martedì 27 novembre 2018

Biologico, non tutti sanno che....


Ormai il termine bio o Bio, sembra essere sulla bocca di tutti  o  quasi,  Se ci fate caso, non si utilizza più il termine biologico, ma bio. pare infatti che fa più breccia nell'ignaro consumatore 

Non tutti sanno  che... .. .. .. ...

Pubblichiamo la riflessione di Elena Cattaneo, che condividiamo in toto.
  Farmacologa, biologa e senatrice italiana. Nota per i suoi studi sulla malattia di Huntington e per le sue ricerche sulle cellule staminali, è stata nominata senatrice a vita il 30 agosto 2013.

L'agricoltura biologica fa uso di pesticidi. E i campi coltivati a biologico possono inquinare il terreno con un metallo pesante più tossico del glifosato. Strano, ma vero! Credo sia davvero importante squarciare quel velo di ignoranza che ci fa annuire acriticamente agli slogan "No ai pesticidi. Sì al biologico" e aderire a iniziative "contro l'agricoltura chimica" (tout court) e per "la salute della terra e dell'uomo". Iniziative che spesso finiscono col chiedere allo Stato, cioè noi, specifiche (ulteriori) risorse.
Oggi la narrazione del biologico teorizza, godendo di sponsor istituzionali, un ritorno al passato a "pesticidi zero". Ma forse non tutti sanno che la stessa agricoltura biologica, quella del "ritorno alla natura", di pesticidi ne fa un uso sistematico, elencandoli in appositi disciplinari. Essi, infatti, sono "microrganismi o sostanze chimiche (naturali e prodotte industrialmente) utilizzati in agricoltura per eliminare tutto ciò che danneggia le piante coltivate". Lo ricorda l'Istituto Superiore di Sanità.

La contrapposizione tra pesticidi (o per meglio dire agrofarmaci) di sintesi e non di sintesi è vincente in termini di marketing, ma, in termini di sostenibilità, non è funzionale a evitare un maggior inquinamento. Il rame, ad esempio, uno dei più antichi, utilizzati e "naturali" pesticidi bio della storia, è un metallo pesante che inquina molto di più ed è molto più dannoso per uomini e animali di alcuni prodotti di sintesi con funzioni analoghe. Le evidenze scientifiche, infatti, ne dimostrano tossicità e persistenza nel suolo per tempi indefiniti.

Il tanto demonizzato erbicida glifosato, ad esempio, ha un profilo tossicologico meno pericoloso.

L'effetto del rame è anche poco mirato: la pianta da trattare deve esserne ben ricoperta, quindi ne serve di più rispetto a fitofarmaci di sintesi più specifici; inoltre, essendo facilmente dilavato da piogge o rugiada, va riapplicato spesso, col risultato di aumentare l'inquinamento. Sia chiaro, il rame è usato anche nell'agricoltura integrata che, però, ne fa un uso più contenuto avendo a disposizione prodotti tecnologicamente più avanzati per sostituirlo. In quella biologica non esiste alternativa.

Nonostante l'uso di pesticidi, l'agricoltura biologica ha una resa molto bassa. Per mais, frumento, riso e soia, le quattro commodities che nutrono il mondo, il biologico produce fino al 50% in meno. Per portare solo prodotti bio sulle nostre tavole, e realizzare così il "lieto fine" della favola del biologico, avremmo bisogno del doppio della terra da coltivare, sottraendola a foreste e praterie. Ma questo significa anche il quadruplo di emissioni di gas serra per effetto dei dissodamenti generalizzati.

Quindi: l'agricoltura biologica, per cui il consumatore finale è disposto a pagare di più credendo di contribuire alla sostenibilità, usa anche pesticidi che inquinano e permangono nel terreno. Ipotizzare una massiccia conversione delle terre a biologico, per aumentare l'attuale 15,4% delle superfici coltivate in Italia, comporterebbe un consumo di suolo enormemente maggiore per avere rese paragonabili alle attuali. Senza contare che circa la metà dei terreni certificati bio (e riceventi sussidi come tali), ad oggi, è costituita da prati e pascoli nella cui gestione il biologico non si differenzia dal convenzionale. Davvero questo è il modello del futuro da sovvenzionare?

