giovedì 27 novembre 2025

Neoruralità: necessità, status symbol, sogno proibito,o utopia?

NinoSutera

Nel 2021 l'Assessorato Regionale all'Agricoltura ha istituito l'Osservatorio Neorurale 







La neoruralità rappresenta uno dei tratti culturali caratteristici della nostra epoca,
una reazione alla crisi della società occidentale: crisi che è insieme ecologica, sociale
etica e morale. La manifestazione più vistosa è il movimento a favore della
rinaturalizzazione urbana e le iniziative di valorizzazione residenziale e turistica  creativa
del territorio rurale, ma soprattutto alla riscoperta delle radici dell’antica
civiltà contadina. In molti Paesi europei compresa l'Italia, si moltiplicano le
esperienze ed è in continua crescita il numero di cittadini che abbandonano le città e
vanno ad abitare in campagna dove possono godere di una casa individuale con
abbondante verde circostante, di cibi genuini, e ritmi tranquilli.
Oggi sono quasi ventitré milioni gli italiani (il 40% del totale) che vivono in comuni
definiti rurali (con meno di trecento abitanti per chilometro quadrato): circa
cinquecentomila in più rispetto a dieci anni fa. Il territorio italiano è di 30 milioni di
ettari: 12,7 milioni sono coltivati, 10,5 milioni sono costituiti da boschi, 2,7 milioni è
fatto di città.
Fenomeno di questi anni è Downshifting, cioè per cui molti lavoratori stanno
scegliendo di andare a vivere in campagna, dove fanno un lavoro con un salario più
basso, minori impegni e maggior tempo libero. Datamonitor, agenzia londinese che si
occupa di ricerche di mercato, stima che in tutto il mondo i lavoratori inclini a fare
downshifting sono 16 milioni. Ogni anno, circa 260 mila cittadini britannici fanno
una scelta di vita che va in quella direzione. Nel 2008, il ministero dei Servizi sociali
australiani ha stimato che sono almeno un milione le persone, tutte comprese nella
fascia di età tra i 25 e i 45 anni, che hanno deciso di scalare una marcia. La stragrande
maggioranza (circa il 79%) lo ha fatto non solo cambiando lavoro, ma anche
scegliendo di abbandonare la città per trasferirsi al mare e in campagna. 
In Francia,
infatti, li chiamano néo-ruraux, neorurali: uno studio di Ipsos France dice che erano
100 mila nel 2008 e quasi il triplo l’anno successivo.

Per il sociologo Corrado Bareris, autore del libro La rivincita delle campagne
(Donzelli): «Per i protagonisti dell’esodo, cinquanta, sessant’anni fa, la città era il
paradiso: coppie costrette a vivere in ammucchiata si amarono in riservatezza; le
donne decisero cosa mangiare senza chiederlo alla suocera; perfino la fede fu
praticabile senza il controllo del parroco. Poi ci si è accorti che, se si ricreano alcuni
aspetti dell’antica società fuori del suo contesto di miseria, le persone con cui si
litigava erano quelle con cui si scherzava e rideva; l’occhio che faceva i conti nelle
tasche del vicino era quello che lo proteggeva anche dai ladri».
Secondo le stime il mercato dei casali di campagna resiste alla crisi del mercato
immobiliare, con quotazioni stabili rispetto a un anno fa. Le soluzioni più richieste
sono i rustici da restaurare, con terreno, e le cascine già ristrutturate secondo il gusto
moderno. Il prezzo di immobili di questo tipo può variare molto da zona a zona. . La
più cara è la Toscana (tra i 3 mila e i 4 mila euro al metro quadrato per stabili
ristrutturati, tra i 1.300 e i 1.800 per quelli da ristrutturare)
Un’area neorurale è il luogo ideale dove il futuro, nascosto e mimetizzato, si innesta
su un territorio antico e incontaminato, tra mare e monti, si integra perfettamente con
le aziende e le imprese, contornati da giacimenti enogastronomici d’eccellenza, in un
ottica multifunzionale dell’azienda agricola

sabato 8 novembre 2025

La sinistra e ...Peppe Urpi

 Peppino Bivona


Belice di Mare  Luglio 2024


             Nei pomeriggi estivi, caldi e assolati, i “soci”  della Biblioteca comunale “Santi Bivona”, la cui apertura era esposta a mezzogiorno, erano soliti fruire dell’ombra  dell'altro lato della strada, dove aveva sede il Circolo Universitario e di ….Cultura.

 Di tanto in tanto veniva a sedersi l’ing. Bilello ,  vecchio dirigente  della locale sezione del partito  comunista e nel dopoguerra sindaco di Menfi. Negli ultimi anni si era ritirato a vita privata dedicandosi alla pollicoltura, ovvero all’allevamento dei polli nella sua tenuta di “Pupo Rosso”.

