venerdì 29 dicembre 2023

Provvedimenti URGENTI E IMPORTANTISSIMI per l'AGRICOLTURA

IL GOVERNO HA LICENZIATO IMPORTANTI PROVVEDIMENTI PER IL MONDO AGRICOLO, RESI ESECUTIVI ESSENDO PUBBLICATI IN GAZZETTA UFFICIALE DELLA REPUBBLICA


- AUTORIZZATO DAL GOVERNO L'USO UMANO DI FARINA DI GRILLO, LARVA GIALLA, VERME DELLA FARINA E LOCUSTA MIGRATORIA
- 𝙰𝚕𝚒𝚖𝚎𝚗𝚝𝚒 𝚎 𝚙𝚛𝚎𝚙𝚊𝚛𝚊𝚝𝚒, 𝚍𝚎𝚜𝚝𝚒𝚗𝚊𝚝𝚒 𝚊𝚕 𝚌𝚘𝚗𝚜𝚞𝚖𝚘 𝚞𝚖𝚊𝚗𝚘, 𝚘𝚝𝚝𝚎𝚗𝚞𝚝𝚒 𝚖𝚎𝚍𝚒𝚊𝚗𝚝𝚎 𝚕’𝚞𝚝𝚒𝚕𝚒𝚣𝚣𝚘 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚕𝚊𝚛𝚟𝚊 𝚐𝚒𝚊𝚕𝚕𝚊 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚏𝚊𝚛𝚒𝚗𝚊 (𝚕𝚊𝚛𝚟𝚊 𝚍𝚒 𝚝𝚎𝚗𝚎𝚋𝚛𝚒𝚘 𝚖𝚘𝚕𝚒𝚝𝚘𝚛), 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚕𝚘𝚌𝚞𝚜𝚝𝚊 𝚖𝚒𝚐𝚛𝚊𝚝𝚘𝚛𝚒𝚊 𝚎 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 "𝚊𝚌𝚑𝚎𝚝𝚊 𝚍𝚘𝚖𝚎𝚜𝚝𝚒𝚌𝚞𝚜" (𝚐𝚛𝚒𝚕𝚕𝚘), 𝚌𝚘𝚗𝚐𝚎𝚕𝚊𝚝𝚊, 𝚎𝚜𝚜𝚒𝚌𝚌𝚊𝚝𝚊 𝚘 𝚒𝚗 𝚙𝚘𝚕𝚟𝚎𝚛𝚎!


SEGUIRANNO forse I PROVVEDIMENTI
  MENO URGENTI




domenica 17 dicembre 2023

I motivi della protesta tra realtà e popolismo

       L’80% dei finanziamenti PAC va al 20% degli imprenditori agricoli e premia l’agricoltura intensiva.

Sui trattori vediamo, gli uni accanto agli altri, agricoltori che praticano un’agricoltura intensiva, sostenuta da milioni di euro, che impoverisce la terra senza peraltro arricchirli, e allevatori e contadini virtuosi, lasciati soli e senza futuro, come senza prospettive sono spesso le terre dalle quali provengono, quel 70% di aree interne e del sud italia trascurato da ogni governo. Quel territorio che ci presenta il conto a ogni evento climatico estremo

Come per magia la protesta mette insieme interessi contrapposti

L’incendio che divampa in questi giorni in tutta Europa è il frutto di decenni in cui la politica ha trascurato l’agricoltura, le condizioni di vita e di lavoro di chi produce cibo soprattutto nelle aree interne e delle aree del sud. 

Oggi gruppi finanziari e di multinazionali controlla gran parte della produzione alimentare industriale: i semi, i fertilizzanti, i pesticidi, la genetica delle razze animali, la trasformazione delle materie prime, la distribuzione. Il nostro sistema alimentare non protegge le sue fondamenta (la terra e chi la lavora), ma annienta proprio gli agricoltori più virtuosi e genera sprechi intollerabili (quasi un terzo del cibo prodotto). Abbiamo chiuso gli occhi per anni davanti a contadini costretti a lasciar marcire la frutta sugli alberi, perché sarebbe stato più costoso raccoglierla; allevatori che per disperazione sono arrivati a versare per strada il latte; agricoltori che vendono il frumento fermo allo stesso prezzo di dieci anni fa; produttori stritolati dalla grande distribuzione.

