giovedì 27 novembre 2025
Neoruralità: necessità, status symbol, sogno proibito,o utopia?
sabato 8 novembre 2025
La sinistra e ...Peppe Urpi
Peppino Bivona
Belice di Mare Luglio 2024
Nei pomeriggi estivi, caldi e assolati, i “soci” della Biblioteca comunale “Santi Bivona”, la cui apertura era esposta a mezzogiorno, erano soliti fruire dell’ombra dell'altro lato della strada, dove aveva sede il Circolo Universitario e di ….Cultura.Di tanto in tanto veniva a sedersi l’ing. Bilello , vecchio dirigente della locale sezione del partito comunista e nel dopoguerra sindaco di Menfi. Negli ultimi anni si era ritirato a vita privata dedicandosi alla pollicoltura, ovvero all’allevamento dei polli nella sua tenuta di “Pupo Rosso”.
Fu così che un tardo pomeriggio estivo, non ricordo bene, se nell’anno 73 o 74 ,l’ing. Bilello con la sedia della biblioteca venne a sedersi nell’ampio marciapiede prospicente la sede del circolo Universitario, accanto a noi giovani . Questo vecchio dirigente comunista era stimato dalla base e riconosciuto da tutti oltre che per la sua onestà e correttezza, per la sua vasta e profonda cultura. Noi giovinastri sessantottini rispettavamo questa figura storica, ma non più di tanto: a nostro parere il PCI aveva “tradito” la sua vocazione rivoluzionaria , si era imborghesito , divenuto un partito riformista.
Proprio in quegli anni usciva per l’Einaudi un saggio di Sidney Tarrow,”Partito Comunista e contadini nel Mezzoggiorno”,la cui tesi di fondo era abbastanza chiara: se in Cina ,in Iugoslavia o nell’Andalusia spagnola i contadini costituirono la forza dirompente tale da sovvertirne l’ordine costituito, perché nel sud dell’Italia questa imponente forza sociale e politica costituita da braccianti e mezzadri e contadini poveri, giunti ad occupare i feudi, non fu guidata verso la rivoluzione socialista? Perché non si realizzò la storica saldatura auspicata da Gramsci, tra operai del Nord e contadini del Sud?
L’ing. Bilello pur non frequentando la sezione del partito, sapeva che alcuni giovani manifestavano insofferenza per l’autorità dei “padri”, sia quelli genitoriali che quelli simbolici: erano critici verso la scuola, la chiesa, la famiglia, le istituzioni e non si salvava neanche il partito. Perciò quando gli esposi la tesi del sociologo americano, sembrava preparato a questa domanda, tanto più che nel dopoguerra aveva diretto per qualche anno la “Federterra “regionale. Bilello fece un profondo respiro , si avvicinò la sedia perché la sua voce per sua natura flebile potesse arrivarmi bene alle orecchie. “Pippinè capisco la vostra insofferenza giovanile, anch’io sono stato giovane ,ma spesso dimenticate che il nostro partito con la svolta di Salerno , aveva abbandonato la strategia leninista della presa del potere e si pose come interlocutore paritetico nei confronti delle democrazie occidentali, accettandone la dialettica parlamentare”. Il vecchio saggio Bilello aveva ragione, ( eppure questa semplice verità non era stata compresa dai gruppi estraparlamentari che negli anni successivi divennero “Brigate Rosse , Prima Linea e tanti giovani disperati, sommersi da un equivoco di fondo che caratterizzò la doppia “identità” del Partito Comunista). Ma torniamo a noi.
Ciò nondimeno l’occupazione delle terre, l’esproprio dei feudi non erano di per sè atti “ sovversivi” tali da stravolgere gli assetti sociali ed istituzionali!? Pensa che non siamo riusciti ad applicare la stessa legge di Riforma Agraria ,votata dall’ARS il 22 novembre del 1950, in particolare nei titoli”I”e “II” che proponeva un limite alla proprietà e taluni obblighi come le trasformazioni fondiarie ,la buona coltivazione, l’imponibile di manodopera!”
