martedì 21 maggio 2024

Per non dimenticare


Una marcia durata sei giorni, attraverso i territori più depressi dell’isola, da Partanna a Castelvetrano, a Menfi, a Santa Margherita Belice, a Roccamena, a Partinico, a Borgetto, a Pioppo, a Palermo.

Una pagina indelebile di visionari alimentata da valori non barattabili.

Se non fosse per  il bianco e nero delle foto dell'epoca, sembrerebbe il racconto di qualche settimana addietro, a giudicare dai cartelli di protesta.

Un evento storico organizzato da Danilo Dolci e descritto da Peppino Impastato

Nel 1967 Peppino Impastato ha 19 anni ed ha cominciato il suo percorso politico di attenzione e di lotta verso i grandi temi che affliggono il Sud Italia, oltre che verso i conflitti che dilaniano il mondo. Lo troviamo accanto a un altro grande personaggio che dedicò la sua vita al riscatto della Sicilia. Assieme a un numeroso gruppo di manifestanti, con nomi di altissimo livello nazionale, organizzò, con il Centro Studi di Partinico, da lui creato, una marcia durata sei giorni, attraverso i territori più depressi dell’isola, da Partanna a Castelvetrano, a Menfi, a Santa Margherita Belice, a Roccamena, a Partinico, a Borgetto, a Pioppo, a Palermo. L’iniziativa univa il problema della pace, allora di grande attualità, per la guerra in Vietnam e quello del lavoro, caratterizzato dallo sfruttamento più bestiale da parte dei mafiosi e dei vari ricchi proprietari di terreni, oltre che dalla mancanza di sovrastrutture, strutture, mezzi di lavoro, strade e soprattutto l’acqua. Alla protesta era legata anche la speranza che attraverso la lotta le cose potessero migliorare. Peppino aderì all’iniziativa e vi partecipò come “corrispondente” del suo giornalino dattiloscritto “L’Idea”.


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Passaggio della “Marcia della protesta e della speranza” (1967) a Partinico. Peppino è in fondo a destra con un cartello dov’è scritto “Pace al Vietnam – Libertà ai popoli oppressi – Lavoro ai siciliani”


LA MARCIA DELLA PROTESTA E DELLA SPERANZA

Servizio di Giuseppe Impastato
Il 5 di marzo, domenica, un grande convegno popolare, presieduto da Danilo DolciLorenzo Barbera, Corrado Gorghi (consigliere nazionale della D.C.), Salvo Riela, Bruno Zevi, Angelo Ganazzoli (presidente dell’E.S.A.) e Leonardo Di Salvo, nella sala del cinema “Nuovo” di Partanna, analizza con attenzione tutti i più gravi problemi che affliggono incessantemente le genti delle valli del Belice, del Carboj e dello Jato e mette dettagliatamente a fuoco gli obiettivi della manifestazione popolare che deve avere il suo inizio nella mattinata del giorno seguente. La relazione di base, nella prima parte della giornata, viene svolta da Lorenzo Barbera, dirigente del centro di pianificazione delle valli. Egli ribadisce innanzi tutto la necessità che vengano costruite o definite le dighe: Arancio sul Carboj, per ora funzionante al 50%, Poma sullo Jato, Garcia sul Belice destro, Cicio sul Modione, Malvello sulla sorgente Malvello. Definendo o costruendo queste dighe si verrebbero a creare infatti 36.100 posti nuovi in agricoltura.
Il suo secondo appunto è rivolto alla riforma agraria: in seguito alla vecchia riforma sono stati assegnati circa 1.400 lotti. La superficie investita dalla riforma è di circa il 2,8% dell’intera superficie della valle del Belice. Ogni lotto misura circa 4 ettari ed ha un reddito lordo scarsissimo che va dalle 200 alle 350 mila lire annue. Tutto questo naturalmente perché sono stati assegnati i terreni peggiori, senza possibilità alcuna di trasformazione.
Di questi 1.400 lotti circa 670 sono stati forniti di case coloniche che sono a loro volta rimaste per molti anni prive di ogni servizio come l’acqua, la scuola etc. Tra il 1952 e il 1958 sono stati spesi circa 2 miliardi e 700 milioni di lire per munire di attrezzature queste abitazioni, ma attualmente delle 670 case soltanto 260 sono abitate con una certa stabilità. Soltanto uno di tutti i villaggi è effettivamente abitato e funzionante: Piano Cavaliere, che la D.C. utilizza come propaganda del suo regime con frequenti fotografie su certe riviste.
Terzo punto messo in evidenza da Barbera è quello delle scuole per tutti: nei 35 Comuni che aderiscono alla manifestazione gli abitanti sono complessivamente 342.000. Gli analfabeti sono circa 103.000.
Nei prossimi cinque anni è quindi auspicabile un piano atto ad istruire almeno 54.000 persone, per cui sono necessarie 2200 classi di scuole popolari. Nella zona a sua volta il corpo insegnanti è presente nel numero di circa 5000 di cui quasi 4000 sono disoccupati. Il piano per l’istruzione popolare verrebbe quindi ad occupare gli insegnanti disoccupati. Dopo il Barbera sono intervenuti più o meno brevemente Michele MandilloSalvo Riela ed Angelo Ganazzoli; a quest’ultimo si deve un duro e frontale attacco alla mafia. «Non è arrestando Liggio e Panzeca che si combatte la mafia - ha detto - bisogna colpire i colletti duri, cioè le persone che stanno dietro gli esecutori. Solo così possono venir fuori i nomi di uomini politici, di professionisti, di notabili».
Nel pomeriggio di poi, sotto la presidenza di Bruno Zevi, è intervenuto per primo Simone Gatto ribadendo con fermezza la necessità di ristrutturare la Sicilia in Comuni e in comprensori di Comuni, eliminando così le ormai superate province. Sono intervenuti tra gli altri M. Pantaleone e V. Giacalone.
Il 6 di marzo, lunedì, alle 10 circa da Partanna, parte il lungo corteo della marcia della protesta e della speranza per la pace e per lo sviluppo socio-economico della Sicilia occidentale. Guidano la colonna Danilo Dolci, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Lorenzo Barbera ed il piccolo e timido vietnamita VO VAN AI, eroe della resistenza del suo popolo contro i francesi, delicato poeta e sociologo di indiscussa preparazione. Lungo il percorso che da Partanna porta a Castelvetrano, punto di arrivo della prima tappa, alla vistosissima schiera di marciatori si aggiungono gruppi di gente, contadini, operai della valle del Belice. Hanno portato “pane e tumazzu” per fare colazione durante le soste della estenuante marcia. Dai loro volti segnati dalle fatiche del lavoro e dalle lunghe sofferenze traspaiono fermezza e soddisfazione: uno stato d’animo veramente sorprendente per la gente di questa zona che conosce molto da vicino la prepotenza di certi personaggi, il “bavagghiu” alla bocca e la lupara.