L'alternativa c'è ed è già "in campo": è l'agricoltura integrata, degli imprenditori che innovano, che integra tutti gli strumenti di protezione delle colture (agronomici, fisici, biologici, chimici) secondo uno schema razionale per produrre quanto più possibile con le risorse disponibili usate nel modo più efficiente possibile. Un approccio tanto ragionevole e razionale da sembrare, di questi tempi, un'eresia.

giovedì 15 novembre 2018

Diario dell'ulivo saraceno


                           
              
                       Peppino Bivona con l’ulivo ha un rapporto antico. Meglio ancora è antico il suo rapporto con la terra tanto da averne fatto il suo lavoro, la sua professione. Nessuno come lui conosce i mille segreti degli ulivi, delle drupe, dell’olio e di come giudicarlo. Ed a lui ricorro sempre quando mille dubbi mi assalgono su questa pianta misteriosa, strana, bizzarra. Biennale, ma tanto antica e sacra da accreditarne l’invenzione ad una divinità, Atena la saggia. Confesso di aver conosciuto tardi sia la pianta che l’olio d’oliva. In casa nostra, cittadini palermitani d’antan, si cucinava al burro oppure con lo strutto.
 Che chiamavamo “saìmi”, come giustamente si dice nella nostra lingua. L’olio d’oliva nostrano ci arrivava una volta l’anno dalle campagne di Castelvetrano o Carini in otri puzzolentissimi da cui si riversava in una enorme giara. Recipiente di un bel colore nocciola lucido, panciuto ed elegante, che mi riportava sempre a Pirandello e al suo Don Lollò Zirafa in lite con Zi’ Dima. Ricordo che ogni anno c’era la solita disputa su quanti “cafisi” occorressero per i dodici mesi successivi. La disputa non era peregrina in quanto il “cafisu”, da quanto ne dedussi, era più che una unità di misura per l’olio, un concetto astratto, quasi filosofico, giacché quello palermitano, pari a 16 litri, raramente coincideva con quello di altri paesi o province siciliane. E da qui discussioni a non finire… Quell’olio paesano si usava soltanto per preparare salse e per friggere il pesce tre volte a settimana come era d’uso, e i tocchetti di melanzana per le solenni caponate estive. Pure come lubrificante generico e medicina per “ingorghi di stomaco”. Bastava attaccarsi alla bottiglia fino a quando qualcuno decideva che bastasse. Per le cotolette panate si usava una padella in ferro, sempre la stessa, in cui si mettevano sempre un paio di cucchiai di strutto; per le arancine era previsto un particolare tegamino che ne conteneva tre alla volta in abbondante strutto che ribollendo le ricopriva. Poi si mettevano a scolare sulla “carta paglia” per quelle due ore circa che secondo tradizione servivano a portarle alla temperatura ritenuta “giusta” per essere mangiate. Perché ci insegnavano fin da piccoli che le arancine vanno mangiate tiepide e mai calde. Lo stesso pentolino veniva usato per la frittura delle “scorze” dei cannoli. Che si facevano in casa. L’olio d’oliva “buono” della mia infanzia fu in pratica soltanto quello che si usava a crudo sulle insalate e che i miei nonni facevano venire dalla Toscana o dalla Liguria tramite un tortuoso giro di amicizie e parentele. Pure questo arrivava una volta l’anno, spedito per ferrovia, e contenuto in eleganti “buattoni” di latta con belle immagini a colori: Garibaldi, Mazzini, Cavour e re Vittorio Emanuele “Padri della Patria”, oppure le eroiche gesta dei Garibaldini, gli Alpini con le montagne innevate sullo sfondo, i Bersaglieri a Porta Pia, Napoli e il Vesuvio, la basilica di san Pietro, il Duomo di Milano… anche se quell’olio veniva da regioni che non c’entravano per nulla con le belle illustrazioni. Che capimmo tutti dovevano portare in giro per il mondo, assieme