Peppino Bivona con l’ulivo ha un
rapporto antico. Meglio ancora è antico il suo rapporto con la terra tanto da
averne fatto il suo lavoro, la sua professione. Nessuno come lui conosce i
mille segreti degli ulivi, delle drupe, dell’olio e di come giudicarlo. Ed a
lui ricorro sempre quando mille dubbi mi assalgono su questa pianta misteriosa,
strana, bizzarra. Biennale, ma tanto antica e sacra da accreditarne
l’invenzione ad una divinità, Atena la saggia. Confesso di aver conosciuto
tardi sia la pianta che l’olio d’oliva. In casa nostra, cittadini palermitani
d’antan, si cucinava al burro oppure con lo strutto.
Che chiamavamo “saìmi”,
come giustamente si dice nella nostra lingua. L’olio d’oliva nostrano ci
arrivava una volta l’anno dalle campagne di Castelvetrano o Carini in otri
puzzolentissimi da cui si riversava in una enorme giara. Recipiente di un bel
colore nocciola lucido, panciuto ed elegante, che mi riportava sempre a
Pirandello e al suo Don Lollò Zirafa in lite con Zi’ Dima. Ricordo che ogni
anno c’era la solita disputa su quanti “cafisi” occorressero per i dodici mesi
successivi. La disputa non era peregrina in quanto il “cafisu”, da quanto ne
dedussi, era più che una unità di misura per l’olio, un concetto astratto,
quasi filosofico, giacché quello palermitano, pari a 16 litri, raramente
coincideva con quello di altri paesi o province siciliane. E da qui discussioni
a non finire… Quell’olio paesano si usava soltanto per preparare salse e per
friggere il pesce tre volte a settimana come era d’uso, e i tocchetti di
melanzana per le solenni caponate estive. Pure come lubrificante generico e
medicina per “ingorghi di stomaco”. Bastava attaccarsi alla bottiglia fino a
quando qualcuno decideva che bastasse. Per le cotolette panate si usava una
padella in ferro, sempre la stessa, in cui si mettevano sempre un paio di
cucchiai di strutto; per le arancine era previsto un particolare tegamino che
ne conteneva tre alla volta in abbondante strutto che ribollendo le ricopriva.
Poi si mettevano a scolare sulla “carta paglia” per quelle due ore circa che
secondo tradizione servivano a portarle alla temperatura ritenuta “giusta” per
essere mangiate. Perché ci insegnavano fin da piccoli che le arancine vanno
mangiate tiepide e mai calde. Lo stesso pentolino veniva usato per la frittura
delle “scorze” dei cannoli. Che si facevano in casa. L’olio d’oliva “buono”
della mia infanzia fu in pratica soltanto quello che si usava a crudo sulle
insalate e che i miei nonni facevano venire dalla Toscana o dalla Liguria
tramite un tortuoso giro di amicizie e parentele. Pure questo arrivava una
volta l’anno, spedito per ferrovia, e contenuto in eleganti “buattoni” di latta
con belle immagini a colori: Garibaldi, Mazzini, Cavour e re Vittorio Emanuele
“Padri della Patria”, oppure le eroiche gesta dei Garibaldini, gli Alpini con
le montagne innevate sullo sfondo, i Bersaglieri a Porta Pia, Napoli e il
Vesuvio, la basilica di san Pietro, il Duomo di Milano… anche se quell’olio
veniva da regioni che non c’entravano per nulla con le belle illustrazioni. Che
capimmo tutti dovevano portare in giro per il mondo, assieme all’olio, il buon
nome della nostra Patria. Che si scriveva sempre con la maiuscola. A
quell’epoca. Oltre alla bellezza artistica/promozionale patriottarda del
contenitore, quel liquido limpidissimo e giallino aveva il pregio di non
puzzare, e l’altro non trascurabile di non “rovinare lo stomaco”, come dicevano
i grandi, a causa dell’eccessiva acidità. Naturalmente le cameriere, tutte di
estrazione contadina, lo giudicavano “acqua di cannolu” per la leggerezza e
mancanza di odore forte. Capace di rovinare pure il sapore di una bella zuppa
di ceci o di lenticchie come dicevano i grandi.