Mi resi conto che avevo di fronte un testimone importante che poteva comunque raccontarci un tratto della nostra storia menfitana inerente la Riforma Agraria e in particolare l’occupazione delle terre e il ruolo svolto da un indiscusso protagonista di quegli anni, ovvero Giuseppe Volpe ,“Peppi Urpi”. L’ing.Bilello si assestò sulla sedia, fece una piccola smorfia di disappunto, quasi a dirmi che l’argomento non era uno dei suoi preferiti. Ora dopo tanti anni non ricordo bene i particolari ma in sintesi la versione dei fatti secondo Bilello era questa.
Noi non abbiamo avuto una vera Riforma Agraria, se si eccettuano l’esproprio del feudo Fiore e qualche sporadica assegnazione di lotti, del tutto irrilevanti. L’esproprio del feudo Fiore fu un “capolavoro “ di “Peppi Urpi” anche se bisogna dire che contribuirono al successo talune vicende politiche che caratterizzarono opposte fazioni negli anni successivi il primo dopoguerra negli anni 1918-22.
Le vicende successive al dopoguerra, dal 48 in poi sono complessi, turbolenti e di non facile lettura. Intanto il partito fu colto di sorpresa dalla partecipazione massiccia e la mobilitazione da parte dei lavoratori della terra.Si era rotto di colpolo storico “sonno” di gattopardiana memoria.
Dopo gli eccidi di Melissa in Calabria , la parola d’ordine era occupare le terre incolte o mal coltivate. Si riaprì di colpo l’annoso problema delle terre nel nostro Mezzogiorno, riaffioravano ancora i ricordi di usurpazioni di beni demaniali , di proprietà della “mano morta” e di proprietari con precario o nullo titolo di proprietà( per tutti leggasi “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia) . Ma lo scenario non era completo: gli “agrari” non avrebbero ceduto facilmente i terreni, tantè che non esitano a ricorrere alla mafia , assoldano bande come quella di Giuliano,mobilitano i loro pastori e i gabelloti. Ma fanno di più: assoldano studi legali più in vista come,Virga, Orlando Cascio Ferro, Scaduto , attuano un fronte detto ,”l’offensiva della carta bollata” Insomma mandano a dire chiaro e tondo che venderanno cara la pelle! I risultati di quegli anni sono sotto gli occhi di tutti: l’eccidio di Portella della Ginestra e decine di sindacalisti uccisi, tra cui il nostro vicino saccense Accursio Miraglia.
In questo contesto a Menfi si radicalizzano due posizioni nettamente distinte: La prima del Partito Comunista che occupando le terre chiede l’esproprio e l’assegnazione ai contadini poveri, mezzadri, braccianti. L’altra di”Peppi Urpi” che apre un varco di mediazione nel fronte degli “agrari” i quali sono disposti a vendere le loro proprietà e attraverso mutui ventennali( formazione della piccola proprietà contadina). In un contesto così” fluido” e ingarbugliato, per la sinistra Peppi Urpi” appariva un” traditore” perché traduceva il grande movimento per la riforma agraria in una accomodante vendita da parte de grossi proprietari che venivano ristorati e rifocillati dal denaro pubblico e da quello privato. La faccenda non è di poco conto perché nella transazione con i proprietari la assegnazioni di lotti o di quote richiedeva un minimo di anticipo che i contadini poveri non disponevano, mentre i piccoli e medi proprietari disponevano di risparmi tali da consentire loro di aggiudicarsi diversi lotti. Ai proprietari terrieri non fu strappato neanche un palmo di terra, essi vendettero a prezzo pieno di mercato. Insomma la tesi di Biello è che i proprietari fecero un affare. Di fronte al rischio concreto di una possibile confisca dei loro beni, ne uscirono con le tasche piene. Un esempio interessante è la vicenda del feudo di Belice dei Pignatelli. Un resoconto lo troviamo nel saggio di Vincenzo Lotà” Uomini senza Cappotto” , dove l’autore raccoglie la testimonianza della buonanima di Baldassare Li Petri. Qui mentre la Commissione provinciale verificava lo stato di incolto e mal coltivato del feudo per l’esproprio, “Peppi Urpi”concorda con l’amministrazione del feudo la divisione in lotti e la successiva vendita in violazione della legge e in affido a cooperative. Le ragioni addotte sono risibile : l’esproprio avrebbe dato la possibilità ai contadini di Castelvetrano di reclamarne il diritto, per il semplice motivo che il feudo ricadeva nel loro territorio. Non a caso lo stesso “Peppi Urpi” nella sua intervista a Danilo Dolci nel libro “Spreco”, confessa che i proprietari terrieri nei suoi confronti manifestavano benevolenza e stima se non ammirazione!.