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Passaggio della “Marcia” a Partinico. Si nota il cartello portato da Peppino


Attraverso Castelvetrano la colonna conclude la prima tappa alla diga Delia alle 16.
Il giorno successivo, 7 di marzo, martedì, la suggestiva marcia da Castelvetrano raggiunge Menfi, dove i pubblici discorsi di Dolci e di Lucio Lombardo Radice tracciano i programmi e le caratteristiche della manifestazione, auspicando un maggiore benessere per i lavoratori e per i contadini siciliani che lottano per una Sicilia nuova.
Il mercoledì 8 marzo, la colonna arriva a conclusione della terza tappa della marcia, a S. Margherita Belice. L’incontro tra la popolazione della cittadina ed i marciatori avviene in uno stanzone fresco di intonaco posto sul corso principale.
Dopo il solito discorso chiarificatore di Dolci, prende la parola Ernesto Treccani dichiarando con commossa semplicità e con grande chiarezza il suo scopo preciso, che è quello di contribuire con i suoi mezzi alla rinascita ed al risveglio della povera gente di Sicilia e spiegando quale è il senso del lavoro di un pittore, come esso può contribuire attraverso il segno grafico a dare una spinta di vita sociale. È intervenuto quindi Carlo Levi parlando delle sue esperienze compiute nel 1935 nei paesini della Lucania dove egli fu costretto ad abitare per lunghi anni come esiliato politico. Il mondo già espresso nei suoi libri “Cristo si è fermato ad Eboli” e “Le parole sono pietre” è venuto così fuori in un discorso di estrema semplicità.
È intervenuto infine lo scultore palermitano G. Baragli che ha accomunato la sua esperienza di “emigrato” a quella ancor più grave dei contadini presenti in sala che sono stati costretti in questi anni ad espatriare all’estero.
Il giovedì 9 marzo si giunge, nel tardo pomeriggio, a Roccamena.
L’incontro con il pubblico del paese viene interamente dedicato alla pace. Si proietta un documentario sulle atrocità che gli americani compiono nel Vietnam e vengono letti alcuni stralci di reportages e di testimonianze di questa guerra balorda:
«Prendono un Viet e gli fanno mettere le mani sulle guance, poi prendono un filo di ferro e glielo fanno passare attraverso la guancia, fin dentro la bocca, poi fanno passare il filo attraverso l’altra guancia e l’altro mano, poi tirano il filo». La voce è di Vito Cipolla.
Si conclude a Partinico in piazza Garibaldi la quinta e penultima tappa, senza dubbio una delle più dure (30 Km), nella serata del venerdì 10 marzo con un pubblico incontro tra gli organizzatori ed il popolo della cittadina e con la lettura di un messaggio d’adesione e di solidarietà inviato da Roma ai manifestanti dai pittori Renato Guttuso e Corrado Cagli. Altrettanto lunga ed estenuante è l’ultima tappa che da Partinico, attraverso Borgetto, Pioppo e Monreale, conduce i marciatori a Palermo. La colonna, che durante il percorso si era vistosamente infoltita diventa nutritissima alle porte della città. Gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace ed allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti che per il corso Calatafimi scende rumorosamente, e per le grida di protesta e per le richieste, fatte ad alta voce, del diritto alla vita ed alla libertà, verso il centro della città.
In piazza Kalsa alle 17,30 avviene il festosissimo incontro tra i marciatori e la Palermo operaia.
È una grande manifestazione popolare il cui significato si individua in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l’inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell’isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio.
Per primo dalla tribuna interviene D. Dolci leggendo alla cittadinanza la risoluzione del convegno di Partanna e ribadendo in secondo luogo la necessità che la commissione parlamentare antimafia renda pubblici gli atti in suo possesso.
Altri interventi fanno registrare Nino D’Angelo, Sergio Rapisardi, Lorenzo Barbera e Carlo Levi che definisce la manifestazione «un Parlamento democratico, che è sorto come presa di coscienza che rappresenta una realtà unitaria».


