sabato 11 ottobre 2025

Il cavaliere Giuseppe Volpe


Il cavaliere Giuseppe Volpe
(Peppi  Vurpi)





di Peppino Bivona   
Belice  di Mare  2018
  
Al circolo Universitario quel pomeriggio  le ore trascorrevano   lente e pigre, quando in lontananza sentimmo il rumore delle
saracinesche abbassarsi con  sincronica sequenza, l’ultima, quella più rimbombante, che destò i più intorpiditi, arrivò dalla
rivendita di tabacchi  di don Lillo  Tavormina, di fronte al nostro Circolo.  
 Ricordo che la buonanima di Filippo Alesi,a cui la curiosità non faceva difetto, si alzò, apri l’ampia  vetrata che dava sulla strada ed esclamò 
“Si portano a Peppi Vurpi|!”
 I più, noncuranti, non si distrassero più di tanto, continuarono la lettura del giornale, ma Filippo mi rivolse lo sguardo e dal segno della testa, compresi ch’era doveroso tributare un ultimo saluto a questo singolare personaggio che per più di mezzo secolo fu protagonista delle vicende menfitane .
Ci accodammo allo striminzito corteo funebre , poche persone , ancor meno la presenza di  parenti.
  
Di Peppi Vurpi eravamo attratti  da una singolare curiosità, in modo   particolare dopo aver letto la sua intervista rilasciata a Danilo Dolci in “ Spreco” .Una personalità  dall’aspetto modesto e dai modi semplici, ma che inevitabilmente lo troviamo al centro dei nodi cruciali della vita politica menfitana, tra vicende storiche complesse  e talvolta complicate ,che per anni hanno animato  accesi
dibattiti  dando luogo a giudizi contrastanti.
Per anni lo abbiamo visto seduto dietro il bancone della rivendita di tabacchi in via della Vittoria, con lo scialle sulle gambe, premurosamente accudito dalla moglie e dalla
cognata santamariganterese.
 “ Cavalè ,una nazionale ed una esportazione senza filtro”  e lui calmo e docile apriva la bustina ed introduceva le due sigarette per 20lire. Dietro il bancone sembrava piccolo ,piccolo, eppure  per questo paese  era stato un “Gigante”
La lunga strada che porta al cimitero conta un paio di kilometri , non molti  ma neanche pochi ,in verità sufficienti a meditare sulla vita del defunto, quasi a consentirne un singolare bilancio, certo disgiunto  dalla pietà che si deve  per chi lascia  questo mondo.
“Resta nella storia” dissi rivolgendomi a Filippo e rompendo il silenzio “Che un ammanco di grano di diversi quintali sottratti alla Cooperativa Colajanni, nel dopoguerra, possa essere imputabile ai  passeracei voraci che ,cip cip ,giorno e notte  trasportavano attraverso una finestrella ,nei loro nidi gran parte del grano stoccato in magazzino”
Filippo, rallentò un poco il passo, poi riprese” La verità è che voi comunisti non l’avete mai “digerito” un uomo che non fosse legato ad alcuna ideologia, fuori dagli apparati, che pensa con la sua testa: vi risulta alquanto scomodo. L’esproprio del feudo Fiore  resta il suo vero “capolavoro” .Ti sei mai chiesto perché solo a Menfi il movimento “Reduci e Combattenti” divenne vincente? Perché a Ribera come in altri paesi non avvennero alcun esproprio? Peppi Vurpi ebbe l’intelligenza di motivare l’esproprio del feudo Fiore non solo per distribuire le terre ai combattenti ( come era stato promesso da Diaz sul fronte del  Carso) ma legarla ad una giustificazione di natura sanitaria ,ovvero quei terreni incolti o scarsamente coltivati erano la vera e principale fonte di malaria”
Restammo un po’ indietro  in previsione che la discussione potesse accendersi.
Replicai:”L’esproprio del feudo Fiore è ancora tutto da scrivere. Resta comunque il fatto che Peppe Vurpi non ha mai creduto alla Riforma Agraria, neanche quando nel dopoguerra militò nelle file del partito Comunista. Anzi molte delle sue azioni furono indirizzate a contrastare i pur minimi tentativi di espropriazione di terreni incolti o scarsamente coltivati”. Filippo si fermò accese la sigaretta e replicò “ Se dobbiamo dire la verità, e si eccettua qualche dirigente regionale ,come Li Causi, il partito Comunista nazionale non aveva capito niente dei problemi della terra e dei contadini. In fondo restava prigioniero della visione marxista-leninista, dove la classe operaia era la sola designata a realizzare la rivoluzione”
Ora si vedevano i primi alberi lungo la strada del camposanto. Capii che Peppi Vurpi, per meglio “decifrare” la sua vita avevamo bisogno di molti altri Kilometri            