Queste vicende furono occasione di una amara riflessione sulla strategia del partito comunista nel sud e in particolare in Sicilia La posizione di Bilello si scontra con quella di Li Causi ,capisce che il movimento contadino è espressione di una variegata manifestazione di interessi disparati , spesso difficile contemplarli in un'unica strategia onnicomprensiva . Ci siamo infilati in un “cul di sacco”: esiste una palese contraddizione tra le scelte strategiche del partito a livello nazionale e le spinte radicali offerte dall’occupazione delle terre.Non si capiva bene se “ le cavalcate” verso i feudi avessero un valore folkoristico tale solo per mostrare i muscoli, o di vera dirompenza sociale e politica. Qui il vecchio dirigente comunista fa una riflessione teorica marxiana di elevato spessore culturale, e indirettamente risponde a Tarrow:”Ricordati” Pippinè “che le classi proletari , gli operai, e a maggior ragione le masse contadine , hanno “bisogno” della mediazione della borghesia! I salti nella storia non sono ammessi!”
Comprendo alla fine della chiacchierata che al vecchio dirigente comunista gli costa molto ammetterlo, ma la strategia scelta da “Peppi Urpi” in fin dei conti, risultò vincente, perché era di buon senso: questo vecchio contadino aveva realizzato una rivoluzione pacifica , alla fine tutti potevano, volendo ,disporre anche di un fazzoletto di terra , e chi credeva nella terra, non si lasciò sfuggire l’occasione, era sufficiente a fungere da “lievito” che, con le successive opere di bonifica e l’irrigazione, nel breve tempo di una due generazione, ha consentito a gran parte dei vecchi contadini di risvegliarsi imprenditori e comunque tali da cambiare scenario nelle campagne menfitane.
lunedì 20 ottobre 2025
Alimentazione, mangiare è ancora un atto agricolo?
Peppino Bivona
Belìce di Mare Gennaio 2024
Un motto che nella sua semplicità assicurava che tutto ciò che era naturale poteva essere considerato alimento, era commestibile ,insomma il “cibo” era tutto ciò che poteva essere mangiato . C’erto erano tempi in cui l’ingiustizia sociale faceva da corollario alla povertà e alla fame. Eppure la povertà alimentare rurale spesso non era disgiunta da una “abbondanza frugale” un apparente ossimoro ma contrariamente alle condizioni di oggi ,che pur paradossale che possa sembrare, al limite della illogicità , siamo perennemente satolli e sovralimentati, ma …sottonutriti.. La quantità primeggia sulla qualità ,i macronutrienti prevalgono sui micronutrienti. Insomma in questi nostri tempi moderni non abbiamo un buon rapporto col cibo, ( e non solo!) un giusto e misurato equilibrio: viviamo in una perenne esasperata apprensione ,una fame insaziabile!.Le ragioni sono molte e complesse, le dinamiche economiche che caratterizzano le vicende storiche dell’ultimo secolo ,non hanno risparmiato il cibo, l’alimento, che da un bene atto a soddisfare un bisogno diviene merce , cosi il suo valore di scambio prevale o sopprime il valore d’uso.
sabato 11 ottobre 2025
Il cavaliere Giuseppe Volpe
“Resta nella storia” dissi rivolgendomi a Filippo e rompendo il silenzio “Che un ammanco di grano di diversi quintali sottratti alla Cooperativa Colajanni, nel dopoguerra, possa essere imputabile ai passeracei voraci che ,cip cip ,giorno e notte trasportavano attraverso una finestrella ,nei loro nidi gran parte del grano stoccato in magazzino”
martedì 7 ottobre 2025
I barbari domestici
Peppino
Bivona
Belice di Mare, Agosto 2024
Il viandante
che attraversa le nostre contrade è attratto
dalla campagna menfitana per un suo particolare ed irresistibile fascino: interagisce,si
articola, si lascia coinvolgere con lo sfondo azzurro del mare africano.