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Arrivo e comizio in Piazza Kalsa.
Riconoscibili: Hans Deichmann, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta, Salvo Riela, Lorenzo Barbera, Peppino Impastato, Franco Alasia, Francesco Calcaterra, Orazio De Guilmi - con camicia bianca e braccio ingessato -, in basso lo storico fotografo di cronaca di Scafidi). Peppino è al centro, quasi coperto, tra Ignazio Buttitta e Danilo Dolci.


Conclude la serie di interventi molto drammaticamente Vo Van Ai: «Tutta la mia infanzia e quella della mia generazione non ha conosciuto che la guerra. A tredici anni ho conosciuto la prigione. La prima notte che mi hanno arrestato, nella camera degli interrogatori ho visto coi miei occhi cinque miei compatrioti torturati fino alla morte. Ho visto donne violentate, villaggi incendiati, bambini gettati nel fuoco. Ma tutte queste immagini esprimono soltanto la milionesima parte di quanto avviene attualmente nel Sud Vietnam, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Avete mai visto dei bambini napalmizzati? Avete mai visto madri divenire folli davanti ad atrocità incommensurabili? Immagi¬nate il cielo della Sicilia tutta ad un tratto stracciato da migliaia di aerei della morte, il cui solo rumore dei motori ci rende folli? Immaginate le vostre case e le vostre spiagge divenire d’un tratto basi militari? Ora nel Sud Vietnam una prostituta può nutrire quattro persone (la ruffiana che l’alberga, il protettore, l’uomo che col triciclo le porta il cliente e lei stessa), mentre un operaio specializzato non ha il lavoro per guadagnarsi il suo pane. Ci sono ragazze che scambiano il loro corpo per un pezzo di pane o per una bottiglia di latte. E chi deve ricevere aiuti governativi vede che le sue somme attraversando tante mani burocratiche divengono un niente.
Né la libertà, né democrazia ora esistono nel Sud Vietnam. Chi parla di pace e di neutralismo viene tacciato come comunista, imprigionato ed ucciso.
Affinché una soluzione sia realizzabile, è necessario che tutti i popoli del mondo facciano pressione sui loro governi perché questi all’unanimità domandino:
1) La cessazione immediata di tutti i bombardamenti americani nel Viet¬nam.
2) La cessazione del sostegno americano al governo Ky nel Sud Vietnam.
3) La costituzione al Sud di un governo civile eletto dal popolo, indipendente da tutte le ingerenze straniere, che possa lavorare effettivamente per la pace, negoziando per la cessazione delle ostilità e tendendo alla riunificazione.
Voi avete sentito che i nostri problemi sono anche vostri; come io sento che i vostri problemi sono anche i miei. La soluzione dei problemi fondamentali nel Vietnam, nella Sicilia, in ogni paese del mondo è necessaria non solo al singolo paese ma a ciascuno al mondo. Viva il Vietnam e la Sicilia»Jerry Cooper, cantante negro ha cantato infine uno spiritual.
(Dal giornale “L’Idea” (1967)

Foto di copertina: Danilo Dolci e Peppino Impastato alla “Marcia della protesta e della speranza” (1967). La foto è scattata forse nei pressi di Partinico.

lunedì 20 maggio 2024

Per non dimenticare

 Furono 22 le vittime che 81 anni fa nel quartiere Addolorata persero la vita a seguito di un bombardamento aereo americano il 21 maggio 1943

Domani se ne parlerà al Circolo Universitario e di Cultura di via della Vittoria presentando il libro di Leonardo Balistreri.


A dibattere su quel particolare momento storico il Dott. Giuseppe Bivona e l'autore Dott. Leonardo Balistreri
Il 21 maggio 1943 un bombardiere americano sgancia il suo carico di morte a Menfi in via della Vittoria, nella zona compresa tra il Calvario e la Chiesa Addolorata .