 

 Così il disagio è esploso, indirizzato (ad arte) al bersaglio sbagliato: la transizione ecologica e le sacrosante misure a tutela dell’ambiente. Come diceva l’ambientalista Alexander Langer, “la transizione ecologica sarà prima di tutto sociale, o non sarà”».

Il Green Deal è un percorso necessario  questi anni sono decisivi. Dobbiamo agire ora per contrastare la crisi climatica, ricostruire una relazione armonica e sensata con la natura, ripristinare la fertilità dei suoli europei, produrre e allevare con rispetto per gli animali e per l’ambiente. Come molti studi dimostrano, a partire dal report Ipbes-Ipcc, soltanto la biodiversità ci consentirà di adattarci agli effetti della crisi climatica. Ma dobbiamo sostenere e accompagnare chi produce il nostro cibo seguendo pratiche agroecologiche e supportare tutti gli altri, attivando percorsi condivisi. 

Si parla degli ingenti sussidi europei all’agricoltura, ma si dimentica che i soldi delle Pac continuano ad andare a poche grandi aziende: l’80% dei finanziamenti va al 20% degli imprenditori agricoli e premia l’agricoltura intensiva. E a elargire questi fondi in maniera così poco lungimirante sono le istituzioni politiche, costituite da persone che noi stessi scegliamo attraverso il voto. Senza una transizione e rigenerazione ecologica e al contempo sociale, la nostra agricoltura perderà e sarà sempre più in balia delle multinazionali e degli umori del mercato.

In una Regione come la Sicilia, sostenere che l'Europa è stata assente e a dir poco ingeneroso, solo i neofiti possono spingersi in una affermazione tanto qualunquista  

     In molti anzi in tantissimi, non hanno compreso, che la protesta ha il solo obiettivo di spostare voti alle prossime elezioni europee,  verso l'estrema destra europea da sempre antieuropeista. 

Alcune pretese sono giustissime, ma il perimetro è totalmente fuori luogo.

Le strategie del Green Deal, come la Strategia Farm to Fork e la Strategia Biodiversità 2030, sono politiche lungimiranti, malgrado qualche agitatore senza scrupolo sostiene il contrario.


Tra il 2021 e il 2027 sono stati stanziati quasi 390 miliardi di euro   

Da qualche settimana sono in corso in vari paesi europei, tra cui FranciaGermania e anche Italia, estese proteste organizzate dagli agricoltori, che si sono fatti notare soprattutto perché in molte occasioni hanno bloccato strade e autostrade con trattori e altri mezzi agricoli. Giovedì c’è stata anche una grossa manifestazione vicino ai palazzi delle istituzioni europee a Bruxelles, dove intanto era in corso una seduta straordinaria del Consiglio Europeo.

Gli agricoltori protestano per diversi motivi, che spesso hanno a che fare con la situazione politica e normativa dei vari paesi in cui vivono e lavorano. Le loro richieste sono accumunate da una critica generale nei confronti della Politica agricola comune (PAC), l’insieme di norme che regolano l’erogazione dei fondi europei per l’agricoltura, considerata eccessivamente ambientalista e poco attenta alle necessità dei lavoratori. Storicamente però il settore dell’agricoltura è sempre stato uno dei più sussidiati, e oggi buona parte delle fattorie e delle aziende agricole europee riesce a sostenersi proprio grazie ai fondi europei per l’agricoltura.

La PAC viene aggiornata ogni cinque anni: l’ultima è entrata in vigore nel 2023, e sarà valida fino al 2027. È un pacchetto di norme molto corposo, che viene concordato durante lunghe negoziazioni tra tutti gli stati membri dell’Unione. Si basa su alcuni obiettivi fondamentali: tra gli altri garantire un reddito equo agli agricoltori, proteggere la qualità dell’alimentazione e della salute, tutelare l’ambiente e contrastare i cambiamenti climatici.