all’olio, il buon nome della nostra Patria. Che si scriveva sempre con la maiuscola. A quell’epoca. Oltre alla bellezza artistica/promozionale patriottarda del contenitore, quel liquido limpidissimo e giallino aveva il pregio di non puzzare, e l’altro non trascurabile di non “rovinare lo stomaco”, come dicevano i grandi, a causa dell’eccessiva acidità. Naturalmente le cameriere, tutte di estrazione contadina, lo giudicavano “acqua di cannolu” per la leggerezza e mancanza di odore forte. Capace di rovinare pure il sapore di una bella zuppa di ceci o di lenticchie come dicevano i grandi.
Quella delizia settentrionale aveva il pregio di costare tanto e doveva servire esclusivamente sulla pasta, per le insalate, le verdure assassunate e qualche volta, “un filino appena appena”, sul pesce lesso o infornato. La parsimonia era d’obbligo. Poi venne la guerra e pure la nostra numerosa famiglia fu costretta a “sfollare” come si diceva. In pratica finimmo tutti quanti nelle campagne attorno alla città, ospiti di parenti e amici per sfuggire ai bombardamenti che si facevano ogni giorno più intensi. Per noi bambini fu una sorta di liberazione dalla scuola, dal “vestito buono”, dalle scarpe che “guai se ci giochi a pallone” e pure dal pettine giacché fummo tosati come misura precauzionale contro i pidocchi. Nuovi spazi per giocare, nuove amicizie e naturalmente nuove regole alimentari. La palermitanissima mafalda con burro e marmellata fu sostituita da una bella fetta di pane casereccio con un filo d’olio sopra. Sì, in pratica quell’olio puzzolentissimo e acido finì per accompagnare le nostre merende pomeridiane. Non ci facemmo caso perché la fame era tanta a quell’età e non andavamo per il sottile. Scoprimmo, con le gioie di une fetta di pane con l’olio, anche la campagna: asini e muli, il latte appena munto da vacche o capre, insalate di gusto nuovo raccolte in giro per i viottoli e pure la fatica dei vecchi contadini rimasti a casa mentre tutti gli uomini validi erano sotto le armi. Erano loro che lavoravano le campagne, si occupavano di greggi, facevano il cacio e ci raccontavano pure tante belle storie. Fu allora che conobbi gli ulivi. Solenni enormi, con tronchi ritorti, sofferenti, pieni di cicatrici. E quelle foglie di un colore sempre cangiante, belle da vedere soprattutto quando il vento le smuoveva. Era fantastico salirci sopra e guardare il mondo dall’alto, come quando gli uomini ci montavano con lunghe canne per buttare giù le olive mature. Gli stessi che ci portarono con loro all’antu e cominciammo a capire cosa significa arare, seminare, mietere, trebbiare, cutuliare le olive, raccoglierle da terra una per una, andare al palmento e scoprire i “fiscoli”, le macine e quelle feste incredibili a fine dei lavori. Caro Peppino, ho conosciuto così il piacere del pane appena sfornato, dell’olio appena spremuto, del vino novello e di quella gioia che le ragazze sapevano esprimere per un buon raccolto. E poi quel continuo invocare i santi, Madonne e Padreterno per dare una mano e alleviare la loro fatica. Diventammo adulti in poco tempo grazie e quella gente che ci accolse con affetto insegnandoci tra le altre mille cose, ad amare la terra. Ancora oggi, quando mangio una fetta di pane casereccio caldo con un filo d’olio sopra ritorno a quelle storie, a quella cultura che tu sei ancora in grado di trasmettere con le tue conoscenze, con il tuo amore. Quelle che leggerete sono come pagine di un romanzo, intriganti, ricche di notizie per nulla scontate. Sono state scritte perché non si dimentichi, per lasciare agli altri il proprio sapere, le proprie emozioni, le proprie scoperte. Per tutto questo, grazie.
Con affetto
Gaetano Basile