Le vittime furono 22 .
Alongi Antonina 20, Alongi Giuseppe 27, Bonacasa Antonina 22, Bruno Margherita 67, Cusumano Rosa 43, D'alessandria Caterina 65, Giarraputo Giuseppe 22, Giarraputo Leonarda 31, Giarraputo Maria 29, La Sala Francesco 35, Li Petri Liboria 81, Libasci Giovanna 8, Libasci Margherita 1, Libasci Pietro 4, Mandracchia Liboria 15, Marrone Gioacchino 5, Mulè Ninfa 2, Perricone Giuseppe 5, Sutera Leonarda 48, Vetrano Antonina 13, Vetrano Francesca 5, Vetrano Silvestro 11.
Accenno al contesto storico Nel febbraio del 1941 la Deutsches Afrikakorps (DAK), al comando del feldmaresciallo Erwin Rommel viene inviata in Libia, con lo scopo di sostenere le forze italiane messe a dura prova dall'8ª Armata britannica. A supporto del DAK, il Xº Corpo Aereo Tedesco, Xº CAT, si trasferisce in Sicilia già alla fine del 1940 negli aeroporti isolani tra i quali Castelvetrano e Sciacca. E’ lì che i tecnici tedeschi installano le loro apparecchiature radiotelemetriche (radar), sia per l’assistenza al volo degli aerei dell’Asse, che per controllare i movimenti di aerei nemici.
Una di queste apparecchiature viene installata a Menfi. Si trattava, con buona probabilità di FuMG 450 Freya A/N con portata di un raggio di 200 Km. L’antenna con il sistema meccanico di rotazione viene collocata alla periferia ovest di Menfi in fondo alla Via Giuseppe Mirabile, in un punto elevato di circa 100 m s.l.m. In quegli anni, la zona a valle di quella via, a differenza di oggi, era un’ampia area di campagna tale da permettere allo sguardo di scorgere facilmente diversi chilometri di costa.
Oltre all’antenna, il sistema doveva comprendere un generatore elettrico per l’alimentazione dell’apparato radiotelemetrico; un camion cabinato con tutte le apparecchiature necessarie per le emissioni e le decodificazione dei segnali; un bus per il trasporto del personale militare tedesco, nonché parecchi fusti di carburante necessari per alimentare il generatore elettrico della postazione di rilevazione.
I tecnici della postazione, una volta decodificati i segnali, li inviavano, con un cavo elettrico lungo circa 600 m. fissato ai balconi della via Della Vittoria, a degli ufficiali tedeschi, che avevano la loro base a Palazzo Varvaro, vicino la Chiesa del Collegio che sulla torre dell’orologio montava un’antenna radio. Ed è proprio da questa base che i dati venivano recepiti e trasmessi con apparecchiature enigmatiche alle stazioni radio degli aeroporti di Sciacca e Castelvetrano.
L’apparato radiotelemetrico era stato posizionato a Menfi, località equidistante dai due aeroporti e punto strategicamente importante per le attività dell’Asse; infatti il sistema di controllo aereo dei due aeroporti ha contribuito alla riuscita della missione del corpo di spedizione Deutsches Afrikakorps (DAK) che ha raggiunto ed operato in Libia dal febbraio 1941 al marzo 1943.
La buona mimetizzazione dei luoghi faceva ritenere alla popolazione locale, che in quel punto non ci fosse altro che un normale deposito di carburanti con le presenza di mezzi e personale militare per la custodia. Sicuramente i servizi dell’intelligence americana conoscevano l’importanza di quella installazione, tale da essere ritenuta obbiettivo militare da sopprimere.
La perdita del Nord Africa da parte delle truppe dell’Asse, permise agli americani di creare nuove basi aeree in Libia, in Tunisia oltre a quella di Malta, tali da colpire con più facilità le infrastrutture sia civili che militari della Sicilia, nell’imminente preparazione dello Sbarco.
Il 21 maggio del 1943 infatti, dalle 10 alle 10.30 del mattino, l’aeroporto di Sciacca di C.da Schunchipani venne bombardato con decine di morti e feriti; contestualmente nella stessa giornata, all’imbrunire un bombardiere americano sgancia le bombe a Menfi per colpire quella installazione radiotelemetrica.
Ma le bombe esplodevano a circa 300 m dall’obiettivo uccidendo 22 inermi cittadini...


venerdì 17 maggio 2024

Le viticolture, tra utopie e realtà

                                                            NinoSutera

Convivono nell’isola due viticolture una da reddito e una di sussistenza,  in perenne crisi

La “cultura” della vite, in Sicilia, trae origine da conoscenze e saperi antichi e investe aspetti sociali, economici ed ambientali di eccezionale importanza; le specificità territoriali, la natura dei suoli, il clima e le genti, trovano poliedriche espressioni e caratteristiche variegate, contribuendo a costituire una piattaforma produttiva vasta e multiforme. 

Sebbene la presenza della vite sull'isola in forma spontanea fosse precedente alla colonizzazione greca (come testimonia il ritrovamento di viti fossili risalenti al diciassettesimo secolo a.C. nell'agrigentino, a Grotte, e presso Paternò Castello, in provincia di Catania), ed è testimoniata dalla documentazione letteraria e da quella archeologica (ritrovamenti di ceramica micenea appartenenti all’ultimo quarto del sec. XII a.C.) la coltura sistematica della vite risale ai tempi in cui i primi coloni greci giunsero in Sicilia, nell'ottavo secolo avanti Cristo.   Il percorso storico realizzato dalla Sicilia del vino, si riflette sulla composizione varietale del vigneto siciliano, caratterizzato da un ampio e variegato patrimonio ampelografico: dagli autoctoni di antica tradizione caratterizzati ormai da una ricca selezione policlonale, ai vitigni internazionali, che acquisiscono nei territori siciliani caratteri distintivi e di grande personalità. 