 Il corteo si arrestò al cancello del cimitero , tra i pochi che si avvicinarono alla bara  scorsi
l’ingengnere “Sasa” Li Petri.  Alzo il suo lungo braccio, come a chiedere attenzione e con voce commossa rotta dall’emozione esclamò :
“ Peppe questo paese  ti ha lasciato  solo   non ha  avuto il “coraggio”  di riconoscere i tuoi meriti,il tanto bene che hai fatto per loro.
Sono rimasti a casa  hanno avuto “paura” di tributarti  l’ultimo saluto!
 Ma io sono certo  che un giorno i loro figli e nipoti ti saranno grati per quanto  hai saputo fare per questa  comunità.”
Il geometra Rosario Li Petri non parlava molto ma quel pomeriggio  aveva una gran voglia di raccontare come erano andati i fatti !
Tra i tanti che erano rimasti a casa c’erano alcuni che non hanno mai condiviso il trasformismo di Peppi Vurpi ,  considerandolo privo di una coerenza ideale e politica.
Resta innegabile che Il nostro Peppe da vero contadino  aveva saputo interpretare quell’atavica “fame “ di terra , Quella terra che quei “dannati “ se la sentivano addosso come una seconda pelle.  Questa terra da lavorare , che esigeva
fatiche quasi disumane,  da mattina a sera , col cado e con la pioggia o col vento, tutti i santi giorni:  doveva
essere  Sua,aveva il sacrosanto diritto di averne il pieno e totale possesso!
 Il frutto del suo sudore non andava spartito con nessuno!
 Oggi  a distanza di molti anni  attraversiamo  distratti  queste nostre campagne menfitane, godiamo di un paesaggio agricolo unico ed inconfondibile, espressione di una ruralità ,un  tessuto  sociale,  di una struttura  economica   felicemente  e armoniosamente  combinati.
Ebbene, Si, questo piccolo miracolo  lo dobbiamo in buona parte  a questo piccolo modesto lungimirante contadino

martedì 7 ottobre 2025

I barbari domestici

 


Peppino Bivona

Belice di Mare, Agosto 2024

 


   Il viandante che attraversa le nostre contrade è attratto  dalla campagna menfitana per un suo particolare  ed irresistibile fascino: interagisce,si articola, si lascia coinvolgere con lo sfondo azzurro del mare africano.

 Un panorama particolare,una scenografia accattivante  che si lascia godere appena si  abbandona l’entroterra  e si scende verso la costa. Un susseguirsi  ininterrotto di  ampi gradoni ovvero  di terrazze marine che leggermente degradano verso  il  mare aperto.

Se invece il viandante percorre la vecchia statale 115 da est ad ovest e viceversa , la scena appare più intrigante. Al susseguirsi di docili colline  che si alternano a fondovalle, si distendono  piccoli  appezzamenti regolari, delimitanti  i carciofeti, i pochi seminativi, qualche uliveto  e le ampie distese di vigneti.

Il mare, come per gioco, vi  appare e poi subito scompare, ad una curva si cela per poi inaspettatamente  svelarsi ,mostrando tutta la sua calma distesa, il suo inconfondibile colore. Questa magia ci viene regalata  grazie  ai dodici kilometri di costa, che sommati  a quelli belicini,  fanno un tratto di campagna-costiera, dal Belice al Carboj , decisamente unico. Il verde dei  vigneti o il giallo dei seminati “sfociano “ nell’azzurro del mare.