L’ultima PAC è stata finanziata con 386,6 miliardi di euro, ossia il 31 per cento di tutto il bilancio europeo per il periodo 2021-2027, che vale più di 1.200 miliardi euro. La percentuale scende al 23,5 per cento se comprendiamo nel totale del bilancio anche i circa 800 miliardi di euro forniti dal Next Generation EU, il piano di aiuti economici per i paesi colpiti dalla pandemia, spesso chiamato Recovery Fund. Le cifre utilizzate per questi calcoli rispecchiano i prezzi vigenti ad aprile del 2023: possono variare in base all’inflazione, ma l’ordine di grandezza generale rimane questo.

I fondi della PAC sono divisi in due pilastri fondamentali: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). Il primo ha una dotazione complessiva da 291 miliardi di euro, e il secondo di 95,5 miliardi, di cui 8 miliardi forniti dal Next Generation EU.

Complessivamente tra il 2023 e il 2027 la maggior parte dei fondi europei per l’agricoltura sarà usata per dare dei sussidi diretti agli agricoltori: riceveranno quasi 190 miliardi di euro, il 72 per cento del totale. La parte restante sarà divisa in progetti per lo sviluppo rurale (25 per cento) e interventi in specifici settori, tra cui quelli del vino, dell’olio d’oliva e dell’apicoltura (3 per cento dei fondi).

L’agricoltura riceverà quindi quasi un quarto dei fondi previsti dal bilancio europeo. È senza dubbio una componente molto rilevante, che però in passato era ancora più alta: all’inizio degli anni Ottanta la quota di fondi dedicata all’agricoltura era del 66 per cento, ed è poi scesa gradualmente fino a raggiungere il 38 per cento nel periodo 2014-2020 e infine al 31 per cento dell’ultimo bilancio approvato. A partire dal 1992 la quota dedicata ai contributi diretti per gli agricoltori ha cominciato ad aumentare moltissimo, a scapito degli altri settori finanziati, come i sussidi alle esportazioni o alle attività educative e promozionali, i cui finanziamenti sono stati ridotti.

I fondi europei vanno divisi tra tutti i 27 paesi membri dell’Unione (ed erano 28 fino al gennaio del 2020, quando c’era ancora il Regno Unito). Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2019 la Francia ricevette la quota più alta dei fondi del FEAGA, pari al 17,3 per cento del totale, seguita da Spagna, Germania e Italia, con il 10,4 per cento. Anche dell’altro fondo, il FEASR, beneficiarono soprattutto la Francia e l’Italia, che ricevettero rispettivamente il 15 e il 10,4 per cento dei fondi.

 

La maggior parte degli agricoltori che nel 2019 beneficiò dei contributi diretti ricevette meno di 5mila euro, mentre una parte – circa il 2 per cento del totale – incassò più di 50mila euro. Con la nuova PAC sono stati modificati i criteri di distribuzione dei contributi e le modalità per accedervi, inserendo nuovi vincoli per la tutela dell’ambiente: agli agricoltori che non li rispettano possono essere ridotti o anche sospesi i pagamenti.

Secondo l’Unione Europea, i sussidi sono necessari perché nella maggior parte dei casi le aziende agricole hanno redditi inferiori a quelli degli altri settori produttivi: secondo i dati della Commissione Europea, nel 2022 gli agricoltori hanno guadagnato poco più del 60 per cento del reddito medio dei dipendenti nell’Unione. È una situazione che sta migliorando, considerando per esempio che nel 2005 il reddito medio degli agricoltori era pari al 30 per cento di quello degli altri dipendenti.

Inoltre il settore deve fare i conti con molte incertezze: i prezzi sono volatili e le normative continuano a cambiare, così come le condizioni climatiche e i vincoli per ottenere i sostegni pubblici, fattori che nel complesso rendono molto difficile fare programmi a lungo termine. Anche per questo il settore agricolo è così sussidiato.