Il sistema vitivinicolo siciliano è oggi costituito da un universo di strutture produttive, orientamenti e politiche imprenditoriali assai diversificate:   aziende produttrici di vino costituite da strutture cooperative e cantine, ancora orientate alla produzione di vino sfuso, e alla grande distribuzione, con margini irrisori per i produttori,  mentre emergono nel mercato interno e nel panorama internazionale le imprese  private  dotate di un intenso dinamismo evolutivo, nelle quali organizzazione e strutture produttive sono basate su alta professionalità e su gestioni fortemente orientate al mercato ed al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori sempre più attenti.   
La storia della vitivinicoltura siciliana, e le dinamiche che hanno dapprima posto la Sicilia al centro degli scambi e dei commerci nel Mediterraneo, e successivamente hanno visto alternarsi, periodi floridi, densi di scambi con i diversi popoli europei, a periodi di profonda crisi strutturale, come dimostrano la distillazione obbligatoria e per conto, l'abbandono definitivo della superfice vitata, la vendemmia verde, a queste vanno aggiunte le avversità climatiche e patologiche.
Senza orma di smentita convivono   due viticolture, una da reddito e una di mera sussistenza. La prima non è frutto del caso, ma scaturisce da precise strategie commerciali facilmente deducibili dal documento pubblico  relativo agli importatori e distributori di vino nel mondo,  che se pur riferito al 2012 fornisce un esauriente spaccato della rete commerciale che le aziende private, e qualche cantina sociale lungimirante sono stati capaci di costruire.  La seconda, la viticoltura di crisi,   confinata alle  cooperative, che se pur intercettano grande masse di prodotto, sono pressochè assenti dalla rete mondiale di distribuzione del vino che conta. La crisi è stata ulteriormente aggravata dalle criticità emerse negli ultimi tempi, ecco perchè è facile attraversare territori vitati, e osservare tutta la manifestazione della crisi, in distese di vigneti abbandonati. Certo va anche aggiunto che chi è stato capace di conquistarsi fette del mercato nazionale e  mondiale del vino all'inizio di questo millennio, o forse anche prima, non ha nessuna intenzione di condividerla con nessuno, se a questo aggiungete anche la riduzione dei consumi, ne viene fuori una situazione irreversibile. La realtà è che  la crisi ha radici antiche si,  ma anche ben precise responsabilità. 
L'incapacità di sapersi adeguare ai cambiamenti dei tempi in cui viviamo,  cosa che hanno saputo fare cantine sociali del centro e nord Italia,   i conflitti di interessi  o presunti tali, hanno fatto il resto,  un accurata analisi darebbe  meglio l'idea dell'origine della crisi. Nei piccoli centri agricoli, che stentano a divenire  aree rurali di successo, collettivo e diffuso, difficilmente si riesce ad affrontare un confronto consapevole sui motivi della crisi, si preferisce dividersi sul sesso degli angeli, che assumere e sostenere un processo di autocritica sull'intreccio politico-imprenditoriale, che visto i risultati  non  ha saputo, ne tracciare un percorso lungimirante, ne intravedere scelte profondamente errate, che hanno determinato lo stato di crisi attuale. Spesso le due viticolture, quella da crisi e quella da reddito e di crescita (basterebbe analizzare a caso, due bilanci  quello del 2000 e quello del 2023 di qualsiasi cantina sociale e cantina privata,  i   numeri rendono sempre meglio l'idea)  convivono pacificamente, anzi a volte i motivi della crisi vengono individuati addebitati,  a una imprecisata maledizione divina, più che terrena. 
Insomma nei centri agricoli, che stentano a divenire  aree rurali di successo per tutti, e non solo per qualcuno, ha prevalso e forse prevale ancora oggi, il pensiero dominate, "non disturbate i manovratori". 
Sembrerebbe ispirato e sostenuto, da un filo conduttore che unisce due affermazioni, poco felici, per essere generosi,  la prima recentissima di questi giorni, " per fortuna la siccità ha colpito solo il sud e sopratutto la Sicilia"  a un' altra affermazione, qualcuno ricorderà vagamente, molto datata nel tempo" la migliore uva la vinifichiamo nella nostra cantina, per il resto c'è sempre la cantina sociale........" 
E' fu così, che quello che era stato definito un promettente distretto vitivinicolo d'eccellenza, non c'è più traccia, ma  neanche nelle ricerche del web. E' l'agricoltore? è stato spettatore passivo, alcuni hanno ceduto i  diritti al reimpianto, altri hanno sostituito i vigneti con nuovi impianti di uliveto, a testimonianza del fatto che, si hanno capito, ma ancora una volta non sono stati capaci di ribellarsi!
     Ogni riferimento a cose e fatti è puramente casuale, un racconto  fantasioso di un qualsiasi piccolo centro agricolo, che immerso in un profondo sonno non ha nessuna intenzione di svegliarsi,   ognuno è libero di ambientarlo dove      vuole, ma chi conosce fatti e circostanze, sa dove di preciso.

 

 

 

 

 

 



 

lunedì 6 maggio 2024

Il Miracolo

 

                                       Peppino Bivona

 

Turiddu, il sacrestano della chiesa del Soccorso, pedalava a fatica, affannato,ansimante  lungo la ripida strada che saliva dritta verso la chiesa, scarsamente illuminata da radi lampioni gialli. La luna era quasi piena e sembrava toccare la cima del campanile.

Ormai erano trascorsi tanti anni da quando ragazzino affetto da polio, sua madre l’aveva affidato alla benevolenza di don Saverio il prete della parrocchia, assegnandone i compiti di sacrestano.

Turi, in verità anche se  non molto sveglio, svolgeva con dedizione i compiti assegnati e tutto sommato don Saverio non ebbe mai motivo di lamentarsene.

