di
Giuseppe Bivona
Dal convento, 30 GennaioNon ho voluto lasciare passare il mese senza scriverti. Tu avresti potuto credere che io sia triste, infelice, mentre qui, ai piedi degli altari, nelle pratiche austere del nostro rito ho trovato, se non la pace, almeno la calma del cuore.È vero. Si prova uno sgomento invincibile entrando qui, sentendosi chiudere alle spalle quella porta, vedendosi mancare ad un tratto l'aria, la luce, sotto questi corridoi, fra questo silenzio di tomba e il suono monotono di queste preci. Tutto rattrista il cuore e lo spaurisce: quelle fantasime nere che si veggono passare sotto la fioca luce della lampada che arde dinnanzi al crocifisso, che s'incontrano senza parlarsi, che camminano senza far rumore come se fossero spettri, i fiori che intristiscono nel giardino, il sole che tenta invano [di] oltrepassare i vetri opachi delle finestre, le grate di ferro, le cortine di saia bruna. Si ode il mondo turbinare al di fuori e i suoi rumori vengono ad estinguersi su queste mura come un sospiro. Tutto quello che viene dal di fuori è pallido e non fa strepito. Son sola in mezzo a cento altre derelitte.Ho perduto anche la consolazione della famiglia; non posso vederla che in presenza di molta gente, in una gran sala oscura, attraverso la doppia grata che difende la finestra. Le nostri mani non possono stringersi scambievolmente. L'intimità sparisce. Non restano che fantasmi che si parlano attraverso le gelosie, e ogni volta domando a me stessa se quello è mio padre, quel padre che mi sorrideva e mi abbracciava, s'è quella stessa Giuditta che saltellava con me, s'è quello stesso Gigi ch'era così vispo e allegro. Ora son serî, freddi, malinconici; mi guardano attraverso le grate della gelosia come viventi che si affacciano alla tomba per vedere cadaveri che parlano e si muovono.Eppure tutte queste privazioni, tutte queste austere pratiche servono a distaccare il cuore dalla fragilità della terra, ad isolarlo, a farlo pensare a sé stesso, a dargli quella mutua calma che viene da Dio e dal pensiero che così si abbrevia il nostro pellegrinaggio sulla terra. Mi son confessata. Ho detto tutto! tutto! Quel buon padre ha avuto compassione del mio povero cuore malato. Mi ha confortato, mi ha consigliato, mi ha aiutato a strapparmi il demone dal seno. Mi sento più libera, più tranquilla, più degna della misericordia di Dio.Domani entrerò in noviziato. Hanno voluto indugiare ancora pochi giorni perché la mia salute è malferma. Non mi son rimessa mai intieramente dalla malattia che soffersi lassù a Monte Ilice. Ogni due o tre giorni ho la febbre e tossisco tutte le notti. Ma Dio mi darà la forza di sopportare laprova del noviziato. D'ora innanzi però non potremo vederci che assai di raro e non potrò scriverti perché non vedrò tanto spesso Filomena, quella buona sorella laica che si è incaricata di trasmetterti le mie lettere.Non vedrò più nemmeno il mio povero babbo!... Sia fatta la volontà del Signore!Marianna, raccomandami a Dio perché io subisca codesta prova con rassegnazioneDa “ Storia di una capinera” di Giovanni VergaLa storia dei conventi, da non confondere coi monasteri, è una pagina triste, oscura, della chiesa.I conventi di clausura custodiscono giovane donne sepolte vive, dove l’alterazione della ragione ha fin troppo facile gioco, sconfinando spesso nella follia.E’ una perversa anomalia che obbliga la natura a percorrere sentieri insoliti ed inauditi, che paradossalmente riesce a coniugare, tristemente, la sessuofobia della chiesa cristiana e la protervia di una classe nobiliare, disposta fino all’inverosimile a difendere per “intero” l’accumulazione della ricchezza.A differenza dei fratelli minori, che avevano la possibilità di intraprendere oltre alla scelta monastica( e mai di clausura), anche quella militare, per le disgraziate figlie femmine esisteva la sola violenta sistemazione in convento. La dote con cui si accompagnava la sventurata erano le briciole del patrimonio di famiglia. Ma, come se non bastasse, le sciagurate, quasi sempre erano accompagnate da sventurate figlie di contadini al servizio della famiglia nobiliare, destinate a divenire nel gergo isolano “li criate”, ovvero, la condizione più infima ed infelice della scala sociale. Le povere sventurate, segregate, senza vocazione, subiscono la violenza dell’imperante principio del maggiorascato, a cui la chiese porge, senza indugio, il suo fianco.Ora, accade che, a partire dai primi del cinquecento, con l’introduzione del più pratico ed efficiente zucchero, il saccarosio sostituisce sempre più il miele, prende così avvio una svolta epocale nella pasticceria. Le suore, aiutate dalle converse, creano dolci che non si limitano a soddisfare il palato, ma vanno più in là, tentano di sedurre la vista e con le forme e l’estetica, pure la….. fantasia! Le monache pasticciere prestano molta attenzione agli ingredienti, mettono una cura meticolosa nella decorazione, curano all’inverosimile i particolari.Gli esempi abbondano nelle tante elaborazioni tradizionali a cui sono legati gli innumerevoli dolci tipici che disseminano i nostri paesi, la cui ricchezza e variabilità, oggi, possiamo stimarla scorrendo le vetrine delle nostre pasticcerie.Ma vien da chiederci: perché queste figlie sventurate, nel chiuso delle cucine, al riparo di sguardi indiscreti, decisero di elaborare dolcezze strepitose, una esaltazione esasperata della dolcezza senza pari, sfruttando, senza alcun ritegno, le allusive forme anatomiche intimr , come metafore?Cosa sarebbe il “cannolo”, le “ minne di vergini”, le “ cunchiteddi”.Ma le suore vanno oltre, con la frutta di “martorana “, intendono piegare la natura, la stessa che ogni giorno, ogni notte si ribella dentro il loro corpo ,la loro carne. Gli elementi naturali semplici , glucosio e fruttosio sono artificiosamente estratti concentrati ,stabilizzati ,sbiancati , ma il processo muta la sua natura ,diviene uno strano disaccaride, il saccarosio. Puro “zucchero”senza i limiti e protezioni della natura può essere lavorato , manipolato decorato….un vero e proprio cavallo di Troia!Una sicura trappola per i palati dei loro parenti nobiliari, una dolcezza così intrigante e accattivante che non avrebbe risparmiato alcuno, in particolare i tanti prelati che venivano a far visita e quanti altri che con calcolo freddo e meschino avevano deciso della loro sorte. Le suore non avevano alcun amore per questo mondo , anzi lo odiavano, detestavano i loro congiunti a cui periodicamente inviavano i dolci, con la speranza che, presi per la “gola”, finissero tutti nel sesto girone dell’inferno dantesco in compagnia di Ciacco. Qui le pene erano tanto severe quanto intolleranti, la pioggia di fango li avrebbe coperto, e il fetore nauseabondo annullato l’olfatto e il gusto .Ma oggi la vendetta delle sventurate sorelle, alla luce delle odierne conoscenze, lascia un segno più profondo , minando dal di “dentro” la salute dei golosiQuesto candido estratto ,isolato dal suo contesto naturale ,altera molte delle funzioni metaboliche , provoca danni irreparabili al nostro organismo e come se non bastasse, si comporto come una droga, inducendo dipendenzaLe disgraziate sorelle di clausura forse non avevano la piena consapevolezza dei danni arrecati alla salute , volevano solo spedire all’inferno tutti coloro che avevano contribuito a rendere infelice la loro esistenza su questa terra.
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