esigenza di creare, grazie all’interesse della casa editrice Apogeo, una
collana che raccogliesse i contributi non solo europei e americani, ma anche
italiani dedicati alle pratiche filosofiche, a partire dalla persuasione che
nell’età della tecnica la domanda di senso si è ulteriormente radicalizzata,
perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita come
nell’età pre-tecnologica, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che
non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati.
All’interno degli apparati tecnici, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-teconologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.
Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, sono inefficaci in ordine al tipo di insensatezza che caratterizza l’età della tecnica. La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso.
Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, con Socrate, Platone, Aristotele, con lo stoicismo e l’epicureismo, la filosofia, prima di rinchiudersi nella turris eburnea delle aule accademiche e diventare autoreferenziale, si è applicata al mondo della vita per reperire le forme migliori per il governo di sé e il governo della città. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi si identifica con la tecnica, in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza.
Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro.
All’interno degli apparati tecnici, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-teconologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.
Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, sono inefficaci in ordine al tipo di insensatezza che caratterizza l’età della tecnica. La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso.
Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, con Socrate, Platone, Aristotele, con lo stoicismo e l’epicureismo, la filosofia, prima di rinchiudersi nella turris eburnea delle aule accademiche e diventare autoreferenziale, si è applicata al mondo della vita per reperire le forme migliori per il governo di sé e il governo della città. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi si identifica con la tecnica, in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza.
Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro.
Umberto Galimberti
Mais les feuilles sont mortes ?
Quest’anno l’autunno non si decide ad entrare, sembra
indugiare sul limite estremo dell’estate. La vegetazione qui in campagna è
ancora verdeggiante come un paio di mesi fa. Alice esce dall’uscio della
sua casa estiva mentre il sole invia i primi raggi. Si
ferma sotto l’ombroso lontano alza gli occhi e vede che sui rami si notano solo poche foglie
ingiallite, pochissime cadute a terra. “Eppure siamo quasi alla fine di ottobre
“ disse Alice rivolgendosi al Gufo “ Non sarà forse la temperatura insolitamente mite e l’assenza di vento e pioggia? Certo rispose il
Gufo “ La caduta delle foglie è per noi
uno spettacolo, i botanici direbbero che un perfetto sincronismo, una felice
coincidenza, tra le temperature che si abbassano, la luce del giorno che si attenua e …. la produzione di ormoni da parte della
pianta che decide di “abbandonarle” non
prima di averle consegnato un po’ di….. spazzatura accumulata nei mesi
primaverili - estivi.
Ad Alice lo spettacolo
delle foglie autunnali ha sempre trasmesso tristezza e senso di caducità
, leggiadre creature dai colori variegati ,indefiniti , terrei , forse consapevoli
di doversi prima o poi “staccarsi “ dal ramo , eppure quanta
fierezza esprimono in quell’atto!
“Bè “ disse il
Gufo, attento come sempre alle note emozionanti
di Alice “ a ben pensarci le foglie autunnali, per strano che possa
sembrare , trasmettono armonia e serenità. Sono giunte al termine della loro
vita, si lasciano cadere quasi senza
opporre resistenza , non si aggrappano a
niente , anzi trasformano la loro caduta
in una danza di impareggiabile dolcezza ad eleganza.”
Alice : “Invece noi non cessiamo di attaccarci alle cose , bramosi di possedere ,
timorosi di perderli ,ansiosi nel difenderli, sempre più “avere” e sempre meno
“essere”. Insomma facciamo esattamente tutto il contrario di quello che
fanno queste lievi, delicate, dignitose
figlie dell’albero. Dovremmo imparare da loro!”
Il Gufo annuiva ,
certo l’attaccamento alle cose materiali è un prodotto culturale
della nostra mente ,dell’ego , di
una voglia insaziabile , irrequieta , indomabile che sempre vuole, vuole ,né mai si accontenta
,incessantemente desiderosa di altro ,
ancora ed ancora , sempre più a lungo , come se la vita fosse una eterna corsa agli acquisti , dove tutto è in vendita
perché tutto ha un prezzo “ Invece le
cose di valore non hanno un prezzo , hanno appunto un valore che è tutta un altra cosa :non si possono
venderle , non si possono comprare , si possono cercare di meritarle ,di esserne degni e custodirle fedelmente.”
Disse quasi tutto di un fiato il Gufo.
“Eppure” riprese
Alice basterebbe essere più “modesti” : le foglie cadono al suolo ,ma senza
disperazione , sanno che quello è il loro destino , ma sanno che continueranno
a vivere in altre forme in altri corpi , in altre stagioni . Sanno che il loro
“cadere” è necessario perché tra qualche
mese possano sbocciare altre gemme sul ramo , altre foglie si schiudono al
tiepido sole di primavera . Cosi i vecchi debbono fare altrettanto, lasciare il posto ai giovani , è
una legge di natura ,chi ha fatto il
proprio tempo si distacca perché
altre generazioni possano farsi avanti .