Tuttavia il nostro Turi da un po' di tempo sembrava mostrare segni di insofferenza verso i fedeli della parrocchia. Aveva un atteggiamento quasi scontroso,rispondeva a tono. Orbene dovete sapere che la prima nicchia appena si entra nella chiesa a destra, quasi opposta al fonte battesimale,era stata collocata la statua della bella e giovane Madonna Azzurra ,dal volto atteggiato ad un mesto sorriso e dagli occhi, ovviamente azzurri, da cui sgorgavano una dolcezza, una pietà che le parole umane non sarebbero mai riuscite a rendere appieno; persino il manto celeste, che scendeva in larghi panneggi le donava una grazia divina. Eppure a giudizio di Turi , la gente  non si curava della vergine,in verità neanche il parroco testimoniava particolare attenzione. Questa indifferenza generalizzata aveva acuito in Turi la sensazione  di una  palese “ingiustizia” quasi un sopruso da parte degli altri santi! Perché si chiedeva Turi ,la Madonna dell’0ro era oggetto di una venerazione,di grande devozione, esaltata quasi fanatica; come se solo Lei fosse in grado di aiutare le anime in pena, di consolare gli afflitti, di operare miracoli!Cosi come se non bastasse il 12 di settembre  di ogni anno per la festa della Madonna dell’Oro si riversavano in piazza migliaia di fedeli! Che cosa cercavano quelle folli di pellegrini? I più ci andavano a implorare un miracolo( che non succedeva mai o quasi mai).Forse attratti dal luccichio di tutto quell’oro che ammantava la Madonna!

 Invece 8 maggio la festa della Madonna Azzurra, i vecchi restavano a casa davanti la televisione o sedevano al bar a giocare a carte e i giovani a bere birra o in discoteca. La piazza restava vuota e muta.

Turiddu da troppe notti dormiva poco e male,ma in una di queste l’immagine della Madonna Azzurra gli era apparsa in sogno; aveva il volto rigato di lacrime e lo guardava dolcemente, muta come a volergli comunicare qualcosa. Il poveretto  di quello sguardo pietoso diede una sua personale chiave di lettura!

Avevamo lasciato Turiddu che pedalava la sua bicicletta e  finalmente raggiunge stremato il portone della Chiesa ,lascia fuori le bicicletta, non prima di sganciare dal manubrio la grossa e pesante  sporta di vimini .Il grosso portone cigolò due volte aprendosi e richiudendosi dietro di lui. Si diresse deciso verso la statua della vergine dove erano rimasti accesi due lumini rossi. Turiddu  si fermava in ascolto, tratteneva il respiro, inquieto, allarmato, con il cuore in tumulto. Appoggiò la borsa  sul gradino della lapide ai piedi della balaustra di marmo rosa,badando che il contenuto non si rovesciasse per terra, tolse i vasi con i fiori e versò il contenuto alla base della statua. Le cipolle ricoperte di una pellicola lucente si sparsero, quasi con ordine. Il sagrestano non perse tempo, si mise a tagliarle a più non posso,non importava se venivano fuori pezzi piccoli e pezzi grandi. Il prodigio ( l’effetto)  si verificò quasi subito: gli occhi della statua si arrossarono e li coprì un velo di lacrime .No, pensava turi, l’apparizione  di quella notte in sogno non l’aveva ingannato!Usava il coltellaccio calandolo sulle cipolle con fendenti rapidi e precisi dall’alto in basso. A Turiddu il cuore gli batteva sempre più forte, all’unisono con i movimenti delle braccia:finché udi distintamente un leggero sospiro, quasi un singhiozzo: levò gli occhi al cielo e sul volto della madonna ora scendeva una grossa lacrima,rotolò dolcemente lungo la guancia,  simile ad una perla:rimase un istante in bilico sull’orlo del mento, poi riprese a rotolare seguendone la curva interna sul collo, sul petto lungo una piega del mantello. Turiddu era riuscito nel suo intento,coprì con un grosso panno  scuro e si precipitò a suonare le campane a stormo e a spalancare le porte della chiesa al sole che si levava radioso. Da ogni parte la gente occorreva, prima i paesani ,poi quelli che venivano da lontano. Si assiepavano in chiesa pressati come sardine per vedere la statua miracolosa della Vergine Azzurra. Mentre fuori si allungava la fila interminabile di fedeli.

Ora  però le lacrime della Madonna “miracolosamente” divennero vere la poverina di fronte a quello spettacolo Pianse!

Pianse per quelli che si buttavano in ginocchio, chi bocconi .Gridavano ,Piangevano. Alcuni esaltati quasi venivano alle mani. Molti si sentivano male ,altri svenivano

La Madonna pianse lacrime amare  vedendo in lontananza un serpente di auto  e di pullman che si snodavano  dalla strada verso la sua Chiesa.

La madonna pianse per i tanti mercanti che industriavano: self-service,bazar,bancarelle traboccanti di souvenir, oggetti dell’artigianato,cartoline, piccole statuine della Madonna.

Pianse per quella distesa di cantieri edili gru che ruotavano nel cielo per costruire alberghi ed ospedali

Pianse per tutti quegli infelici che cercavano una speranza, gli oppressi la libertà, i ciechi la vista gli storpi e gli sciancati , di raddrizzarsi.

Ma cosa avevano capito questi poveretti? Cosa aveva capito nel sogno Tiriddu?

Ora ai piedi della statua ardevano una distesa di ceri,salivano verso il suo viso sottili fili di fumo nerastro acre, tanto da provocare nuove lacrime.