Se la campagna mostra il suo fascino,l’agricoltura  di questi luoghi deve fare i conti con le frequenti mareggiate  che, trasportando goccioline di salsedine, non risparmiano  le coltivazioni litoranee. Perciò i contadini  hanno studiato tutta una serie di apprestamenti per difendere le loro coltivazioni. 

Lo chiamavano Peppe di Mare, un curioso soprannome ,perché  non era  un pescatore bensì un contadino , povero quanto e forse più dei marinai del luogo. Possedeva buona parte della collina che sovrastava l’antico borgo marinaro che come un ampio terrazzo, si affacciava nello stupendo mare tra le “ Solette” e la “Conca della regina”.

Suo nonno l’aveva comprata dai principi Pignatelli per pochi denari ,nessuno  aspirava  a possedere quella  “bella” ma sterile collina. Ma al povero Peppe  quella “ bellezza “ non  lo incuriosiva più di tanto, in fondo l’incanto  suscitato  per le attrattive paesaggistiche  è stata  tutta una” invenzione” della modernità. Peppe come suo padre non si lasciava incantare né  distrarre da questo paesaggio mozzafiato, impegnati  come erano,  da mattina a sera,con la schiena curva, a zappettare il grano  in primavera  o a mieterlo nel mese di giugno. Quel grano cresceva a stento,vuoi per la cattiva natura del terreno, prevalentemente argillosa , ma ancor più, per le sferzate di vento carico di salsedine che flagellava la coltura. Così come  la vegetazione costiera per  difendersi cresceva  poco e restava  bassa quasi strisciante, raramente le spighe di grano riuscivano ad arrivare a buon fine . Le buone annate nella vita di Peppe si contavano come le dita della mano !

 All’epoca  c’era un tempo per ogni cosa:  dopo la mietitura e la successiva trebbiatura, i lavori agricoli  si placavano, perciò arrivava il tempo   di “andare al mare” .

La partenza era sempre  animata, movimentata , al vocio chiassoso di noi ragazzi ,si imponeva l’ordine perentorio degli adulti ai quali spettava il compito di caricare sulla mula la brocca  con l’acqua, gli ombrelli grandi e neri, le seggiole basse  e tante altre cose  ritenute di pratica utilità. Dalla vecchia casa posta sulla sommità della collina la “carovana” seguiva il vecchio Peppe che con la sua mula faceva da battistrada giù per lo stretto  viottolo  e si snodava  tra gli asfodeli e le palme nane,  i giunchi,   sospeso tra cielo e mare. Dopo infinite curve, finiva, quasi di sorpresa,a ridosso della  mitica spiaggia delle “ solette”. Un tratto di arenile a forma di  mezzaluna che si estendeva alla fine di una profonda vallata, mentre poco distante, nel mare aperto, una serie di rocce affioranti   piatte e irregolari  si allungavano  di fronte a noi  come tante piccole isolette( o come diceva il vecchio Peppe “solette” ovvero come le  suole delle scarpe).

Questi “luoghi” appartenevano a Peppe e ai   pochi abitanti  della zona.

Era  tutto il suo mondo. ”Suoi” erano le  fredde giornate invernali,  quando  la pioggia insistente e violenta , si abbatteva  inesorabilmente sul suo volto e su quel sottile strato  di  suolo  argilloso  mentre cercava di affidare il seme al terreno.”Suoi”  i venti  infuocati di tramontana che puntualmente arrivavano nei mesi più caldi  ad abbrustolire le poche stoppie. “Suoi” le  raffiche  di scirocco  carichi  di salsedine che danneggiavano irreparabilmente la vegetazione. “Suoi” le fatiche quotidiane ,il sudore per strappare a questa avara terra un misero raccolto.

Così come  “Sue” erano  le prime brezze che nelle giornate più assolate sentiva salire dalla costa,cariche di profumo di mare, sature  di essenze floreali.  “Suoi” erano i   chiarori di luna che scopriva  la mattina presto,una luna piena e rotonda,che  prima di tramontare,   di tuffarsi , si specchiava  nell’argenteo mare .”Suo” era il silenzio , tanto silenzio , interrotto a tratti dal  canto degli uccelli o dal rumoreggiare del mare. “Suo” era questo piccolo  tratto di spiaggia,questo mare….