Un panorama
particolare,una scenografia accattivante
che si lascia godere appena si
abbandona l’entroterra e si
scende verso la costa. Un susseguirsi
ininterrotto di ampi gradoni
ovvero di terrazze marine che
leggermente degradano verso il mare aperto.
Se invece il viandante percorre la vecchia statale 115
da est ad ovest e viceversa , la scena appare più intrigante. Al susseguirsi di
docili colline che si alternano a fondovalle, si
distendono piccoli appezzamenti regolari, delimitanti i carciofeti, i pochi seminativi, qualche
uliveto e le ampie distese di vigneti.
Il mare, come per gioco, vi appare e poi subito scompare, ad una curva si
cela per poi inaspettatamente svelarsi
,mostrando tutta la sua calma distesa, il suo inconfondibile colore. Questa
magia ci viene regalata grazie ai dodici kilometri di costa, che sommati a quelli belicini, fanno un tratto di campagna-costiera, dal
Belice al Carboj , decisamente unico. Il verde dei vigneti o il giallo dei seminati “sfociano “
nell’azzurro del mare.
Se la campagna mostra il suo
fascino,l’agricoltura di questi luoghi
deve fare i conti con le frequenti mareggiate
che, trasportando goccioline di salsedine, non risparmiano le coltivazioni litoranee. Perciò i
contadini hanno studiato tutta una serie
di apprestamenti per difendere le loro coltivazioni.
Lo chiamavano Peppe di Mare,
un curioso soprannome ,perché non
era un pescatore bensì un contadino ,
povero quanto e forse più dei marinai del luogo. Possedeva buona parte della
collina che sovrastava l’antico borgo marinaro che come un ampio terrazzo, si
affacciava nello stupendo mare tra le “ Solette” e la “Conca della regina”.
Suo nonno l’aveva comprata
dai principi Pignatelli per pochi denari ,nessuno aspirava
a possedere quella “bella” ma
sterile collina. Ma al povero Peppe
quella “ bellezza “ non lo
incuriosiva più di tanto, in fondo l’incanto
suscitato per le attrattive
paesaggistiche è stata tutta una” invenzione” della modernità. Peppe
come suo padre non si lasciava incantare né
distrarre da questo paesaggio mozzafiato, impegnati come erano,
da mattina a sera,con la schiena curva, a zappettare il grano in primavera
o a mieterlo nel mese di giugno. Quel grano cresceva a stento,vuoi per
la cattiva natura del terreno, prevalentemente argillosa , ma ancor più, per le
sferzate di vento carico di salsedine che flagellava la coltura. Così come la vegetazione costiera per difendersi cresceva poco e restava bassa quasi strisciante, raramente le spighe
di grano riuscivano ad arrivare a buon fine . Le buone annate nella vita di
Peppe si contavano come le dita della mano !
All’epoca
c’era un tempo per ogni cosa:
dopo la mietitura e la successiva trebbiatura, i lavori agricoli si placavano, perciò arrivava il tempo di “andare al mare” .
La partenza era sempre animata, movimentata , al vocio chiassoso di
noi ragazzi ,si imponeva l’ordine perentorio degli adulti ai quali spettava il
compito di caricare sulla mula la brocca
con l’acqua, gli ombrelli grandi e neri, le seggiole basse e tante altre cose ritenute di pratica utilità. Dalla vecchia
casa posta sulla sommità della collina la “carovana” seguiva il vecchio Peppe
che con la sua mula faceva da battistrada giù per lo stretto viottolo
e si snodava tra gli asfodeli e
le palme nane, i giunchi, sospeso tra cielo e mare. Dopo infinite
curve, finiva, quasi di sorpresa,a ridosso della mitica spiaggia delle “ solette”. Un tratto
di arenile a forma di mezzaluna che si
estendeva alla fine di una profonda vallata, mentre poco distante, nel mare
aperto, una serie di rocce affioranti
piatte e irregolari si
allungavano di fronte a noi come tante piccole isolette( o come diceva il
vecchio Peppe “solette” ovvero come le
suole delle scarpe).
Questi “luoghi” appartenevano
a Peppe e ai pochi abitanti della zona.