E’ il ciclo perenne che eternamente si rinnova. A cosa servirebbe alla vecchia foglia rimanere attaccata
all’albero? Se non ad occupare inutilmente spazio . Ma il suo “sacrificio” quando l’inverno finirà e le piogge
avranno ridato forza e vigore
all’albero nutrimento ad una foglia nuova, contribuendo a ridare il miracolo della fertilità”
Il Gufo ora si era
fatto pensieroso “ Non si può vivere solo per se stessi , la nostra vita ha
senso ed un valore , nella misura in cui
riesce a rapportarsi col resto che ci
circonda: tutto questo ci dicono le foglie
gialle , arancio o brune che
siano, quando dopo una vita intensa
pienamente vissuta, cedono alla stanchezza , smettono di fare presa ,
permettono ad un lieve soffio di vento di portale via con se”
“Ma la foglia che si
stacca dal ramo e cade a terra “
disse sicura di se Alice” non
cessa di vivere , ma ritorna nel grembo della natura che l’ha
generata , riprende il ciclo della vita
dallo stesso terreno che ospita e nutre la pianta ,perche essa stessa feconderà
di nuova energia vitale e non sarà vissuta invano!”
Le anime dei
vecchi ( Constantinos Kavafis)
Nei loro corpi decrepiti,consunti
stanno le anime dei vecchi. Poverine,
cosi stremate e malinconiche
per la grama esistenza che trascinano.
E che spavento hanno di perderla,e che bene
le vogliono queste anime dubbiose,inconseguenti
e tragicomiche - sistemate come sono
nelle loro frolle decrepite pelli
giovedì 15 dicembre 2011
Amorevole….. inganno
Per Alice quel viale era un luogo “magico”,
silenzioso e rassicurante ,forse perché delimitato da due filari di ulivi, le
cui fronde si toccavano quasi a formare un tunnel e nelle ore più calde c’era
sempre ombra a proteggerti.
Poi come un segnale convenuto, alla stessa
ora,minuto più minuto meno, arrivava dal mare la brezza e con la delicata
freschezza portava il profumo di “mare”. Chinò lo sguardo per cacciare un piccolo sasso e vide con
sommo stupore un piccolo ,strano fiore, attaccato alla ceppaia dell’ulivo, dai
petali particolare ,irregolari, dalla forma inusuale. Cosa sarà mai? Come al solito, chiamò il suo
inseparabile gufo e chiese che cosa fosse
quella strana pianticella. “ E’ una orchidea”- disse subito il gufo ,” di
spontanee c’è ne sono parecchie in Sicilia specialmente nell’altipiano Ibleo” .
Alice raccolse i fiorellino e lo fece girare
e rigirare tra li dita , accrescendo sempre più la sua curiosità.
Camminarono assieme in silenzio poi il
gufo :” Be, è facile per esseri come
noi dotati di mobilità ,operosità e
linguaggio conquistare l’apice della
scala evolutiva . Eppure le piante
malgrado la loro fissità ,il radicamento ,l’immobilità, hanno fatto la storia naturale attivando meccanismi e strategie sofisticate
per rispondere efficacemente ai fini
esistenziali: nutrirsi e diffondere la progenie ,ovvero i propri geni nello
spazio circostante!”
Alice ,conveniva che nella storia naturale
dell’evoluzione le piante avevano messo a segno meccanismi sofisticati sia per attirare gli insetti pronubi che per
diffondere i semi ovvero la progenie.” Queste cara Alice “ disse il gufo “sono bazzecole rispetto a quello che alcune consorelle della
tua orchidea hanno escogitato! Vuoi un
esempio? L’orchidea Ophrys
contrariamente agli altri fiori non produce nettare! Tu dirai : si risparmia
questa fatica metabolica ! Si ,ma
escogita un inganno, forse, il più sofisticato, intelligente che si possa
osservare in natura : Promette…. sesso , uno strano sesso a cui un parente stretto del calabrone
non sa resistere! L’orchidea attrae il credulone imitando il profumo della vespa femmina (
profumo di donna!) ovvero con ferormoni,
specifico per la specie . Ma in primo piano l’orchidea espone il labello ( il
labro inferiore del petalo) ovvero una
riproduzione fedele dell’addome della vespa femmina vista da di…dietro, con gli arti e le ali
piegati e per non lasciare nulla al caso
..una finta peluria. Il credulone volteggiando tra i fiori intravede la “femmina. ” con la testa immersa nel calice, intenta ad
esplorare ,la scenografia è completata
dal verde colore dei sepali che sporgono
appena. Il mandrillo non ha dubbi: la posizione è delle più favorevoli , l’occasione è ghiotta ,si tuffa con decisione
ed inizia prima con movimenti prestanti
, poi via via assesta colpi vigorosi e prolungati ,di vera copula!