Tutto questo rappresentava per il vecchio contadino il suo   patrimonio  materiale e spirituale, tutto quanto costituiva la sua unica ricchezza che un giorno avrebbe trasmesso  per intero  ai suoi figli e nipoti.  Questa terra ,diceva il vecchio Peppe ,era  la sua “croce e delizia”.

Se i luoghi hanno un’anima, come dice Hillman, di certo sono sedi di uno spirito  del luogo,il”genius loci”.

Peppe di Mare e i suoi si erano  “guadagnati”  l’anima di questi luoghi  attraverso la lenta ma costante  accumulazione e deposito degli affetti, operata  per decenni  da diverse generazioni che li  l’avevano vissuto, rispettandone la natura, il senso del limite, la sobrietà , l’interiorità ,la forma.

 Peppe possedeva un rapporto intimo e cosciente con quel “luogo”, aveva consolidato una cultura stabile e “sostenibile” che aveva alle spalle una visione conservativa, la sua esistenza era segnata dalla ciclicità, costellata da una intensa vita cerimoniale e rituale. Per Peppe abitare voleva  dire permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi  in chi vive in quel posto, assorbirla in sé, rispettandola e rilasciandola in modo creativo , cosi che l’abitare diviene un atto “sacro”.

 Molto probabilmente gli antenati di Peppe  circondavano di pietre i luoghi che ritenevano sacri per proteggerne lo spirito e  la sua identità : cosi nascevano i templi consacrati alle divinità.

 

 Di certo  questo scenario sembrava non dovesse avere mai fine .

Ma un giorno all’improvviso arrivarono i barbari,  alcuni venivano da lontano  ma i più erano nostrani .Predoni, come uccelli rapaci calarono dall’alto, comprarono tutto, si appropriarono delle “delizie”, il meglio che quei luoghi potessero esprimere. Scavarono, livellarono, costruirono con razionalità strumentale, con praticità riduttiva  e in nome della funzionalità squarciarono l’interiorità dei luoghi.

Ora ne fruiscono per soli pochi mesi estivi,distratti, annoiati :efflorescenze  senza radici!

 I barbari nostrani, non hanno “storia”, sono senza passato né memoria ,sono portatori  di un modello “civilizzato”  che privatizza il panorama che reprime la “bellezza”,  impedisce le emozioni offende il sentimento , prepara il deserto!

martedì 30 settembre 2025

L'eredità della memoria: Sabato a Menfi omaggio a Peppino Bivona


 
Ora noi siamo qui a chiederci, la vita umana finisce con la morte come una stella? Per noi laici e non credenti possiamo accettare che la morte sia l'ultima parola sulla vita? Possiamo vivere una trascendenza nell'immanenza? La morte è la fine naturale di tutte le cose. Ma la vita umana pienamente vissuta, una vita viva, costellata di passioni, operosa, animata da desideri, eccedente la vita stessa... non muore!” Così scriveva Peppino Bivona in uno dei suoi tanti scritti.

Queste parole rappresentano il cuore dell'evento organizzato in suo onore, un momento di celebrazione della sua eredità culturale e del suo impegno per il mondo rurale e la valorizzazione del territorio.

Nato a Menfi nel 1948, Peppino Bivona si è laureato in Scienze Agrarie e ha insegnato materie tecniche negli istituti agrari. Dal 1976 ha svolto un ruolo fondamentale nell’assistenza tecnica per l’Ente di Sviluppo Agricolo della Regione Siciliana, e fino al 2010 ha diretto con grande impegno l’azienda sperimentale dimostrativa. Oltre alla sua carriera professionale, Peppino è stato un giornalista attivo, collaborando con numerose testate del settore agricolo, tra cui il sito della Libera Università Rurale, di cui era Presidente.

Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Diario dell’Ulivo Saraceno” (2018), “Chicco di Sole” (2021) e “Il Sole nel Bicchiere, Menfi e il suo territorio”. La sua opera ha contribuito in modo significativo alla valorizzazione del patrimonio agricolo e culturale delle Terre Sicane.

