Peppino
Bivona
Belice di Mare, Agosto 2024
Il viandante
che attraversa le nostre contrade è attratto
dalla campagna menfitana per un suo particolare ed irresistibile fascino: interagisce,si
articola, si lascia coinvolgere con lo sfondo azzurro del mare africano.
Un panorama
particolare,una scenografia accattivante
che si lascia godere appena si
abbandona l’entroterra e si
scende verso la costa. Un susseguirsi
ininterrotto di ampi gradoni
ovvero di terrazze marine che
leggermente degradano verso il mare aperto.
Se invece il viandante percorre la vecchia statale 115
da est ad ovest e viceversa , la scena appare più intrigante. Al susseguirsi di
docili colline che si alternano a fondovalle, si
distendono piccoli appezzamenti regolari, delimitanti i carciofeti, i pochi seminativi, qualche
uliveto e le ampie distese di vigneti.
Il mare, come per gioco, vi appare e poi subito scompare, ad una curva si
cela per poi inaspettatamente svelarsi
,mostrando tutta la sua calma distesa, il suo inconfondibile colore. Questa
magia ci viene regalata grazie ai dodici kilometri di costa, che sommati a quelli belicini, fanno un tratto di campagna-costiera, dal
Belice al Carboj , decisamente unico. Il verde dei vigneti o il giallo dei seminati “sfociano “
nell’azzurro del mare.
Se la campagna mostra il suo
fascino,l’agricoltura di questi luoghi
deve fare i conti con le frequenti mareggiate
che, trasportando goccioline di salsedine, non risparmiano le coltivazioni litoranee. Perciò i
contadini hanno studiato tutta una serie
di apprestamenti per difendere le loro coltivazioni.
Lo chiamavano Peppe di Mare,
un curioso soprannome ,perché non
era un pescatore bensì un contadino ,
povero quanto e forse più dei marinai del luogo. Possedeva buona parte della
collina che sovrastava l’antico borgo marinaro che come un ampio terrazzo, si
affacciava nello stupendo mare tra le “ Solette” e la “Conca della regina”.
Suo nonno l’aveva comprata
dai principi Pignatelli per pochi denari ,nessuno aspirava
a possedere quella “bella” ma
sterile collina. Ma al povero Peppe
quella “ bellezza “ non lo
incuriosiva più di tanto, in fondo l’incanto
suscitato per le attrattive
paesaggistiche è stata tutta una” invenzione” della modernità. Peppe
come suo padre non si lasciava incantare né
distrarre da questo paesaggio mozzafiato, impegnati come erano,
da mattina a sera,con la schiena curva, a zappettare il grano in primavera
o a mieterlo nel mese di giugno. Quel grano cresceva a stento,vuoi per
la cattiva natura del terreno, prevalentemente argillosa , ma ancor più, per le
sferzate di vento carico di salsedine che flagellava la coltura. Così come la vegetazione costiera per difendersi cresceva poco e restava bassa quasi strisciante, raramente le spighe
di grano riuscivano ad arrivare a buon fine . Le buone annate nella vita di
Peppe si contavano come le dita della mano !
All’epoca
c’era un tempo per ogni cosa:
dopo la mietitura e la successiva trebbiatura, i lavori agricoli si placavano, perciò arrivava il tempo di “andare al mare” .
La partenza era sempre animata, movimentata , al vocio chiassoso di
noi ragazzi ,si imponeva l’ordine perentorio degli adulti ai quali spettava il
compito di caricare sulla mula la brocca
con l’acqua, gli ombrelli grandi e neri, le seggiole basse e tante altre cose ritenute di pratica utilità. Dalla vecchia
casa posta sulla sommità della collina la “carovana” seguiva il vecchio Peppe
che con la sua mula faceva da battistrada giù per lo stretto viottolo
e si snodava tra gli asfodeli e
le palme nane, i giunchi, sospeso tra cielo e mare. Dopo infinite
curve, finiva, quasi di sorpresa,a ridosso della mitica spiaggia delle “ solette”. Un tratto
di arenile a forma di mezzaluna che si
estendeva alla fine di una profonda vallata, mentre poco distante, nel mare
aperto, una serie di rocce affioranti
piatte e irregolari si
allungavano di fronte a noi come tante piccole isolette( o come diceva il
vecchio Peppe “solette” ovvero come le
suole delle scarpe).