Allo stesso tempo, però, gli agricoltori si oppongono a molti cambiamenti che l’Unione Europea sta cercando di introdurre per salvaguardare l’ambiente, e in alcuni casi avanzano richieste poco concrete o comunque molto difficili da realizzare. Tra le altre cose, in Italia chi sta partecipando alle proteste chiede il blocco delle importazioni dei prodotti agricoli da paesi con standard produttivi e sanitari meno rigidi rispetto a quelli europei, che farebbero concorrenza sleale; il divieto di vendita e produzione per i cosiddetti “cibi sintetici”; una riqualificazione della figura pubblica dell’agricoltore, che dal loro punto di vista sarebbe troppo spesso additata «come responsabile dell’inquinamento ambientale».

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 15 dicembre 2023

Danilo Dolci e il cardinale Ruffini

 



di Francesco Virga
“In questi ultimi tempi (…) è stata organizzata una grave congiura per disonorare la Sicilia; e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci.”
E’ questo l’incredibile inizio della famosa lettera pastorale, intitolata “II vero volto della Sicilia”, che il Cardinale Ernesto Ruffini la domenica delle Palme del 1964 fece circolare in tutte le chiese dell’isola.
Per comprenderne bene il significato e valutarne il valore bisogna collocarla nel tempo in cui è stata concepita e diffusa.
Francesco Michele Stabile, fra tutti, mi sembra quello che con maggiore obbiettività ha saputo farlo grazie anche alla possibilità che ha avuto di consultare direttamente fonti di prima mano, compresi alcuni manoscritti inediti, conservati nell’Archivio dell’Arcidiocesi di Palermo.
Si tratta, secondo lo stesso Stabile, di un “documento del clerico-sicilianismo” ( I Consoli di Dio, Sciascia editore, 1999, pag. 476) che, spostando l’attenzione sull’onore della Sicilia, considera più pericolosi dei mafiosi tutti coloro che, in un modo o in un altro, mettono a nudo le piaghedell’isola. La “congiura” naturalmente esisteva solo nella testa del Cardinale. Peraltro si stenta, ancora oggi, a cogliere il legame presunto tra il celebre romanzo del principe Tomasi di Lampedusa, diventato un film di successo nel 1963, e i libri-inchiesta del sociologo triestino.
E’ vero comunque che siamo davanti al primo documento ufficiale della Chiesa Cattolica in cui si parla di mafia anche se, in sintonia con le idee dominanti del tempo, l’immagine che se ne dà è molto generica e riduttiva. Al Ruffini sfugge del tutto il fatto che la mafia siciliana è stata sempre espressione diretta delle classi dirigenti e, per questo, organicamente inserita nel sistema di potere con connivenze a vari livelli. ( Stabile, op. cit., pag. 479).
Alla vecchia ideologia sicilianista, utilizzata nel secolo precedente dal “Comitato Pro-Sicilia” per difendere l’On. Palazzolo dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio Notarbartolo, il Cardinale Ruffini aggiungeva il suo preconciliare integralismo cattolico che gli impediva di capire e valorizzare lo spirito critico e creativo presente nel mondo laico.
Tornando a Danilo Dolci, cerchiamo adesso di vedere meglio chi era e cosa aveva fatto, fino al tempo (1964) in cui diventa oggetto d’attenzione da parte della principale autorità ecclesiale della nostra isola.
Il Dolci nasce in un paese della provincia di Trieste nel 1924. Di fondamentale importanza, nel suo processo di formazione, è la collaborazione con Don Zeno Saltini presso la Comunità di Nomadelfia. L’incontro con la Sicilia, inizialmente, è quasi del tutto casuale e favorito dal padre ferroviere in servizio a Trappeto. Più tardi lo stesso Dolci riconoscerà: “ Non so ancora bene come e perché sono partito per la Sicilia (…) Ignorante com’ero dei problemi del sud, ignorante di tecniche di lavoro socio-economico”. L’evento decisivo che cambia la sua vita è la morte di un bambino per fame avvenuta a Trappeto il 14/10/1952. Danilo – nome con cui d’ora in poi si farà chiamare da tutti – inizia il primo dei suoi numerosi digiuni che tanta popolarità gli daranno. D’altra parte, fin dal suo esordio, come ha rilevato Amelia Crisantino, Dolci precorre i tempi mostrando di sapere amministrare in modo magistrale il suo personaggio. Il Nostro, infatti, anche se allora, in Italia, non esisteva ancora la televisione, riesce ad amplificare immediatamente le sue iniziative attraverso la radio ed i giornali.