Fu così che un tardo pomeriggio estivo, non ricordo bene, se    nell’anno 73 o 74 ,l’ing. Bilello con la sedia della biblioteca venne a sedersi nell’ampio marciapiede prospicente la sede del circolo Universitario, accanto a noi giovani . Questo vecchio dirigente comunista era stimato dalla base e riconosciuto da tutti oltre che per la sua onestà e correttezza, per la sua vasta e profonda cultura. Noi giovinastri sessantottini rispettavamo questa figura storica, ma non più di tanto:  a nostro parere il PCI aveva “tradito” la sua vocazione rivoluzionaria , si era imborghesito , divenuto un partito riformista.

Proprio in quegli anni usciva per l’Einaudi un saggio di Sidney Tarrow,”Partito Comunista e contadini nel Mezzoggiorno”,la cui tesi di fondo era abbastanza chiara: se  in Cina ,in Iugoslavia o nell’Andalusia spagnola i contadini costituirono la forza dirompente  tale da sovvertirne l’ordine costituito, perché nel sud dell’Italia questa imponente forza sociale e politica costituita da braccianti e mezzadri e contadini poveri,   giunti ad occupare i feudi, non  fu guidata verso la rivoluzione socialista? Perché non si realizzò la storica saldatura auspicata da Gramsci, tra operai del Nord e contadini del Sud?

L’ing. Bilello pur non frequentando la sezione del partito, sapeva che alcuni giovani manifestavano insofferenza per l’autorità dei “padri”, sia quelli genitoriali che quelli simbolici: erano critici verso la scuola, la chiesa, la famiglia, le istituzioni e non si salvava neanche il partito. Perciò quando gli esposi la tesi del sociologo americano, sembrava preparato a questa domanda, tanto più che nel dopoguerra aveva diretto per qualche anno la “Federterra “regionale. Bilello fece un profondo respiro , si avvicinò la sedia perché la sua voce per sua natura flebile potesse arrivarmi bene alle orecchie. “Pippinè capisco la vostra insofferenza giovanile, anch’io sono stato giovane ,ma spesso dimenticate che il nostro partito con la svolta di Salerno , aveva abbandonato la strategia leninista della presa del potere e si pose come interlocutore paritetico nei confronti delle democrazie occidentali, accettandone la dialettica parlamentare”. Il vecchio saggio Bilello aveva ragione, ( eppure questa semplice verità non era stata compresa   dai gruppi estraparlamentari  che negli anni successivi divennero “Brigate Rosse , Prima Linea e tanti  giovani disperati, sommersi da un equivoco di fondo  che caratterizzò   la doppia  “identità” del Partito Comunista). Ma torniamo a noi.

Ciò nondimeno l’occupazione delle terre, l’esproprio dei feudi non erano di per sè atti “ sovversivi” tali da stravolgere gli assetti sociali ed istituzionali!? Pensa che non siamo riusciti ad applicare la stessa legge di Riforma Agraria ,votata dall’ARS il 22 novembre del 1950, in particolare nei titoli”I”e “II” che proponeva un limite alla proprietà e taluni obblighi  come le trasformazioni fondiarie ,la buona coltivazione, l’imponibile di manodopera!”

 Mi resi conto che avevo  di fronte un testimone importante che poteva comunque raccontarci un tratto della nostra storia menfitana inerente la Riforma Agraria e in particolare l’occupazione delle terre e il ruolo svolto da un indiscusso protagonista di quegli anni, ovvero Giuseppe Volpe ,“Peppi Urpi”. L’ing.Bilello si assestò sulla sedia, fece una piccola smorfia di disappunto, quasi a dirmi che l’argomento non era uno dei suoi preferiti. Ora dopo tanti anni non ricordo bene i particolari ma in sintesi la versione  dei fatti secondo Bilello era questa.

 Noi non abbiamo avuto una vera Riforma Agraria, se si eccettuano l’esproprio del feudo Fiore e qualche sporadica assegnazione di lotti, del tutto irrilevanti. L’esproprio del feudo Fiore fu un “capolavoro “ di “Peppi Urpi” anche se bisogna dire che contribuirono al successo talune vicende politiche che caratterizzarono opposte fazioni negli anni successivi il primo dopoguerra negli anni 1918-22.

 Le vicende successive al dopoguerra, dal 48 in poi sono complessi, turbolenti e di non facile lettura. Intanto il partito fu colto di sorpresa dalla partecipazione massiccia  e la mobilitazione da parte dei lavoratori della terra.Si era rotto di colpolo storico “sonno” di gattopardiana memoria.