giovedì 8 novembre 2018

Il Campo Carboj compie 60 anni

nucciatornatore

L’Azienda Sperimentale compie 60 anni dalla sua
costituzione, abbiamo incontrato Nino Sutera 
Diploma di Laurea in Scienze  e Tecnologie Agrarie,     Funzionario Direttivo della Regione Siciliana,   “Formatore Consulente” del Formez,    Componente del Gruppo di Lavoro PAN,    Iscritto all’Albo regionale dei Formatori interni presso il Dipartimento della Funzione Pubblica della Regione Sicilia   -  Ideologo dei Borghi GeniusLoci De.Co.  Ideologo   Percorso informativo di sviluppo locale “Un Villaggio di idee” Coordinatore  del  G.I.T (Gruppi d’interesse territoriale del MIUR)   e tra i ideologi della Libera Università Rurale, Divulgatore Agricolo dell’Assessorato Agricoltura,  consulente del PAN fitofarmaci e formatore,   coordinatore all’Osservatorio di Neoruralità e Responsabile dell’Azienda Sperimentale Campo Carboj,   dell’Ente di Sviluppo Agricolo, autore di diverse pubblicazioni e relatore in oltre 300 eventi divulgativi, blogger.


Ma  il tempo per fare tutte queste attività dove lo trova?
Guardi che abbiamo fatto una sintesi di attività e iniziative spalmate nel tempo, poi  quando uno vuole il tempo lo trova, sempre.
Lei cura anche   il blog   con oltre 5000 contatti al mese, che è un risultato straordinario.  E’ sorpreso?
Non lo so se è un risultato straordinario, so che c’è un grande vuoto da colmare, e sinceramente non pensoo che  il blog da solo può colmare un deficit  di investimenti immateriali.
Veda, è  ormai certo che le aree d'Europa  che investono in risorse immateriali, sconoscono lo stato di crisi del settore agroalimentare. Di contro, le regioni che non credono che lo sviluppo dipenda dagli elementi dell'economia della conoscenza, ogni stagione è buona per chiedere lo stato di crisi. Non è un caso, ma la realtà dei fatti.
Nel Veneto, per esempio ritengono che siano strumenti inderogabili e indispensabili per la crescita economica, in Sicilia mentre (  non è una critica alla governace attuale) ormai da almeno un decennio, anno più anno meno,  non c’è più traccia di attività  di  divulgazione e di informazione. La frequenza di visitatori del blog forse indica, che c’è una grande richiesta di informazioni tematiche.
 Recentemente avete avviato anche un progetto sperimentale  di Agricoltura Sociale, di cosa si tratta?
L’agricoltura sociale comprende una pluralità di esperienze non riconducibili ad un modello unitario, quanto al tipo di organizzazione, di attività svolta, di destinatari, di fonti di finanziamento, ma accomunate dalla caratteristica di integrare nell’attività agricola attività di carattere sociosanitario, educativo, di formazione e inserimento lavorativo, di ricreazione, diretti in particolare a fasce di popolazione svantaggiate o a rischio di marginalizzazione. Abbiamo avviato un progetto di formazione e inserimento lavorativo,  orientate all’occupazione di soggetti a bassa contrattualità  , migranti, rifugiati;

Da qualche mese, coordina l'Osservatorio di NeoRuralità, ecco ci parli della NeoRuralità?
NeoRurale  è    un modo per descrivere, chi torna alla terra fondendo tradizione ed innovazione. Chi vede nella NeoRuralità una concreta opportunità per se stessi, le proprie famiglie e le comunità locali, un processo culturale condiviso  di valenza diffusa.
Il modello di sviluppo seguito da Neorurale è frutto di una profonda innovazione culturale nelle zone rurali. Un cambiamento di prospettiva che non prevede lo sviluppo di nuove tecnologie, ma utilizza in modo creativo quelle esistenti
Un Ente pubblico ha il diritto-dovere di osservare il fenomeno che già è una realtà in tutt'europa.
Ecco allora che  neorualità e  neoagricoltura contadina  stanno introducendo ‘nuovi/antichi codici’ di produzione di qualità locale e ambientale in rapporto a nuove forme sociali di scambio diretto con l’autorganizzazione del consumo.

Che cos'è l'Azienda sperimentale  Campo Carboj?
 La Cassa per il Mezzogiorno attivò,  negli anni '50, il Programma Sperimentale Irriguo a supporto del suo vasto programma di intervento che si sviluppa presso un'apposita rete di Campi Sperimentali originando da un nucleo iniziale di prove attivate nel 1952 dall'Ente per l'Irrigazione in Puglia e Lucania in apposite aziende agricole forzate a svolgere un doppio ruolo sperimentale-dimostrativo.Tali iniziative si inquadravano in una generale tendenza dei grandi enti pubblici italiani, impegnati in massicci e pressanti programmi territoriali di attrezzamento irriguo, a provvedere in proprio alla attivazione delle ricerche sui parametri tecnico-agronomici da tenere a base delle progettazioni nel frattempo avviate.
 Con quali obiettivi?
L’obiettivo era  di organizzare programmi di attività dimostrative, gestendo dei corsi di istruzione professionale per maestranze irrigue volti alla formazione e qualificazione di tecnici, coltivatori diretti, lavoratori agricoli e, comunque, operatori di settore che, nel territorio, iniziavano ad utilizzare la pratica dell’irrigazione, che negli anni si è resa indispensabile per lo sviluppo dell’agricoltura del mezzogiorno.  

Una stagione  definitivamente archiviata, che ha  avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo agricolo del territorio.