 

In Sicilia il Genius Loci della gastronomia

 



La Sicilia, terra di sole e di vento, di colline profumate e di mari che raccontano storie antiche, quest’anno celebra un riconoscimento che profuma di orgoglio: è stata proclamata da Igcat “Regione europea della gastronomia”. Non è un caso, ma la naturale consacrazione di un’isola che da sempre custodisce nei suoi campi, nelle sue cucine e nei suoi mercati un patrimonio unico al mondo.

Dietro ogni prodotto certificato DOP o IGP non ci sono solo disciplinari e numeri, ma la voce profonda di un territorio che parla attraverso il gusto. L’olio che scivola dorato sul pane, il cioccolato che conserva antiche lavorazioni, il vino che racchiude il respiro delle vigne e della pietra: sono segni concreti di un’identità che non si lascia dimenticare.

Con 67 denominazioni riconosciute, tra cibo e vino, la Sicilia non offre soltanto eccellenze gastronomiche: offre narrazioni di comunità, storie di uomini e donne che da generazioni si fanno custodi di un sapere antico. Ogni DOP e IGP è una carta d’identità del territorio, e il loro valore – oltre i 555 milioni di euro che contribuiscono alla Dop Economy nazionale – è prima di tutto culturale, umano, collettivo.

Ed è proprio qui che si inserisce il percorso dei Borghi Genius Loci De.Co., quel mosaico identitario che mette al centro i luoghi e le persone. Perché se i marchi europei danno regole e garanzie, la De.Co. restituisce il battito del cuore dei borghi: i profumi delle feste popolari, le ricette che non hanno bisogno di manuali, ma si tramandano con un gesto delle mani e con un segreto sussurrato.

In questo viaggio, accanto ai prodotti, camminano i Custodi dell’identità territoriale, donne e uomini che hanno scelto di difendere e raccontare le tradizioni, salvaguardando ciò che rischierebbe di perdersi. Con loro, gli Ambasciatori dell’identità territoriale, chiamati a portare nel mondo il messaggio di un’isola che non si limita a produrre eccellenze, ma le trasforma in strumenti di diplomazia culturale e di sviluppo sostenibile.


Le cifre parlano chiaro: province come Trapani e Agrigento trainano un sistema economico che coinvolge oltre 19.000 operatori, eppure è la narrazione dietro queste cifre a renderle vive. È la visione di contadini, pastori, artigiani e viticoltori che hanno saputo trasformare la fatica in bellezza. È il Cioccolato di Modica che cresce del 10%, ma anche la carezza di chi lo lavora ancora a pietra. È il Pecorino Siciliano che vale milioni, ma soprattutto vale il sorriso degli anziani che insegnano ai giovani a non dimenticare.

Essere Regione europea della gastronomia non è solo un premio, ma una missione: ricordare che il futuro della Sicilia passa dalla capacità di coniugare tradizione e innovazione, radici e visione, identità e sviluppo. È la sfida di un’isola che sa raccontarsi attraverso i suoi borghi, attraverso i suoi custodi, attraverso i suoi ambasciatori.

 la Sicilia non celebra soltanto un titolo. Celebra sé stessa: la sua anima antica e contemporanea, il suo Genius Loci capace di emozionare chi la abita e chi la scopre, ogni giorno, come fosse la prima volta.


 

venerdì 19 settembre 2025

Vai Italia, l'inno di Al Bano e Mogol per la candidatura

   

La cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale, domenica 21 la presentazione dell'inno

Quando il cibo viene ancorato in maniera identitaria ad un territorio, smette di essere un momento culinario e diventa esperienza totale. In questo modo coinvolge immediatamente i quatto sensi, vedere, annusare, gustare e toccare; ma quando un cibo è veramente ancorato ad un territorio tocca anche l’udito, perché si racconta e racconta il territorio. Quando arriva nel piatto, quel cibo ti ha detto tante cose e quando lo assapori diventa esperienza avvolgente, coinvolgente e identitaria di quel luogo. Il termine genius loci, di origine latina, definisce letteralmente il “genio”, lo spirito, l’anima di un luogo è caratterizza l’insieme delle peculiarità sociali, culturali, architettoniche, ambientali e identitarie di una popolazione e l’evoluzione di quest’ultima nel corso della storia. 