Questi “luoghi” appartenevano
a Peppe e ai pochi abitanti della zona.
Era tutto il suo mondo. ”Suoi” erano le fredde giornate invernali, quando
la pioggia insistente e violenta , si abbatteva inesorabilmente sul suo volto e su quel
sottile strato di suolo
argilloso mentre cercava di
affidare il seme al terreno.”Suoi” i
venti infuocati di tramontana che
puntualmente arrivavano nei mesi più caldi
ad abbrustolire le poche stoppie. “Suoi” le raffiche di scirocco
carichi di salsedine che
danneggiavano irreparabilmente la vegetazione. “Suoi” le fatiche quotidiane ,il
sudore per strappare a questa avara terra un misero raccolto.
Così come “Sue” erano
le prime brezze che nelle giornate più assolate sentiva salire dalla
costa,cariche di profumo di mare, sature
di essenze floreali. “Suoi” erano
i chiarori di luna che scopriva la mattina presto,una luna piena e
rotonda,che prima di tramontare, di tuffarsi , si specchiava nell’argenteo mare .”Suo” era il silenzio ,
tanto silenzio , interrotto a tratti dal
canto degli uccelli o dal rumoreggiare del mare. “Suo” era questo
piccolo tratto di spiaggia,questo mare….
Tutto questo rappresentava
per il vecchio contadino il suo
patrimonio materiale e spirituale,
tutto quanto costituiva la sua unica ricchezza che un giorno avrebbe
trasmesso per intero ai suoi
figli e nipoti. Questa terra ,diceva
il vecchio Peppe ,era la sua “croce e
delizia”.
Se i luoghi hanno un’anima, come dice Hillman, di
certo sono sedi di uno spirito del
luogo,il”genius loci”.
Peppe di Mare e i suoi si erano “guadagnati”
l’anima di questi luoghi
attraverso la lenta ma costante
accumulazione e deposito degli affetti, operata per decenni
da diverse generazioni che li
l’avevano vissuto, rispettandone la natura, il senso del limite, la
sobrietà , l’interiorità ,la forma.
Peppe possedeva un rapporto intimo e cosciente
con quel “luogo”, aveva consolidato una cultura stabile e “sostenibile” che
aveva alle spalle una visione conservativa, la sua esistenza era segnata dalla
ciclicità, costellata da una intensa vita cerimoniale e rituale. Per Peppe
abitare voleva dire permettere all’anima
dei luoghi di manifestarsi in chi vive
in quel posto, assorbirla in sé, rispettandola e rilasciandola in modo creativo
, cosi che l’abitare diviene un atto “sacro”.
Molto probabilmente gli antenati di Peppe circondavano di pietre i luoghi che
ritenevano sacri per proteggerne lo spirito e
la sua identità : cosi nascevano i templi consacrati alle divinità.
Di certo
questo scenario sembrava non dovesse avere mai fine .
Ma un giorno all’improvviso
arrivarono i barbari, alcuni venivano da
lontano ma i più erano nostrani
.Predoni, come uccelli rapaci calarono dall’alto, comprarono tutto, si appropriarono
delle “delizie”, il meglio che quei luoghi potessero esprimere.
Scavarono, livellarono, costruirono con razionalità strumentale, con praticità
riduttiva e in nome della funzionalità
squarciarono l’interiorità dei luoghi.
Ora ne fruiscono per soli
pochi mesi estivi,distratti, annoiati :efflorescenze senza radici!
I barbari
nostrani, non hanno “storia”, sono senza passato né memoria ,sono
portatori di un modello “civilizzato” che privatizza il panorama che reprime la
“bellezza”, impedisce le emozioni offende
il sentimento , prepara il deserto!