Era tutto il suo mondo. ”Suoi” erano le fredde giornate invernali, quando
la pioggia insistente e violenta , si abbatteva inesorabilmente sul suo volto e su quel
sottile strato di suolo
argilloso mentre cercava di
affidare il seme al terreno.”Suoi” i
venti infuocati di tramontana che
puntualmente arrivavano nei mesi più caldi
ad abbrustolire le poche stoppie. “Suoi” le raffiche di scirocco
carichi di salsedine che
danneggiavano irreparabilmente la vegetazione. “Suoi” le fatiche quotidiane ,il
sudore per strappare a questa avara terra un misero raccolto.
Così come “Sue” erano
le prime brezze che nelle giornate più assolate sentiva salire dalla
costa,cariche di profumo di mare, sature
di essenze floreali. “Suoi” erano
i chiarori di luna che scopriva la mattina presto,una luna piena e
rotonda,che prima di tramontare, di tuffarsi , si specchiava nell’argenteo mare .”Suo” era il silenzio ,
tanto silenzio , interrotto a tratti dal
canto degli uccelli o dal rumoreggiare del mare. “Suo” era questo
piccolo tratto di spiaggia,questo mare….
Tutto questo rappresentava
per il vecchio contadino il suo
patrimonio materiale e spirituale,
tutto quanto costituiva la sua unica ricchezza che un giorno avrebbe
trasmesso per intero ai suoi
figli e nipoti. Questa terra ,diceva
il vecchio Peppe ,era la sua “croce e
delizia”.
Se i luoghi hanno un’anima, come dice Hillman, di
certo sono sedi di uno spirito del
luogo,il”genius loci”.
Peppe di Mare e i suoi si erano “guadagnati”
l’anima di questi luoghi
attraverso la lenta ma costante
accumulazione e deposito degli affetti, operata per decenni
da diverse generazioni che li
l’avevano vissuto, rispettandone la natura, il senso del limite, la
sobrietà , l’interiorità ,la forma.
Peppe possedeva un rapporto intimo e cosciente
con quel “luogo”, aveva consolidato una cultura stabile e “sostenibile” che
aveva alle spalle una visione conservativa, la sua esistenza era segnata dalla
ciclicità, costellata da una intensa vita cerimoniale e rituale. Per Peppe
abitare voleva dire permettere all’anima
dei luoghi di manifestarsi in chi vive
in quel posto, assorbirla in sé, rispettandola e rilasciandola in modo creativo
, cosi che l’abitare diviene un atto “sacro”.
Molto probabilmente gli antenati di Peppe circondavano di pietre i luoghi che
ritenevano sacri per proteggerne lo spirito e
la sua identità : cosi nascevano i templi consacrati alle divinità.
Di certo
questo scenario sembrava non dovesse avere mai fine .
Ma un giorno all’improvviso
arrivarono i barbari, alcuni venivano da
lontano ma i più erano nostrani
.Predoni, come uccelli rapaci calarono dall’alto, comprarono tutto, si appropriarono
delle “delizie”, il meglio che quei luoghi potessero esprimere.
Scavarono, livellarono, costruirono con razionalità strumentale, con praticità
riduttiva e in nome della funzionalità
squarciarono l’interiorità dei luoghi.
Ora ne fruiscono per soli
pochi mesi estivi,distratti, annoiati :efflorescenze senza radici!
I barbari
nostrani, non hanno “storia”, sono senza passato né memoria ,sono
portatori di un modello “civilizzato” che privatizza il panorama che reprime la
“bellezza”, impedisce le emozioni offende
il sentimento , prepara il deserto!
martedì 30 settembre 2025
L'eredità della memoria: Sabato a Menfi omaggio a Peppino Bivona
“Ora noi siamo qui a chiederci, la vita umana finisce con la morte come una stella? Per noi laici e non credenti possiamo accettare che la morte sia l'ultima parola sulla vita? Possiamo vivere una trascendenza nell'immanenza? La morte è la fine naturale di tutte le cose. Ma la vita umana pienamente vissuta, una vita viva, costellata di passioni, operosa, animata da desideri, eccedente la vita stessa... non muore!” Così scriveva Peppino Bivona in uno dei suoi tanti scritti.Queste parole rappresentano il cuore dell'evento organizzato in suo onore, un momento di celebrazione della sua eredità culturale e del suo impegno per il mondo rurale e la valorizzazione del territorio.