Il 2 febbraio del 1956 Danilo, insieme al segretario della Camera del lavoro di Partinico, Totò Termini, ed altri cinque “attivisti comunisti” - così come vengono qualificati nel Verbale del locale Commissariato di P.S. - sono arrestati, con l’accusa di “abusiva occupazione di suolo pubblico”, per avere condotto un gruppo di contadini disoccupati a lavorare su una vecchia strada interpoderale, detta “trazzera vecchia”, divenuta impraticabile per via dell’incuria degli uomini e delle Istituzioni.
Una dettagliata cronaca dei fatti accaduti quel giorno è stata fatta dal giovane Goffredo Fofi che ne fu testimone diretto e che ha opportunamente riproposto di recente in un suo bellissimo libro di memorie; mentre l’intera documentazione relativa al memorabile sciopero, all’arresto dei protagonisti e al successivo processo venne tempestivamente pubblicata da Einaudi , nell’agosto 1956, col titolo “Processo all’art. 4”. Il libro, meritevole di essere ristampato, grazie soprattutto alle testimonianze di Carlo Levi ed Elio Vittorini e all’arringa finale di Piero Calamandrei, contribuì in modo decisivo a creare il “caso Dolci”: Vecchi e nuovi amici scrissero lettere ai giornali, manifesti di protesta, appelli; gruppi di intellettuali costituirono comitati di solidarietà; al Parlamento vennero presentate diverse interrogazioni.
Il senso dell’ originale forma di sciopero venne molto efficacemente colto da Aldo Capitini:
“ In sostanza che cosa aveva fatto Dolci? Si era buttato a studiare le ragioni del banditismo, della violenza, della miseria, della disgregazione fisica, dell’ignoranza e aveva trovato che la mancanza di lavoro, nei disoccupati e nei sottoccupati, era la ragione dominante di quei mali. Ed allora aveva preparato per mesi, con la sua meticolosità di architetto, lo sciopero a rovescio (…). Le parole più gravi che Danilo disse, rimproverategli come diffamazione, NON ASSICURARE UN LAVORO A QUESTA GENTE E’ UN ASSASSINIO, erano verissime, perché espresse da chi era risalito alle cause”.
Per Dolci l’esperienza del carcere è stata di fondamentale importanza per capire la realtà siciliana e per guadagnarsi la fiducia dei tanti poveri cristi, dei “banditi” cui aveva già dedicato un libro un anno prima. E, non a caso, “PROCESSO ALL’ART.4” si apre e si chiude con le parole di due giovani incontrati all’Ucciardone. Non si dimentichi che dopo venti giorni di carcere al Nostro venne negata la libertà provvisoria perché la sua condotta era “un indizio manifesto di una spiccata capacità a delinquere”. E Danilo stesso, circa vent’anni dopo, nel ricordare quei giorni dirà:
“ lo stesso giorno dell’arrivo mi fu mandato dagli altri carcerati pane, tante olive e tanto formaggio che potevano bastare per tre mesi. Una solidarietà così immediata nasceva dal fatto che lì sapevano che avevo fatto da padre ai loro figli. E mi offrivano quello che avevano. Non ho mai lavorato tanto come durante quel periodo: le mie giornate erano pienissime, perché volevo documentarmi su tutto quanto accadeva nel carcere, soprattutto sulle torture che molti carcerati avevano subito”. ( Spagnoletti G., Conversazioni con Danilo Dolci, Mondatori 1977, p.66)
Dell’arringa finale di Piero Calamandrei mi sembra opportuno oggi ricordare un passo:
“Nelle democrazie europee(…) il popolo rispetta le leggi perchè ne è partecipe e fiero: ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri! Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che siano le SUE leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. (…). Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia una idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami”. ( AA.VV. , Processo all’art. 4, Einaudi 1956, p. 307).

mercoledì 13 dicembre 2023

L'eredità della memoria

 



Un libro,  uno scritto,  sono una garanzia e come tale non hanno alcuna scadenza, non sono impazienti, perchè si rinnovano ogni volta che  li leggiamo o rileggiamo,  anche da angolature diverse.  

