di Peppino Bivona
C’era una volta, in
verità non molto tempo fa, un luogo “magico” perché contemporaneamente così
lontano ma di fatto vicino il paese, che si animava solo per qualche mese
all’anno, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate: “li arii (le aie)
di donn’Antuninu.
Ora, non si sa bene se a causa del disastro
dello sviluppo o lo sviluppo del disastro, dopo tanti anni, le dimensioni dello
spazio e del tempo si intrecciano confusamente, ordiscono una trama dai
contorni indefiniti, decisamente sfocati dall’euforia dell’espansione
urbanistica, dalla crescita tumultuosa del post-terremoto.
Eppure la memoria
infantile non tradisce, lo scenario è ancora vivido: un vasto appezzamento di
terreno piano, uno dei tanti terrazzi marini che caratterizzano la campagna
menfitana, posto a nord della periferia del nuovo centro abitato
presumibilmente tra via Michelangelo e via Risorgimento.
Come tutti gli anni, ai primi di
giugno la contrada si vivacizzava, era tutto un frenetico preparativo per
ricevere l’attesissima trebbia dei “Rimiti”. Donn’Antuninu armato di picchetti
di legno e”mazzotto” disegnava con geometrica precisione “l’aria” da assegnare
ai tanti contadini che avevano deciso di trebbiare il grano con la “macchina”.
Si, perché In verità
l’orzo, l’avena, le fave e i ceci si continuava a “pesarli” con i muli su
un’area circolare proporzionale all’entità dei “gregni”(covoni) raccolti. Questi erano allocati in una area
“attrezzata” meglio esposta ai venti.
Dopo la mietitura che
durava giorni e giorni sotto un sole caldo e impietoso, dove per ogni chicco di
grano la natura ne imponeva una goccia di sudore, i covoni a basto dei muli
venivano trasportati la mattina presto nelle” arii” dove con esperta sapienza
si sistemavano a forma di tronco di piramide(timogne) lungo dei percorsi
ortogonali tali da simulare il centro abitato.
Il protagonista unico
di questi giorni era “La matinata “, ovvero l’inizio dei lavori da eseguirsi
immancabilmente all’alba, con una suddivisione stupefacente del chiarore
mattutino: le sette albe!. Appena “spaccava” la prima luce del sole, prendeva
il via il lavoro dello “strauliari” (trasporto) perché le spighe rese plastiche
dall’umidità della notte non si rompessero o/e perdessero per strada. A quel
tempo il valore delle cose era commisurato alla fatica necessaria a produrle!
“Li gregni” sistemati
nelle “timogne” restavano a “riposare” per giorni in attesa del turno, ma la
sosta non era inutile, diveniva una tappa quasi obbligata, una esigenza
fisiologica, perché si potesse consentire ai tanti minerali, in particolare al
silicio, di migrare dal lungo stelo fino alle cariossidi. Strano che possa
sembrarvi ma dopo l’introduzione delle mietitrebbiatrici alcuni mulini e
panificatori ne domandavano la provenienza.
L’avvio della
trebbiatura non avveniva prima delle ore 9 o 10, il caldo doveva svelare il seme
spogliarlo dalle tuniche della pula che amabilmente lo proteggevano evitando di
rischiare di finire in mezzo alla paglia.
Si, la paglia questa inseparabile compagna
delle cariossidi, a quei tempi aveva una sua dignità, una rispettabilità
economica. Certo la maggiore attenzione era riserbata al grano, ma la paglia,
la lunghezza dei suoi steli, naturalmente vuoti, resa appetibile dalle
moltitudini di foglioline ascellari doveva alimentare l’asino e il mulo senza i
quali l’attività agricola non sarebbe stata possibile.
I grani coltivati
erano tanti spesso miscelati tra loro a caso, senza rispettare i limiti imposti
dalla “purezza”, così come oggi prescritti dalle attuali norme legislative.
Dominavano il Senatore Cappelli, dal caratteristico colore
nero delle reste, il Bidi alto svettante,Russello,Timilia, Perciasacchi e il nuovo arrivato Capeiti.
L’avvio delle
trebbiatura era preceduto dall’accensione del vecchio, massiccio “Landini” a
cui veniva posizionata in basso alla testata, la fiamma alimentata delle prime
bombole a gas . Una volta riscaldata, due robusti operai a mano giravano la
puleggia fino a quando non si sarebbe avviato il motore con il suo
inconfondibile monotono rumore. Le ruote
del Landini erano dentate somiglianti a quelli di un pescecane, affondavano
saldamente i rebbi nel terreno consentendo a due lunghe tese e robuste cinghia
di trasmettere il “moto” e procedere alla trebbiatura ovvero la rottura delle
spighe, alla separazione dalla pula, fino alla cernita del grano che usciva da
una piccola bocca per riversarsi in un ambio contenitore quadrato di legno. La
paglia raccolta posteriormente veniva imballata, squadrata in grossi porzioni a
forma parallelepipedo, tenuta insieme da robusti fili di ferro.
L’aria, tutt’intorno ci avvolgeva, venivamo
immersi in una strana foschia, sentivi uno strano odore: di polvere, di pula,
di grano…di umanità
La Guerra era finita
da alcuni anni, ma le tensioni sociali non si placavano. La “metadaria”dominava
nei contratti che regolavano i rapporti
tra impresa e proprietà. Il prezzo del grano scendeva ogni anno, i contadini erano
sempre più sfiduciati, qualcuno più intraprendente proponeva di impiantare la
vigna , ora grazie all’acqua del Consorzio si poteva produrre uva in gran
quantità e venderla a commercianti del marsalese.
Donn’Antuninu
acoltava con aria perplessa e scuoteva la testa, finché spazientito si rivolse
a mio padre e sbottò tutto di un fiato: “ Ora tu, Fili,
mi devi diri, quannu li picciliddi chiancinu, pichì hannu fami , chi ci duni tu,
na fedda di pani o un biccheri di vinu? (Se i bambini piangono per la fame, cosa
gli dai una fetta di pane o un bicchiere di vino!?)
Ebbene,caro
donn’Antuninu, oggi per fortuna i nostri
figli non piangono più per fame, se li vedesse sono coloriti e floridi , in
carne(anche un po’ troppo) , ma in questo mezzo secolo e più sono successe tante cose che Lei neanche
lontanamente può immaginare, Le posso solo dire che oggi ho seri dubbi se dare una fetta di “questo
“pane ai miei figli! Si, debbo confessarlo: non so di preciso come lo fanno,
con quali farine, con che tipo di grano e dove viene coltivato. Lo stesso vale
per la pasta, la pizza, le torte, i biscotti…Il progresso ci ha sedotto e poi
…abbandonato. Ci siamo lasciati incantare dalle sirene della “modernità” dalla
velocità, la produttività. Abbiamo sovvertito i cicli naturali, dalle rotazioni
delle colture, alla molitura del grano, dalla lievitazione del pane
all’essicazione delle paste. Insomma con un colpo di spugna abbiamo cancellato
la “lentezza”. Ma con una perfetta simmetria ci ammaliamo altrettanto
velocemente di malattie nuove, strane, allergie, intolleranze, stati
infiammatori cronici delle mucose intestinali, di cui solo ora gli scienziati
sono riusciti a stabilire precisi nessi di causa-effetto.
Cambiamo la realtà
che ci circonda, ne mutiamo radicalmente i connotati tali da renderli irriconoscibili,
ma non valutiamo e soppesiamo intelligentemente le pesanti conseguenze.
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