Nato a Menfi nel 1948, Peppino Bivona si è laureato in Scienze Agrarie e ha insegnato materie tecniche negli istituti agrari. Dal 1976 ha svolto un ruolo fondamentale nell’assistenza tecnica per l’Ente di Sviluppo Agricolo della Regione Siciliana, e fino al 2010 ha diretto con grande impegno l’azienda sperimentale dimostrativa. Oltre alla sua carriera professionale, Peppino è stato un giornalista attivo, collaborando con numerose testate del settore agricolo, tra cui il sito della Libera Università Rurale, di cui era Presidente.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Diario dell’Ulivo Saraceno” (2018), “Chicco di Sole” (2021) e “Il Sole nel Bicchiere, Menfi e il suo territorio”. La sua opera ha contribuito in modo significativo alla valorizzazione del patrimonio agricolo e culturale delle Terre Sicane.
In Sicilia il Genius Loci della gastronomia
La Sicilia, terra di sole e di vento, di colline profumate e di mari che raccontano storie antiche, quest’anno celebra un riconoscimento che profuma di orgoglio: è stata proclamata da Igcat “Regione europea della gastronomia”. Non è un caso, ma la naturale consacrazione di un’isola che da sempre custodisce nei suoi campi, nelle sue cucine e nei suoi mercati un patrimonio unico al mondo.
Dietro ogni prodotto certificato DOP o IGP non ci sono solo disciplinari e numeri, ma la voce profonda di un territorio che parla attraverso il gusto. L’olio che scivola dorato sul pane, il cioccolato che conserva antiche lavorazioni, il vino che racchiude il respiro delle vigne e della pietra: sono segni concreti di un’identità che non si lascia dimenticare.
Con 67 denominazioni riconosciute, tra cibo e vino, la Sicilia non offre soltanto eccellenze gastronomiche: offre narrazioni di comunità, storie di uomini e donne che da generazioni si fanno custodi di un sapere antico. Ogni DOP e IGP è una carta d’identità del territorio, e il loro valore – oltre i 555 milioni di euro che contribuiscono alla Dop Economy nazionale – è prima di tutto culturale, umano, collettivo.
Ed è proprio qui che si inserisce il percorso dei Borghi Genius Loci De.Co., quel mosaico identitario che mette al centro i luoghi e le persone. Perché se i marchi europei danno regole e garanzie, la De.Co. restituisce il battito del cuore dei borghi: i profumi delle feste popolari, le ricette che non hanno bisogno di manuali, ma si tramandano con un gesto delle mani e con un segreto sussurrato.
In questo viaggio, accanto ai prodotti, camminano i Custodi dell’identità territoriale, donne e uomini che hanno scelto di difendere e raccontare le tradizioni, salvaguardando ciò che rischierebbe di perdersi. Con loro, gli Ambasciatori dell’identità territoriale, chiamati a portare nel mondo il messaggio di un’isola che non si limita a produrre eccellenze, ma le trasforma in strumenti di diplomazia culturale e di sviluppo sostenibile.
Le cifre parlano chiaro: province come Trapani e Agrigento trainano un sistema economico che coinvolge oltre 19.000 operatori, eppure è la narrazione dietro queste cifre a renderle vive. È la visione di contadini, pastori, artigiani e viticoltori che hanno saputo trasformare la fatica in bellezza. È il Cioccolato di Modica che cresce del 10%, ma anche la carezza di chi lo lavora ancora a pietra. È il Pecorino Siciliano che vale milioni, ma soprattutto vale il sorriso degli anziani che insegnano ai giovani a non dimenticare.