La cucina italiana rappresenta un vero e proprio mosaico di tradizioni che riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo dei pasti come un’occasione di condivisione e al tempo stesso di confronto.



La  Rete Nazionale dei Borghi GeniusLoci De.Co., IDIMED  e altri,  sostengono  la Candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità promossa dal Governo,  insieme quanti sono impegnati e dedicati alla divulgazione culturale, all’educazione alimentare, alla formazione e alla promozione del territorio, in Italia e all’estero. Con un obiettivo chiaro: tutelare e valorizzare la cultura alimentare e i prodotti agroalimentari di qualità, ponendo particolare attenzione al patrimonio identitario delle produzioni agroalimentari  

PARTECIPA

La candidatura della cucina italiana all’Unesco ha trovato la sua voce ufficiale in una canzone che porta la firma di due protagonisti della musica leggera: Al Bano Carrisi e Mogol. Insieme a cinquanta bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano di Bologna, i due artisti hanno inciso un brano pensato per accompagnare il percorso verso il riconoscimento internazionale. L’atteso verdetto arriverà a dicembre a Nuova Delhi, ma già da settimane si moltiplicano le iniziative di sostegno.

Perché la cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale

La proposta di inserire la cucina italiana nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità è stata ufficialmente lanciata nel marzo 2023 dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste.






La cucina italiana è un patrimonio fatto di conoscenze, gesti quotidiani e pratiche sociali che vanno oltre il semplice cucinare, per questo motivo preparare un piatto e condividerlo diventa un modo per tramandare la memoria familiare, rinsaldare i legami e creare comunità. Ogni territorio contribuisce con le proprie tradizioni, offre un patrimonio che tutela la biodiversità, valorizza la stagionalità degli ingredienti e invita a dare nuova vita agli avanzi, trasformandoli in cultura condivisa.

Oggi questo patrimonio riguarda circa 60 milioni di italiani nel Paese e oltre 80 milioni di connazionali e discendenti all’estero e a essi si aggiungono milioni di stranieri che vedono nello stile alimentare italiano un modello di convivialità e benessere.

Quando sarà presentato l’inno di Al Bano e Mogol per la candidatura

Per accompagnare la candidatura Unesco è nato un brano musicale intitolato ‘Vai Italia’: il testo di Mogol, musicato da Oscar Prudente, è stato inciso da Al Bano insieme ai bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano.

A presentare ufficialmente’Vai Italia’ al pubblico televisivo sarà Mara Venier, nella puntata inaugurale di ‘Domenica In’ del 21 settembre. In quella stessa giornata, in numerose piazze italiane, si terranno pranzi collettivi ispirati al tradizionale “pranzo della domenica”, simbolo di convivialità e occasione di sostegno pubblico alla candidatura.

 Il progetto ha l’obiettivo di ricordare che la cucina è linguaggio universale, capace di unire generazioni e territori attraverso il valore condiviso del cibo.

In una intervista al ‘Corriere della Sera’, Al Bano, a ridosso dell’imminente debutto dell’inno, ha dichiarato: “dal punto di vista culinario il nostro Paese non è secondo a nessuno. Ai fornelli facciamo i fuochi pirotecnici”.

Ha aggiunto che per lui è impossibile scegliere un solo piatto preferito, perché “Ogni regione ha sei o sette specialità che possono essere definite incredibili“.   



mercoledì 10 settembre 2025

10 settembre 2025 | Giornata internazionale di azione contro l'OMC e gli accordi di libero scambio


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"È urgente e necessario un nuovo quadro commerciale mondiale basato sulla sovranità alimentare" – La Via Contadina



Questo appello non è nuovo. Difendiamo il multilateralismo e ci basiamo su decenni di lotta, compresa l'agenda visionaria ma incompiuta del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI), proposta attraverso l'UNCTAD negli anni '70 come parte del processo di decolonizzazione. Il NOEI immaginava un mondo in cui il commercio sarebbe stato al servizio dello sviluppo, non della dominazione. Tuttavia le crisi del debito degli anni '80 e '90, insieme alle politiche di adeguamento strutturale e all'imposizione di riforme neoliberali, hanno costretto ad abbandonare questa visione a favore della liberalizzazione del mercato.
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Oggi rivendichiamo questa aspirazione decoloniale.
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Affermiamo che un altro ordine commerciale non è solo necessario, ma urgente.

martedì 2 settembre 2025

Il ritorno del latino

 emma fattorini

 lingua morta o voce viva dell’identità?