 Dopo gli eccidi di Melissa in Calabria , la parola d’ordine era occupare le terre incolte o mal coltivate. Si riaprì di colpo l’annoso problema delle terre nel  nostro Mezzogiorno, riaffioravano ancora i ricordi di usurpazioni  di beni demaniali , di proprietà della “mano morta” e di proprietari con precario o nullo titolo di proprietà( per tutti leggasi “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia) . Ma lo scenario non era completo: gli “agrari” non avrebbero ceduto facilmente i terreni, tantè che non esitano a ricorrere alla mafia , assoldano bande come quella di Giuliano,mobilitano i loro pastori e i gabelloti. Ma fanno di più: assoldano studi legali più in vista come,Virga, Orlando Cascio Ferro, Scaduto , attuano un fronte detto ,”l’offensiva della carta bollata”    Insomma mandano a dire chiaro e tondo che venderanno cara la pelle! I risultati di quegli anni sono sotto gli occhi di tutti: l’eccidio di Portella della Ginestra e decine di sindacalisti uccisi, tra cui il nostro vicino saccense Accursio Miraglia.

In questo contesto a Menfi si radicalizzano due posizioni nettamente distinte: La prima del Partito Comunista che occupando le terre chiede l’esproprio e l’assegnazione ai contadini poveri, mezzadri, braccianti. L’altra di”Peppi Urpi” che apre un varco di mediazione nel fronte degli “agrari” i quali sono disposti a vendere le loro proprietà e attraverso mutui ventennali( formazione della  piccola proprietà contadina). In un contesto così” fluido” e ingarbugliato, per la sinistra Peppi Urpi” appariva un” traditore” perché  traduceva il grande movimento per la riforma agraria in una  accomodante vendita da parte de grossi proprietari che venivano ristorati e rifocillati  dal denaro pubblico e da quello privato. La faccenda non è di poco conto perché nella transazione con i proprietari    la assegnazioni di lotti o di quote richiedeva un minimo di anticipo che i contadini poveri non disponevano, mentre i piccoli e medi  proprietari disponevano di risparmi tali da consentire loro di aggiudicarsi diversi lotti. Ai proprietari terrieri non fu strappato neanche un palmo di terra, essi vendettero a prezzo pieno di mercato. Insomma la tesi di Biello è che i proprietari fecero un affare. Di fronte al rischio concreto di una possibile confisca dei loro beni, ne uscirono con le tasche piene. Un esempio interessante è la vicenda del feudo di Belice dei Pignatelli. Un resoconto lo troviamo nel saggio di Vincenzo Lotà” Uomini senza Cappotto” ,  dove l’autore raccoglie la testimonianza della buonanima di Baldassare Li Petri. Qui mentre la Commissione provinciale verificava lo stato di incolto e mal coltivato del feudo per l’esproprio, “Peppi Urpi”concorda con l’amministrazione del feudo la divisione in lotti e la successiva vendita in violazione della legge e in affido a cooperative. Le ragioni addotte sono risibile : l’esproprio avrebbe dato la possibilità ai contadini di Castelvetrano di reclamarne il diritto, per il semplice motivo che il feudo ricadeva nel loro territorio. Non a caso lo stesso “Peppi Urpi” nella sua intervista a Danilo Dolci  nel libro “Spreco”, confessa che i proprietari terrieri nei suoi confronti manifestavano  benevolenza e stima se non ammirazione!.

Queste vicende furono occasione  di una amara riflessione sulla strategia del partito comunista nel sud e in particolare in Sicilia La posizione di Bilello si scontra con quella di Li Causi ,capisce che il movimento contadino è espressione di una variegata manifestazione di interessi disparati , spesso difficile contemplarli in un'unica strategia onnicomprensiva . Ci siamo infilati in un “cul di sacco”: esiste una palese contraddizione tra le scelte strategiche del partito a livello nazionale e le spinte radicali offerte dall’occupazione delle terre.Non si capiva bene se “ le cavalcate” verso i feudi  avessero un valore folkoristico tale solo per mostrare i muscoli, o di vera dirompenza sociale e politica. Qui  il vecchio dirigente comunista fa una riflessione teorica marxiana di elevato spessore culturale, e indirettamente risponde a Tarrow:”Ricordati” Pippinè “che le classi proletari , gli operai, e a maggior ragione le masse contadine , hanno “bisogno” della mediazione della borghesia! I salti nella storia non sono ammessi!”

Comprendo alla fine della chiacchierata che al vecchio dirigente comunista  gli costa molto ammetterlo, ma la strategia scelta da “Peppi Urpi” in fin dei conti, risultò vincente,  perché era di buon senso: questo vecchio contadino aveva realizzato una rivoluzione pacifica , alla fine tutti potevano, volendo ,disporre anche di un fazzoletto di terra ,  e  chi credeva nella terra, non si lasciò sfuggire l’occasione, era sufficiente  a fungere da “lievito” che, con le successive opere di bonifica e l’irrigazione, nel breve tempo di una due generazione, ha consentito a gran parte dei vecchi contadini di risvegliarsi imprenditori e comunque tali da cambiare scenario nelle campagne menfitane.