Essere Regione europea della gastronomia non è solo un premio, ma una missione: ricordare che il futuro della Sicilia passa dalla capacità di coniugare tradizione e innovazione, radici e visione, identità e sviluppo. È la sfida di un’isola che sa raccontarsi attraverso i suoi borghi, attraverso i suoi custodi, attraverso i suoi ambasciatori.
la Sicilia non celebra soltanto un titolo. Celebra sé stessa: la sua anima antica e contemporanea, il suo Genius Loci capace di emozionare chi la abita e chi la scopre, ogni giorno, come fosse la prima volta.
venerdì 19 settembre 2025
Vai Italia, l'inno di Al Bano e Mogol per la candidatura
La cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale, domenica 21 la presentazione dell'inno
Quando il cibo viene ancorato in maniera identitaria ad un territorio, smette di essere un momento culinario e diventa esperienza totale. In questo modo coinvolge immediatamente i quatto sensi, vedere, annusare, gustare e toccare; ma quando un cibo è veramente ancorato ad un territorio tocca anche l’udito, perché si racconta e racconta il territorio. Quando arriva nel piatto, quel cibo ti ha detto tante cose e quando lo assapori diventa esperienza avvolgente, coinvolgente e identitaria di quel luogo. Il termine genius loci, di origine latina, definisce letteralmente il “genio”, lo spirito, l’anima di un luogo è caratterizza l’insieme delle peculiarità sociali, culturali, architettoniche, ambientali e identitarie di una popolazione e l’evoluzione di quest’ultima nel corso della storia.
La cucina italiana rappresenta un vero e proprio mosaico di tradizioni che riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo dei pasti come un’occasione di condivisione e al tempo stesso di confronto.
La Rete Nazionale dei Borghi GeniusLoci De.Co., IDIMED e altri, sostengono la Candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità promossa dal Governo, insieme a quanti sono impegnati e dedicati alla divulgazione culturale, all’educazione alimentare, alla formazione e alla promozione del territorio, in Italia e all’estero. Con un obiettivo chiaro: tutelare e valorizzare la cultura alimentare e i prodotti agroalimentari di qualità, ponendo particolare attenzione al patrimonio identitario delle produzioni agroalimentari
La candidatura della cucina italiana all’Unesco ha trovato la sua voce ufficiale in una canzone che porta la firma di due protagonisti della musica leggera: Al Bano Carrisi e Mogol. Insieme a cinquanta bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano di Bologna, i due artisti hanno inciso un brano pensato per accompagnare il percorso verso il riconoscimento internazionale. L’atteso verdetto arriverà a dicembre a Nuova Delhi, ma già da settimane si moltiplicano le iniziative di sostegno.
Perché la cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale
La proposta di inserire la cucina italiana nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità è stata ufficialmente lanciata nel marzo 2023 dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste.
La cucina italiana è un patrimonio fatto di conoscenze, gesti quotidiani e pratiche sociali che vanno oltre il semplice cucinare, per questo motivo preparare un piatto e condividerlo diventa un modo per tramandare la memoria familiare, rinsaldare i legami e creare comunità. Ogni territorio contribuisce con le proprie tradizioni, offre un patrimonio che tutela la biodiversità, valorizza la stagionalità degli ingredienti e invita a dare nuova vita agli avanzi, trasformandoli in cultura condivisa.
Oggi questo patrimonio riguarda circa 60 milioni di italiani nel Paese e oltre 80 milioni di connazionali e discendenti all’estero e a essi si aggiungono milioni di stranieri che vedono nello stile alimentare italiano un modello di convivialità e benessere.
Quando sarà presentato l’inno di Al Bano e Mogol per la candidatura
Per accompagnare la candidatura Unesco è nato un brano musicale intitolato ‘Vai Italia’: il testo di Mogol, musicato da Oscar Prudente, è stato inciso da Al Bano insieme ai bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano.
A presentare ufficialmente’Vai Italia’ al pubblico televisivo sarà Mara Venier, nella puntata inaugurale di ‘Domenica In’ del 21 settembre. In quella stessa giornata, in numerose piazze italiane, si terranno pranzi collettivi ispirati al tradizionale “pranzo della domenica”, simbolo di convivialità e occasione di sostegno pubblico alla candidatura.
Il progetto ha l’obiettivo di ricordare che la cucina è linguaggio universale, capace di unire generazioni e territori attraverso il valore condiviso del cibo.
In una intervista al ‘Corriere della Sera’, Al Bano, a ridosso dell’imminente debutto dell’inno, ha dichiarato: “dal punto di vista culinario il nostro Paese non è secondo a nessuno. Ai fornelli facciamo i fuochi pirotecnici”.
Ha aggiunto che per lui è impossibile scegliere un solo piatto preferito, perché “Ogni regione ha sei o sette specialità che possono essere definite incredibili“.