Dalle scuole medie italiane alla liturgia cattolica, il latino torna al centro del dibattito tra ideologia, tradizione e cultura, tra equivoci mediatici e passioni ecclesiali


Annosa polemica quella sul latino: serve, non serve? Si toglie e si rimette nelle pseudo- riforme delle tribolate scuole medie italiane. Da ultimo, in gennaio, il ministro dell’Istruzione e del Merito dell’Italia, Giuseppe Valditara, ha annunciato la reintroduzione di questa materia di studio nelle scuole medie a partire dall’anno scolastico 2026/27. Da allora, si sono rinfocolate le polemiche tra chi considera il latino un mezzo prioritario per tutelare la nostra identità culturale e chi lo bolla come roba passatista, reazionaria, di destra. Eppure, e non certo da oggi, è arrivato un inequivocabile altolà da grandi intellettuali del “fronte opposto”, come, tra gli altri, Luciano Canfora e Ivano Dionigi: il latino non è né di destra né di sinistra. E, chi afferma il contrario, chiude la questione Canfora con la consueta efficace franchezza, dà prova «di non capire niente». Il latino non può, aggiunge l’ex rettore dell’Università di Bologna Dionigi, essere ridotto  a «questione ideologica» o «bandierina identitaria».

E’ questa una diatriba, fatte ovviamente le debite differenze, che si è riproposta anche nella Chiesa cattolica dai tempi del concilio Vaticano II, di cui, il prossimo 8 dicembre, ricorrerà il 60° anniversario della chiusura. E’ da sessant’anni a questa parte, che continua ad agitare gli animi dei cosiddetti conservatori e progressisti.  Il latino è divenuto, via, via un vero e proprio vessillo dei loro scontri.

Eppure, va detto ancora una volta, liquidando l’opposta sentenza come un marchiano falso storico, che il Concilio non ha mai bandito il latino dalla liturgia e dagli altri usi ecclesiali. Preceduti dalla costituzione apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII (22 febbraio 1962), due documenti conciliari, la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium e il decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, hanno non solo mantenuto in essere l’uso della lingua latina ma caldamente raccomandato. E si devono al “Papa del Concilio”, il grande e non ancora pienamente compreso Paolo VI, due benemerite istituzioni per lo studio e la promozione della lingua e della cultura latina, rispettivamente fondate nel 1964 e nel 1976: il Pontificio istituto superiore di latinità, divenuto nel ’71 la Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’attuale Università pontificia salesiana, e la Fondazione Latinitas, soppressa da Benedetto XVI nel 2012 e contestualmente confluita nella neo-eretta Pontificia accademia di latinità. È stato proprio Montini, d’altra parte, a intervenire ripetutamente sul latino quale lingua ufficiale della Chiesa, concetto poi ripreso e nuovamente esplicitato da tutti i suoi successori, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. E, pur non parlandone in tali termini, anche Francesco ha comunque sottolineato più volte l’importanza del latino – come, ad esempio, nel messaggio del 2023 alla Pontificia accademia di latinità –, cui è spesso ricorso, «per spiegare il significato più profondo di parole, concetti teologici o filosofici in modo semplice e comprensibile».

09:24


DuDurante il pontificato di Bergoglio, inoltre, l’account papale Twitter, poi X, in lingua latina, a cura dei latinisti della Segreteria di Stato vaticana, ha superato il milione di follower, mentre su Radio Vaticana è stato dato il via, ogni domenica, a un notiziario tutto in latino, Hebdomada Papae, e a uno specifico programma, Anima Latina, condotto in italiano ma dedicato a cultori e cultrici dell’antica lingua. Da parte sua, Leone XIV, che legge correntemente il latino e, nella scelta del nome pontificale, si è espressamente ispirato a Leone XIII, il papa della Rerum Novarum – che è stato anche uno dei più grandi latinisti dei suoi tempi – ha dato prova di attenzione e amore per la lingua ufficiale della Chiesa sin dalla sera dell’elezione (8 maggio 2025), impartendo nuovamente in latino la prima solenne benedizione Urbi et Orbi.

