martedì 7 ottobre 2025

I barbari domestici

 


Peppino Bivona

Belice di Mare, Agosto 2024

 


   Il viandante che attraversa le nostre contrade è attratto  dalla campagna menfitana per un suo particolare  ed irresistibile fascino: interagisce,si articola, si lascia coinvolgere con lo sfondo azzurro del mare africano.

 Un panorama particolare,una scenografia accattivante  che si lascia godere appena si  abbandona l’entroterra  e si scende verso la costa. Un susseguirsi  ininterrotto di  ampi gradoni ovvero  di terrazze marine che leggermente degradano verso  il  mare aperto.

Se invece il viandante percorre la vecchia statale 115 da est ad ovest e viceversa , la scena appare più intrigante. Al susseguirsi di docili colline  che si alternano a fondovalle, si distendono  piccoli  appezzamenti regolari, delimitanti  i carciofeti, i pochi seminativi, qualche uliveto  e le ampie distese di vigneti.

Il mare, come per gioco, vi  appare e poi subito scompare, ad una curva si cela per poi inaspettatamente  svelarsi ,mostrando tutta la sua calma distesa, il suo inconfondibile colore. Questa magia ci viene regalata  grazie  ai dodici kilometri di costa, che sommati  a quelli belicini,  fanno un tratto di campagna-costiera, dal Belice al Carboj , decisamente unico. Il verde dei  vigneti o il giallo dei seminati “sfociano “ nell’azzurro del mare.

Se la campagna mostra il suo fascino,l’agricoltura  di questi luoghi deve fare i conti con le frequenti mareggiate  che, trasportando goccioline di salsedine, non risparmiano  le coltivazioni litoranee. Perciò i contadini  hanno studiato tutta una serie di apprestamenti per difendere le loro coltivazioni. 

Lo chiamavano Peppe di Mare, un curioso soprannome ,perché  non era  un pescatore bensì un contadino , povero quanto e forse più dei marinai del luogo. Possedeva buona parte della collina che sovrastava l’antico borgo marinaro che come un ampio terrazzo, si affacciava nello stupendo mare tra le “ Solette” e la “Conca della regina”.

Suo nonno l’aveva comprata dai principi Pignatelli per pochi denari ,nessuno  aspirava  a possedere quella  “bella” ma sterile collina. Ma al povero Peppe  quella “ bellezza “ non  lo incuriosiva più di tanto, in fondo l’incanto  suscitato  per le attrattive paesaggistiche  è stata  tutta una” invenzione” della modernità. Peppe come suo padre non si lasciava incantare né  distrarre da questo paesaggio mozzafiato, impegnati  come erano,  da mattina a sera,con la schiena curva, a zappettare il grano  in primavera  o a mieterlo nel mese di giugno. Quel grano cresceva a stento,vuoi per la cattiva natura del terreno, prevalentemente argillosa , ma ancor più, per le sferzate di vento carico di salsedine che flagellava la coltura. Così come  la vegetazione costiera per  difendersi cresceva  poco e restava  bassa quasi strisciante, raramente le spighe di grano riuscivano ad arrivare a buon fine . Le buone annate nella vita di Peppe si contavano come le dita della mano !

 All’epoca  c’era un tempo per ogni cosa:  dopo la mietitura e la successiva trebbiatura, i lavori agricoli  si placavano, perciò arrivava il tempo   di “andare al mare” .

La partenza era sempre  animata, movimentata , al vocio chiassoso di noi ragazzi ,si imponeva l’ordine perentorio degli adulti ai quali spettava il compito di caricare sulla mula la brocca  con l’acqua, gli ombrelli grandi e neri, le seggiole basse  e tante altre cose  ritenute di pratica utilità. Dalla vecchia casa posta sulla sommità della collina la “carovana” seguiva il vecchio Peppe che con la sua mula faceva da battistrada giù per lo stretto  viottolo  e si snodava  tra gli asfodeli e le palme nane,  i giunchi,   sospeso tra cielo e mare. Dopo infinite curve, finiva, quasi di sorpresa,a ridosso della  mitica spiaggia delle “ solette”. Un tratto di arenile a forma di  mezzaluna che si estendeva alla fine di una profonda vallata, mentre poco distante, nel mare aperto, una serie di rocce affioranti   piatte e irregolari  si allungavano  di fronte a noi  come tante piccole isolette( o come diceva il vecchio Peppe “solette” ovvero come le  suole delle scarpe).