L’orchidea
risponde con languide flessioni del suo esile peduncolo , deve
assecondarlo ancora un po’, finché le piccole strutture polliniche ,due sacche
gialle pieni di granuli , poste ai lati come piccole colonne, si allentino e si
attaccano alla schiena con una sostanza
appiccicaticcia, gelatinosa a rapida presa . Quando il vespone ,ormai stanco e
ansimante di dimenarsi,senza aver ottenuto alcun fruttuoso epilogo , si
rende conto dell’inganno, abbandona il fiore , ha con se sulle spalle due
bombole gialle piene di polline. Poverino! Era stato illuso dalla promessa di
sesso ,ora è frustrato, arrabbiato con se stesso ,si chiede incredulo, come è
potuto cadere in quel miserabile inganno
? Ma ciò che lo manda in bestia è che era
stato fatto fesso da una …pianta! Ora vola lontano, ha paura del sarcasmo dei
compagni , vuole andare distante da quel luogo ,dimenticare.”
Alice era rimasta senza parole, la strategia
dell’Ophrys era geniale,intricante , piena di astuzia “ “ Non ti viene il dubbio che
questo sia la prova di una volontà ,di un disegno intelligente?” Il gufo scosse la
testa ” Be,se penso a certi uomini che
si consolano con le bambole gonfiabili non mi stupisco più di tanto.! Ma la
storia dell’orchidea non finisce certo qui ! tu penserai che quel ” pirla “vespone
ora non ci casca più,ha memorizzato le sembianze, i profumi e di conseguenza il suo carico di polline sarà sparso al vento, inutilizzato! Ebbene no! L’orchidea è “diabolica” , sa che
l’animale non si innamora sempre dello stesso fiore , e un “farfallone” nato, perciò crea una sottile variazione “sul tema” da pianta a pianta , come dire leggere
imperfezioni, odori legger menti divaganti per singolo individuo. Ebbene non ci crederai
,cara Alice, ma queste imperfezioni sono
estremamente funzionali al perfetto disegno della macchinosa trama ordita dalla
nostra orchidea.
Ormai il
vespone èlontano dalla scena dell’inganno ,distante da occhi indiscreti , si
abbassa verso il fiore vede di nuovo la vespa in “posizione” favorevole, con molta probabilità a guardala ed annusarla
sembra leggermente diversa dalla prima,
no, questa volta è quella “vera”, non resiste, si butta di nuovo …e giù a menar
colpi a…. vuoto . Ma non per l’orchidea , che se la gode, il suo atto copulatorio
è compiuto! Si è servita di un….pene
volante!.”
Alice era sempre più meravigliata dal racconto
del gufo , ma una cosa non le era chiara” Perché alcune famiglie di orchidee hanno scelto di
non produrre nettare e intraprendere l’avventura, diciamo “sessuale” .In fondo
migliaia di specie affidano
l’impollinazione al richiamo alimentare co ottimo successo. “Ingenua Alice La
tua innocenza è pari al tuo pudore”.Rispose il gufo “ I detti popolari , su
questo tema si sprecano “ tira più un pilu
di fimmina che…….”, ma l’orchidea
ha elaborato una fine strategia che segue diversi percorsi . Intanto produrre
nettare è sempre uno sforzo metabolico, per la pianta un costo energetico, poi
la presenza di nettare attira come sol dirsi “ cani e porci” . Un fiore cosi”
nobile” non può farsi ingroppare dal primo venuto! L’orchidea produce un suo specifico odore che attira un specifico insetto e solo cosi può essere certa che il polline finisce esattamente su uno stigma di una orchidea lontana. E ‘ una impollinazione efficiente e specializzata . In questo modo sfugge
al rischio di un isolamento geografico che poi equivale ad isolamento genetico e inagura
nuovi incroci, aumentando la variabilità , nuove conquiste.
Ma le orchidee in natura non sono tantissime. Il
loro numero ristretto è condizione di sopravvivenza . Si, perchè se le orchidee
ingannevoli fossero molto più numerose ,i loro trucchi non avrebbero tanta fortuna . Sono in “equilibrio” con le3/4
della popolazione di orchidee “oneste” dove l’odore è odore e dove la realtà
non e finzione e correttamente mantengono quello che si promette! Perché , l’inganno
sessuale può coinvolgere pochi vesponi per molto tempo ,può, al massimo
interessare molti vesponi, ma per breve tempo .Quello che non potranno mai fare
le orchidee “prostitute” ingannare molti
vesponi per tantissimo tempo!”
“Ma cosi la vita delle orchidee ingannatrici è
sul filo del rasoio” disse Alice ” No ! rispose il gufo _”perché
paradossalmente ogni granulo di polline si muta in …seme con una semplicità stupefacente , lontano
dalle complicazioni e dagli impegni coreografici che abbiamo visto per l’impollinazione. Questi
semi sono piccolissimi quasi invisibili ,non hanno cotiledoni “ Allora come
fanno a nascere, saranno pochissimi quelli che sopravvivranno!” disse
prontamente Alice. “ Niente paura ,rispose il gufo “ Ci pensa un fungo
epifita che raggiunge con le sue ife i
piccoli semi e fornisce loro tutte le sostanze necessarie allo sviluppo
dell’embrione e successivamente alla futura piantina. Tu dirai cosa ne viene al
fungo? Ma deve esserci per forza un
tornaconto ,una convenienza? Per una
orchidea ne vale la pena!!
Giuseppe Bivona
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