Quella delizia settentrionale
aveva il pregio di costare tanto e doveva servire esclusivamente sulla pasta,
per le insalate, le verdure assassunate e qualche volta, “un filino appena
appena”, sul pesce lesso o infornato. La parsimonia era d’obbligo. Poi venne la
guerra e pure la nostra numerosa famiglia fu costretta a “sfollare” come si
diceva. In pratica finimmo tutti quanti nelle campagne attorno alla città,
ospiti di parenti e amici per sfuggire ai bombardamenti che si facevano ogni
giorno più intensi. Per noi bambini fu una sorta di liberazione dalla scuola,
dal “vestito buono”, dalle scarpe che “guai se ci giochi a pallone” e pure dal
pettine giacché fummo tosati come misura precauzionale contro i pidocchi. Nuovi
spazi per giocare, nuove amicizie e naturalmente nuove regole alimentari. La
palermitanissima mafalda con burro e marmellata fu sostituita da una bella
fetta di pane casereccio con un filo d’olio sopra. Sì, in pratica quell’olio
puzzolentissimo e acido finì per accompagnare le nostre merende pomeridiane.
Non ci facemmo caso perché la fame era tanta a quell’età e non andavamo per il
sottile. Scoprimmo, con le gioie di une fetta di pane con l’olio, anche la
campagna: asini e muli, il latte appena munto da vacche o capre, insalate di
gusto nuovo raccolte in giro per i viottoli e pure la fatica dei vecchi
contadini rimasti a casa mentre tutti gli uomini validi erano sotto le armi.
Erano loro che lavoravano le campagne, si occupavano di greggi, facevano il
cacio e ci raccontavano pure tante belle storie. Fu allora che conobbi gli
ulivi. Solenni enormi, con tronchi ritorti, sofferenti, pieni di cicatrici. E
quelle foglie di un colore sempre cangiante, belle da vedere soprattutto quando
il vento le smuoveva. Era fantastico salirci sopra e guardare il mondo
dall’alto, come quando gli uomini ci montavano con lunghe canne per buttare giù
le olive mature. Gli stessi che ci portarono con loro all’antu e cominciammo a
capire cosa significa arare, seminare, mietere, trebbiare, cutuliare le olive,
raccoglierle da terra una per una, andare al palmento e scoprire i “fiscoli”,
le macine e quelle feste incredibili a fine dei lavori. Caro Peppino, ho
conosciuto così il piacere del pane appena sfornato, dell’olio appena spremuto,
del vino novello e di quella gioia che le ragazze sapevano esprimere per un
buon raccolto. E poi quel continuo invocare i santi, Madonne e Padreterno per
dare una mano e alleviare la loro fatica. Diventammo adulti in poco tempo
grazie e quella gente che ci accolse con affetto insegnandoci tra le altre
mille cose, ad amare la terra. Ancora oggi, quando mangio una fetta di pane
casereccio caldo con un filo d’olio sopra ritorno a quelle storie, a quella
cultura che tu sei ancora in grado di trasmettere con le tue conoscenze, con il
tuo amore. Quelle che leggerete sono come pagine di un romanzo, intriganti,
ricche di notizie per nulla scontate. Sono state scritte perché non si
dimentichi, per lasciare agli altri il proprio sapere, le proprie emozioni, le
proprie scoperte. Per tutto questo, grazie.
Con affetto
Gaetano Basile
I miei complimenti a Gaetano Basile per questa bellissima pagina ricca di grandi emozioni che ho condiviso rivivendo un'infanzia fatta di pane olio e sale -con l'aggiuta in estate del pomodoro strusciato- di arrampicate sugli olivi in gara con mio fratello e i suoi amici.......e la raccolta delle olive che per noi bambini consisteva nel raccartarne da terra a gara il più possibile.E poi il rito dell'olio"novo" che appena arrivava a casa nelle damigiane veniva travasato nei "coppi" di cotto chiusi con il tappo di legno. Grazie di cuore per avermi fatto rivivere emozioni mai dimenticate ma tenute forse troppo strette nel cuore. Giuseppina Morelli
RispondiEliminaBellissima prefazione, un piccolo viaggio emozionale nel tempo.
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