 Si riscontra la necessità  di rappresentare una riflessione ampia e diffusa  sugli avvenimenti storici, che hanno visto protagonisti uomini lungimiranti  animati da un profondo ideale,   lasciando il segno indelebile della loro presenza e  del loro operato.                                     
Come Libera Università Rurale intendiamo accogliere le richieste di  favorire un confronto anche attraverso le pagine di questo blog,  


 

lunedì 11 dicembre 2023

Diario dell’ulivo saraceno

                                                  Peppino Bivona

 

Diario dell’ulivo saraceno


                                  PREMESSA   di  Gaetano Basile          

                               Peppino Bivona con l’ulivo ha un rapporto antico. Meglio ancora è antico il suo rapporto con la terra tanto da averne fatto il suo lavoro, la sua professione. Nessuno come lui conosce i mille segreti degli ulivi, delle drupe, dell’olio e di come giudicarlo. Ed a lui ricorro sempre quando mille dubbi mi assalgono su questa pianta misteriosa, strana, bizzarra. Biennale, ma tanto antica e sacra da accreditarne l’invenzione ad una divinità,Atena la saggia. Confesso di aver conosciuto tardi sia la pianta che l’olio d’oliva. In casa nostra, cittadini palermitani d’antan, si cucinava al burro oppure con lo strutto. Che chiamavamo “saìmi”, come giustamente si dice nella nostra lingua. L’olio d’oliva nostrano ci arrivava una volta l’anno dalle campagne di Castelvetrano o Carini in otri puzzolentissimi da cui si riversava in una enorme giara. Recipiente di un bel colore nocciola lucido, panciuto ed elegante, che mi riportava sempre a Pirandello e al suo Don Lollò Zirafa in lite con Zi’ Dima.

Ricordo che ogni anno c’era la solita disputa su quanti “cafisi” occorressero per i dodici mesi successivi. La disputa non era peregrina in quanto il “cafisu”, da quanto ne dedussi, era più che una unità di misura per l’olio, un concetto astratto, quasi filosofico, giacché quello palermitano, pari a 16 litri, raramente coincideva con quello di altri paesi o province siciliane. E da qui discussioni a non finire…

Quell’olio paesano si usava soltanto per preparare salse e per friggere il pesce tre volte a settimana come era d’uso, e i tocchetti di melanzana per le solenni caponate estive. Pure come lubri- ficante generico e medicina per “ingorghi di stomaco”. Bastava attaccarsi alla bottiglia fino a quando qualcuno decideva che bastasse.

Per le cotolette panate si usava una padella in ferro, sempre la stessa, in cui si mettevano sempre un paio di cucchiai di strut- to; per le arancine era previsto un particolare tegamino che ne conteneva tre alla volta in abbondante strutto che ribollendo le ricopriva. Poi si mettevano a scolare sulla “carta paglia” per quelle due ore circa che secondo tradizione servivano a portarle alla temperatura ritenuta “giusta” per essere mangiate. Perché ci insegnavano fin da piccoli che le arancine vanno mangiate tiepide e mai calde. Lo stesso pentolino veniva usato per la frittura delle “scorze” dei cannoli. Che si facevano in casa.