Maria pianse a lungo, nella solitudine della notte, immersa in un mistero  a Lei altrettanto oscuro!

venerdì 3 maggio 2024

Le radici profonde dell’identità


Giuseppe Bivona

Nella cultura popolare contadina i prodotti della terra ,in particolare l’olio,il vino,il formaggio e il pane, erano considerati  “sacri” in quanto espressioni autentici della terra,  portavano inconfondibilmente impressa la traccia del “luogo”  ovvero la qualità essenziale.

Cosi, ad esempio, mangiare i prodotti della terra che si attraversava o si visitava era un rito  quasi sacrale,  perché significava  arricchirsi  dell’energia  del luogo.
La scena ci rimanda alla figura del viandante , curioso ed insaziabile “ricercatore” colui che in ogni terra/luogo incontra ciò che è  sempre uguale e sempre diverso: la natura autentica della vita e  l’emozioni.
I prodotti del luogo si guadagnano nel tempo le loro identità attraverso  un lento processo  di “deposito” ed “ accumulazione” a cui partecipano intere generazioni delle popolazioni locali che costantemente  e diligentemente  hanno saputo  felicemente coniugare il  prodotto  con il processo, in una fusione quasi inscindibile che qualsiasi scellerato tentativo  di decolonizzarlo vanificherebbe i peculiari aspetti qualitativi.
Ma quali segreti meccanismi  legano cosi  strettamente il prodotto alla terra/luogo?
Quali  complessi e complicati processi  biochimici  si intrecciano in un sincronismo  cosi perfetto   da rendere unici , inimitabili , intrasferibili  certi prodotti  alimentari?
Se mi consentite , mi avvarrò di alcuni esempi  tratti  dalla realtà  di un angolo della nostra Sicilia, nella Valle del Belice : il pane nero di Castelvetrano, le olive verdi della Nocellara del Belice, la “vastedda” del Belice.
Il pane nero di Castelvetrano è stato l’orgoglio e vanto delle casalinghe di questo centro agricolo localizzato a pochi passi dalla greca Selinus. Qui per generazioni le “comare” all’interno dei cortili  si scambiavano  il “crescente”  ovvero il lievito madre  da cui prendeva avvio il complesso processo di acidificazione-levitazione. Le farine provenivano dalla molitura  di grani tradizionali , Capeiti, Biancolillo, Timilia  macinate con il mulino di pietra , lentamente  , per non surriscaldare e mantenere integri i “granuli “ di amido. La legna era quasi sempre la fascina proveniente dalla pota delle olive. I tempi  lunghi dell’impasto e una oculata  gestione del forno  ci regalano  questo eccezionale prodotto di questa terra.
L’olivo , varietà Nocellara del Belice, cresce  rigoglioso  in un triangolo  costituito dai  comuni di Partanna, Castelvetrano e Campobello di Mazara.  Qui il sottosuolo è prevalentemente costituito da calcarenite  che assicura alle drupe   una consistenza  tale da sopportare il processo  di conservazione in salamoia ,anche “schiacciata” per più di un anno senza mai perdere la croccantezza della polpa . Ma il suo inconfondibile flavuer  assicurato  da ceppi di batteri  indigeni  che attivandosi  avviano il processo di “ addolcimento “ al naturale   regalandoci  queste prelibate olive da mensa.
L’ allevamento della pecora nella Valle del Belice è abbastanza diffuso  e prevale quasi esclusivamente la razza locale. Ebbene in questi luoghi nei mesi più caldi dell’anno si raggiungono punte di 40-45 C con il frequente rischio  che i formaggi si guastano , perciò i pastori  li  rilavorano  in acqua calda e come per miracolo il formaggio inizia a “filare” e fanno  assumere successivamente la forma  rotondeggiante , come la pagnotta del pane.
Questi pochi esempi  che vi ho brevemente descritto,  servono a comprendere come  nel lungo tempo ,in questi  luoghi, si sono  differenziati e selezionati  ceppi di batteri  che in stretta coevoluzione con le tipiche produzioni locali  hanno permesso  si definire un “unicum”  a cui  restano indissolubilmente legati il luogo, il prodotto e il processo . Le popolazioni locali hanno nel tempo  adattato , modificato  fino all’ottimizzazione i diversi componenti , cercando ,più che stravolgere la natura , di assecondarla, piegarla , giusto quanto fosse necessario , anzi rispettandola  e spesso assicurandosi una sinergia con essa.

Molte elaborazioni di prodotti tradizionali  sono assecondate da un discreto , riservato , rituale , quasi che le popolazioni agricole volessero conciliare il difficile rapporto tra natura e cultura , sapevano che i lenti e complessi processi che coinvolgevano  le “ fermentazioni” subivano  l’influenza di molti fattori per cui era buona norma un rituale ben augurale.  Valga per tutti il segno della croce  delle massaie appena terminato l’impasto della farina  e l’avvio della lievitazione 