Oggi è un Centro pubblico di raccolta della Biodiversità. Un museo a cielo aperto dove vengono custodite oltre 150 tra cultivar, popolazioni e accessioni del germoplasma olivicolo siciliano e 40 tra pesche e pere


Và detto che è necessario rideterminare  la mission e la vision nei tempi in cui viviamo, con le nuove esigenze del mondo agricolo, che nel frattempo e diventato mondo rurale. 
 Iniziando  dalla denominazione  del    Campo Carboj (ormai disueto)  I ragazzini delle scuole elementari, che visitano il campo, spesso super informati, per via dei telefonini,  per esempio si chiedono, ma se l’Azienda si trova a pochi chilometri dal fiume Belice,  perché si chiama Carboj, che è il nome di un altro fiume che dista oltre 20 Km dal campo?
Non è chiaramente  una questione di nome, ma  è' necessaria una   rivisitazione complessiva delle strategie. Il gruppo di progettazione per esempio,  è impegnato a utilizzare tutte le opportunità e le risorse provenienti dai bandi pubblici,  senza incidere sul bilancio dell'Ente, traguardate anche  alla programmazione 2020. 
Questo è stato il momento della semina, chiaramente seguirà anche quello del raccolto.



giovedì 1 novembre 2018

Solo un spiacevole ....sproloquio!!



Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza.
(Daniel J. Boorstin)





               In questa festa di turno, a giudicare dal resoconto fattomi da Nicola, circa la serata letteraria svoltasi domenica scorsa, presso la B., un tale gioacchino... il quale forte del suo rigore storico non risparmia a Gaetano Basile una puntuale quanto pungente precisazione: il nostro comune non poteva ospitare alcun ebreo cacciato dalla Spagna nella seconda metà del quattrocento per la semplice ragione che Menfi …non era stata ancora fondata! 
















Restiamo sorpresi allorquando il nostro Gaetano nella sua disamina circa la venuta degli ebrei in Sicilia ed in particolar modo in provincia di Agrigento si lasci scappare …Menfi. 

Ora bisogna essere dei pedanti pizzicagnoli, per svalutare una bellissima analisi storica-antropologica regalataci dal Basile!

A Menfi gli ebrei ci sono stati ed io sono onorato di esserne amico degli attuali pronipoti: Giuseppe e Manfredi. Trattasi della famiglia Barbera che a metà dell’ottocento con il capostipite Renzo lasciarono Menfi per trasferirsi a Palermo dove continuarono ( e continuano) a commercializzare olio!


Ma non lasciamoci distrarre da queste meschine precisazioni, lasciamoli all’attenzione di gioacchino .... ! 


Invece abbandoniamoci alle seducenti argomentazioni, quasi delle disquisizioni dotti e sottili di Gaetano Basile circa il senso ed il valore della “festa” dei morti .Il nostro attento studioso e ricercatore del ricco patrimonio culturale non risparmia feroci giudizi circa la malusanza che da qualche decennio imperversa nella nostra isola ovvero l’introduzione di mode e superstizioni importate dall’America .Ma come? Si chiede indignato Gaetano, Noi che abbiamo elaborato “il lutto” per i morti, la nostra millenaria civiltà che fin dai greci aveva esorcizzare la morte, fino a definire gli umani “mortali” ci siamo ridotti a….. spaventapasseri!

Gaetano si accalora per tanta negligenza, non sa darsi spiegazione per la prevalenza di cosi troppa stupidità che ormai ha colonizzato le nostre menti e insipidito gli animi 

Domani è il giorno dei defunti ,proverò a ritualizzare la “festa” dei morti ricucendo lo strappo con il mio nipotino Andrea

PeppinoBivona 


Caro Peppino,

ti ringrazio. Circa la presenza “nel territorio saccense” (allora si parlava di territori più che di paesi) di comunità ebraiche è frutto degli studi del Prof. Imbornone. Fu lui a farmi scoprire “le case degli ebrei” a cui feci cenno. Non posso chiamarlo a testimone perché è venuto a mancare da diversi anni, ma restano i suoi studi preziosissimi.

Con un caro abbraccio

GaetanoBasile 


Caro Peppino, che dire. Io ho partecipato al Al Talk Show di sabato mirabilmente condotto dalla Dott.ssa Antonella Giovinco, dove hanno preso parte il Sindaco della Città Marilena Mauceri, l'Assessore Saverio Ardizzone, Gaetano Basile, Nicola Cacioppo, Claudia Nuccio, Nino Alesi,  
  una vera serata culturale molto apprezzata da una   platea attenta e qualificata 
 Domenica non ero presente.
   Che è successo?
Forse si è trattato di un semplice scivolone, un  sproloquio,insomma niente di personale. 
Del resto non merita nessun cenno  degno di cronaca, se pur il post è stato letto da 1389 utenti alla data odierna. Una cosa è certa, Gaetano Basile relatore di lungo corso  è stato invitato dall'Amministrazione Comunale, quindi ospite.     
Sono certo, o quando meno auspico, che  il soggetto in questione  saprà porre rimedio, nei modi e nelle forme più consone.

NinoSutera



P.S. ogni riferimento a fatti e cose è puramente casuale