L’olio d’oliva “buono” della mia infanzia fu in pratica soltanto quello che si usava a crudo sulle insalate e che i miei nonni facevano venire dalla Toscana o dalla Liguria tramite un tortuoso giro di amicizie e parentele. Pure questo arrivava una volta l’anno, spedito per ferrovia, e contenuto in eleganti “buattoni” di latta con belle immagini a colori: Garibaldi, Mazzini, Cavour e re Vittorio Ema- nuele “Padri della Patria”, oppure le eroiche gesta dei Garibaldini, gli Alpini con le montagne innevate sullo sfondo, i Bersaglieri a Porta Pia, Napoli e il Vesuvio, la basilica di san Pietro, il Duomo di Milano…anche se quell’olio veniva da regioni che non c’entravano per nulla con le belle illustrazioni. Che capimmo tutti dovevano portare in giro per il mondo, assieme all’olio, il buon nome della nostra Patria.Che si scriveva sempre con la maiuscola.A quell’epoca. Oltre alla bellezza artistica/promozionale patriottarda del contenitore, quel liquido limpidissimo e giallino aveva il pregio di non puzzare, e l’altro non trascurabile di non “rovinare lo stomaco”, come dicevano i grandi, a causa dell’eccessiva acidità. Naturalmente le cameriere, tutte di estrazione contadina, lo giudicavano “acqua di cannolu” per la leggerezza e mancanza di odore forte. Capace di rovinare pure il sapore di una bella zuppa di ceci o di lenticchie come dicevano i grandi.

Quella delizia settentrionale aveva il pregio di costare tanto e doveva servire esclusivamente sulla pasta, per le insalate,le verdure assassunate e qualche volta, “un filino appena appena”, sul pesce lesso o infornato.La parsimonia era d’obbligo. Poi venne la guerra e pure la nostra numerosa famiglia fu costretta a “sfollare” come si diceva. In pratica finimmo tutti quanti nelle campagne attorno alla città, ospiti di parenti e amici per sfuggire ai bombardamenti che si facevano ogni giorno più intensi.

Per noi bambini fu una sorta di liberazione dalla scuola, dal “vestito buono”, dalle scarpe che “guai se ci giochi a pallone” e pure dal pettine giacché fummo tosati come misura precauzio- nale contro i pidocchi. Nuovi spazi per giocare, nuove amicizie e naturalmente nuove regole alimentari. La palermitanissima mafalda con burro e marmellata fu sostituita da una bella fetta di pane casereccio con un filo d’olio sopra. Sì, in pratica quell’olio puzzolentissimo e acido finì per accompagnare le nostre merende pomeridiane. Non ci facemmo caso perché la fame era tanta a quell’età e non andavamo per il sottile.

Scoprimmo, con le gioie di une fetta di pane con l’olio, an- che la campagna: asini e muli, il latte appena munto da vacche o capre, insalate di gusto nuovo raccolte in giro per i viottoli e pure la fatica dei vecchi contadini rimasti a casa mentre tutti gli uomini validi erano sotto le armi. Erano loro che lavorava- no le campagne, si occupavano di greggi, facevano il cacio e ci raccontavano pure tante belle storie.

Fu allora che conobbi gli ulivi. Solenni enormi, con tronchi ritorti, sofferenti, pieni di cicatrici. E quelle foglie di un colore sempre cangiante, belle da vedere soprattutto quando il vento le smuoveva. Era fantastico salirci sopra e guardare il mondo dall’alto, come quando gli uomini ci montavano con lunghe canne per buttare giù le olive mature.

Gli stessi che ci portarono con loro all’antu e cominciammo a capire cosa significa arare, seminare, mietere, trebbiare, cutuliare le olive, raccoglierle da terra una per una, andare al palmento e scoprire i “fiscoli”, le macine e quelle feste incredibili a fine dei lavori.

Caro Peppino, ho conosciuto così il piacere del pane appena sfornato, dell’olio appena spremuto, del vino novello e di quella gioia che le ragazze sapevano esprimere per un buon raccolto. E poi quel continuo invocare i santi, Madonne e Padreterno per dare una mano e alleviare la loro fatica. Diventammo adulti in poco tempo grazie e quella gente che ci accolse con affetto insegnandoci tra le altre mille cose, ad amare la terra.

Ancora oggi,quando mangio una fetta di pane casereccio caldo con un filo d’olio sopra ritorno a quelle storie, a quella cultura che tu sei ancora in grado di trasmettere con le tue conoscenze, con il tuo amore.

Quelle che leggerete sono come pagine di un romanzo, in- triganti, ricche di notizie per nulla scontate. Sono state scritte perché non si dimentichi, per lasciare agli altri il proprio sapere, le proprie emozioni, le proprie scoperte. Per tutto questo, grazie.