mercoledì 1 maggio 2024

Il segreto inconfessabile di Ulisse

 Peppino Bivona


                    Quella sera a cena Ulisse era particolarmente euforico, mangiava di buon gusto, ma soprattutto il suo calice faceva parecchi andirivieni dal capace cratere,colmo di buon vino. Penelope ,che assieme condivideva la cena non si meravigliava più di tanto, ormai erano diverse sere che l’eroe di Troia si attardava a tavola con la scusa di raccontare tutte le sue avventure durate l’assenza durata lunghissimi vent’anni. Tuttavia Penelope donna fedele ma non stupida, in tutto il resoconto Odisseo, c’erano alcuni aspetti della narrazione del marito che non la convincevano. Cosi pensò tra se e se” Vuoi vedere che questa sera sarà la volta buona per convincere Ulisse a chiarire alcuni punti oscuri del suo lungo peregrinare?”. Penelope non perse tempo, allungò una coppa di vino ad Ulisse e con parole amorevoli di moglie fedele gli disse:” Mio caro Ulisse,mio eroe, ormai hai raccontato tutto del tuo lungo viaggio,una storia cosi avventurosa ed appassionante, di cui pochi uomini possono vantarsene. Eppure ci sono alcuni episodi del tuo racconto che non mi convincono, ad esempio la storia di Circe, la maga che tramuta i tuoi compagni in “porci” e la tua lunga permanenza con Calipso. Ebbene, tralasciamo la faccenda di Circe, di cui posso ipotizzare cosa sia avvenuto realmente, malgrado la mia vita trascorsa chiusa tra queste mura, ricordati, che sono una donna e certe “perversioni” di voi maschietti non mi sorprendono. Ma ciò che mi riesce difficile, conoscendoti, come tu possa essere rimasto , otto, dico otto lunghi anni solo in uno scoglio in mezzo al mare ,con una sola donna, ripeto la stessa donna per otto lunghissimi anni!!”

Ulisse anche se aveva bevuto tanto, era ancora in grado di capire bene certe cose e in particolare quella richiesta cosi decisa e perentoria avanzata dalla moglie Penelope. A primo acchito cercò di divagare ,sostenendo che la ninfa lo teneva prigioniero e da quello scoglio in mezzo al mare non sapeva dove andare. Ma Penelope non era donna da accontentarsi di queste mezze spiegazioni e insistendo sulla sua richiesta porse ad Ulisse l’ ennesima coppa di vino ,il quale non perse tempo a svuotarla. L’insistenza di Penelope non dava tregua a povero Ulisse che si sentiva in evidente difficoltà. Finché all’ennesima coppa di vino Ulisse “capitolò”.Ora aveva voglia di parlare,parlare a più non posso, anche se le parole le uscivano dalla bocca spezzettate, impastate , lascicate: “Mia cara Penelope, sposa devota,avrei preferito non entrare in questa vicenda, tenermela come un mio intimo segreto e portarmela nella tomba”.Il suo volto si fece serio ,cercava le parole giuste per raccontare quel singolare episodio della sua vita. Alla fine si rivolse a Penelope quasi intenerito: “ Mia cara,non giudicarmi male, ma devi sapere che Calipso è una divinità marina bellissima,figlia di Zeus a cui però si era rivoltata e per questo condannata a vivere sola su quello scoglio ai confini del mondo. I suoi rapporti sessuali con gli uomini erano rari e occasionali. Da Apollo ebbe un figlio chiamato Imene,Ti dice niente questo nome?” No” disse secco Penelope “Ognuno può chiamare il proprio figlio come meglio piace!”. Ulisse comprese che Penelope,donna intelligente ,su questo terreno faceva fatica a seguirla nel ragionamento.” Insomma cara Penelope” riprese Ulisse “Giove nel condannarla a vivere in quell’isolotto ,le fece,diciamo cosi,un dono particolare, ovvero malgrado i ripetuti rapporti sessuali con uomini ….restava vergine,insomma l’imene si ricomponeva,ossia tornava vergine come se non fosse successo niente!!.” Penelope cominciò a capirci qualcosa,ma non poté frenarsi:” E tu grullo, scimunito, hai insistito tutti questi anni nel vano tentativo di deflorarla?” “Io” riprese Ulisse “ avevo capito che qualcosa non andava, ma la troietta, mi sfotteva! Mi dava dell’incapace , di impotente, di scarsa virilità! Ora tu immagina se la notizia fosse arrivata in Grecia, ma anche nella Magna Grecia, in Sicilia,prendi caso al Circolo Universitario e di Cultura di Menfi,questa onta in bocca ai soci del sodalizio,a quelle malelingue , a quel covo di maldicenti . Dimmi tu come potevo ritornare a casa, cosa sarebbe rimasto della mia fama!!”

Ora il capo di Ulisse si chinò sul tavolo, stanco e amareggiato per la confessione. Penelope in piede, lo guardava dall’alto dondolando la testa: “Guarda un po' come può ridursi un Eroe,conquistatore di città come Troia ,un uomo che ha sfidato gli Dei, i flutti marini ,le tempeste inenarrabili, sfarinarsi,annullarsi divenire “poca cosa” di fronte ad una “pieghetta”!!

Si, per Penelope il suo eroe non sfuggiva alla condanna che accumunava tutti gli uomini. .Cominciano fin da piccoli a competere a chi la fa più lunga il getto della pipì per finire ossessionati, ingombrati dal fallo, dal “pezzo” che si ritrovano fra le gambe. Preoccupati quasi esclusivamente ad ubbidire e rispondere, nell’atto amoroso, ad una funzione “idraulica”: la sola che sembrano conoscere! Poverini non sanno quello che si sono persi!.

Penelope,chiama la vecchia nutrice per essere aiutata a mettere a letto Ulisse: L’eroe dell’antichità.