Questi “luoghi” appartenevano a Peppe e ai   pochi abitanti  della zona.

Era  tutto il suo mondo. ”Suoi” erano le  fredde giornate invernali,  quando  la pioggia insistente e violenta , si abbatteva  inesorabilmente sul suo volto e su quel sottile strato  di  suolo  argilloso  mentre cercava di affidare il seme al terreno.”Suoi”  i venti  infuocati di tramontana che puntualmente arrivavano nei mesi più caldi  ad abbrustolire le poche stoppie. “Suoi” le  raffiche  di scirocco  carichi  di salsedine che danneggiavano irreparabilmente la vegetazione. “Suoi” le fatiche quotidiane ,il sudore per strappare a questa avara terra un misero raccolto.

Così come  “Sue” erano  le prime brezze che nelle giornate più assolate sentiva salire dalla costa,cariche di profumo di mare, sature  di essenze floreali.  “Suoi” erano i   chiarori di luna che scopriva  la mattina presto,una luna piena e rotonda,che  prima di tramontare,   di tuffarsi , si specchiava  nell’argenteo mare .”Suo” era il silenzio , tanto silenzio , interrotto a tratti dal  canto degli uccelli o dal rumoreggiare del mare. “Suo” era questo piccolo  tratto di spiaggia,questo mare….

Tutto questo rappresentava per il vecchio contadino il suo   patrimonio  materiale e spirituale, tutto quanto costituiva la sua unica ricchezza che un giorno avrebbe trasmesso  per intero  ai suoi figli e nipoti.  Questa terra ,diceva il vecchio Peppe ,era  la sua “croce e delizia”.

Se i luoghi hanno un’anima, come dice Hillman, di certo sono sedi di uno spirito  del luogo,il”genius loci”.

Peppe di Mare e i suoi si erano  “guadagnati”  l’anima di questi luoghi  attraverso la lenta ma costante  accumulazione e deposito degli affetti, operata  per decenni  da diverse generazioni che li  l’avevano vissuto, rispettandone la natura, il senso del limite, la sobrietà , l’interiorità ,la forma.

 Peppe possedeva un rapporto intimo e cosciente con quel “luogo”, aveva consolidato una cultura stabile e “sostenibile” che aveva alle spalle una visione conservativa, la sua esistenza era segnata dalla ciclicità, costellata da una intensa vita cerimoniale e rituale. Per Peppe abitare voleva  dire permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi  in chi vive in quel posto, assorbirla in sé, rispettandola e rilasciandola in modo creativo , cosi che l’abitare diviene un atto “sacro”.

 Molto probabilmente gli antenati di Peppe  circondavano di pietre i luoghi che ritenevano sacri per proteggerne lo spirito e  la sua identità : cosi nascevano i templi consacrati alle divinità.

 

 Di certo  questo scenario sembrava non dovesse avere mai fine .

Ma un giorno all’improvviso arrivarono i barbari,  alcuni venivano da lontano  ma i più erano nostrani .Predoni, come uccelli rapaci calarono dall’alto, comprarono tutto, si appropriarono delle “delizie”, il meglio che quei luoghi potessero esprimere. Scavarono, livellarono, costruirono con razionalità strumentale, con praticità riduttiva  e in nome della funzionalità squarciarono l’interiorità dei luoghi.

Ora ne fruiscono per soli pochi mesi estivi,distratti, annoiati :efflorescenze  senza radici!

 I barbari nostrani, non hanno “storia”, sono senza passato né memoria ,sono portatori  di un modello “civilizzato”  che privatizza il panorama che reprime la “bellezza”,  impedisce le emozioni offende il sentimento , prepara il deserto!

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