Con affetto

 

sabato 9 dicembre 2023

“𝗨𝗻 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗱𝗶 𝗶𝗻𝗾𝘂𝗶𝗲𝘁𝘂𝗱𝗶𝗻𝗶"

 

 Viaggio in settantacinque anni di storia di Menfi. Sabato 23, alle ore 17:30 presso la Biblioteca Comunale di Menfi, la presentazione del libro di 𝗩𝗶𝗻𝗰𝗲𝗻𝘇𝗼 𝗟𝗼𝘁𝗮̀ e 𝗥𝗼𝗰𝗰𝗼 𝗥𝗶𝗽𝗼𝗿𝘁𝗲𝗹𝗹𝗮



Una analisi dettagliata in 325 pagine, un lavoro di tre anni che porta la firma di Vincenzo Lotà e Rocco Riportella.

“I temi e le fonti di questo lavoro parlano di una terra e di una comunità presso cui proprietà e servilismo erano retaggi tenaci e permanenti, in un tempo in cui una Dinastia s’avviava a concludere esausta il suo lungo dominio; illustrano uomini che tante idee maturarono e proposero e tante altre ne contrastarono e combatterono, pur di conferire alle generazioni il diritto a scegliersi il loro futuro” commenta l’autore Vincenzo Lotà che aggiunge “A questo difficile e doloroso tentativo siciliano di riscatto umano e di affermazione del cittadino la comunità menfitana fu attivamente partecipe e questo saggio ne è testimonianza”.

𝗩𝗶𝗻𝗰𝗲𝗻𝘇𝗼 𝗟𝗼𝘁𝗮̀ è nato e vive a Menfi. Architetto, ha lavorato al Dipartimento della Programmazione della Regione Siciliana con l’incarico di Dirigente. Più volte Sindaco di Menfi, ha curato e pubblicato vari contributi nel settore dell’urbanistica e della programmazione economica e territoriale, tra cui Il progetto di Menfi: una proposta per la gestione del territorio, in “Il progetto urbano di Menfi” (1988), Menfi, una strategia operativa, in “I piani di Bruno Gabrielli”, 1995. Autore di "Uomini senza cappotto. Viaggio nella memoria di un lembo di terra salmastro" (2018).

𝗥𝗼𝗰𝗰𝗼 𝗥𝗶𝗽𝗼𝗿𝘁𝗲𝗹𝗹𝗮, è nato e vive a Menfi. Dirigente amministrativo della sanità in quiescenza, dal 1994 si dedica all’indagine storico-archeologica del territorio in cui vive. Ha svolto la relazione su “L'arte Preistorica del San Giovanni sambucese” all'11° Convegno Internazionale UISPP di Magonza del 1987. Ha moderato, partecipandovi con una sua relazione sul tema “Il territorio di Menfi: dai villaggi indigeni all’età moderna – Excursus storico archeologico del processo agro produttivo”, al Convegno “Alle radici della civiltà del vino in Sicilia” organizzato dalle Cantine Settesoli nel 1999. L’edizione degli atti è stata curata dai Proff. Osvaldo Failla e Gaetano Forni. Ispettore onorario dei Beni Culturali di Menfi per meriti speciali avendo segnalato alle Istituzioni pubbliche siti che, indagati, si sono rivelati di rilevante interesse scientifico. Nel 1998 l'Istituzione Culturale “Federico II” di Menfi gli assegna la Medaglia per “avere concorso ad elevare e diffondere i valori della cultura e dello spirito umano, acquisendo particolare benemerenza verso quest'Istituzione”.

sabato 2 dicembre 2023

Quaderno di Neoruralità "Il sole nel bicchiere"

       

 

                    Pubblico delle grandi occasioni a Menfi in occasione della presentazione del Quaderno di Neoruralità "Il sole nel bicchiere" di Peppino Bivona, moderato magistralmente da Antonella Giovinco, con la partecipazione di Giuseppe Barbera, Giuseppe Bursi, Nino Sutera. 

E' possibile vedere  l'incontro integrale grazie alle riprese dell'Arch. Francesco Graffeo



VIDEO MAHARIA