Su tutta questa questione mette ordine, con il suo consueto acume,  il giornalista e scrittore Francesco Lepore,  nel suo ultimo libro Bellezza antica e sempre nuova. Il latino nel mondo di oggi, Edito da Castelvecchi in uscita in questi giorni, con prefazione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi. E con la sua nota acribia ha dedicato alla questione interna alla Chiesa  uno specifico paragrafo dal titolo provocatorio Chiesa e latino: una storia d’amore finita? In questo libro, dai temi difficili ma dalla scrittura scorrevole e piacevolissima troviamo anche una selezione di cinquanta brevi articoli, in lingua latina con traduzione italiana a fronte, su fatti, persone, curiosità degli ultimi cinque anni.

Già latinista pontificio in Segreteria di Stato, l’autore, che ha abbandonato il ministero sacerdotale nel 2006 per motivi di coscienza e vivere apertamente la propria omosessualità, cura infatti dal 2020 una rubrica quotidiana in latino su Linkiesta.it, da cui sono tratte le commentatiunculae scelte e raccolte nel libro.

Nelle osservazioni introduttive al volume Lepore spiega, con grande chiarezza, l’utilità del latino quale valido mezzo per migliorare le capacità espressive in italiano, potenziare il nostro vocabolario, conoscere più approfonditamente le lingue europee e accedere al complesso della cultura occidentale. E osserva anche come si debba «principalmente, sebbene non solo, alla Chiesa cattolica» se lo stesso latino è anche «sopravvissuto fino ai nostri giorni come lingua non solo di studio ma anche di comunicazione» (p. 26). Con esplicito riferimento proprio agli scriptores della citata Sezione latina della Segreteria di Stato vaticana, che, componendo in tale lingua i più importanti documenti pontifici, contribuiscono ad attualizzare il latino col conio di neologismi o l’attribuzione di nuovi significati a parole già esistenti, per esprimere adeguatamente concetti e realtà contemporanei. Ed ha perfettamente  ragione quando definisce infondate «le mai sopite voci, rimesse periodicamente in circolo dai mezzi d’informazione, sull’abolizione e sulla proscrizione dell’uso del latino nella liturgia e nella vita della Chiesa» (p. 29). Voci, che sono da attribuire anche a una certa negligenza di preti e vescovi nel seguire le numerose direttive pontificie sull’uso del latino, ma soprattutto la grossolana identificazione da parte di alcuni media «tra lingua e antica forma del rito romano», complice la liberalizzazione della cosiddetta “Messa tridentina” o “preconciliare”, disposta da Benedetto XVI nel 2007 e totalmente ridimensionata – al limite quasi della proibizione – da Francesco nel 2021.

Personalmente appartengo a quella generazione, che ha vissuto con entusiasmo la stagione conciliare e ha positivamente salutato l’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia per una maggiore comprensione dei misteri celebrati e della Parola di Dio annunciata. Ma, proprio secondo il dettato della Sacrosanctum Concilium, riconosco, allo stesso tempo, la bellezza e la ricchezza della liturgia in latino. Né, in linea di massima, sono totalmente contraria alla Messa in rito romano antico ( se non quando è celebrata,  partecipata e  promossa, a puro scopo polemico e divisivo, come nei seguaci di Marcel Lefebvre per rigettare il Vaticano II): da sempre nella Chiesa sono molti e vari i riti legittimi, che esprimono l’unica ricchezza della fede. Lo dice Francesco Lepore in una nota, «le restrizioni, imposte con zelo forse eccessivo» da Bergoglio con la Traditionis custodes, «hanno invece non solo acuito le divisioni intraecclesiali tra “conservatori” e “progressisti” ma anche favorito, più in generale, un’ulteriore polarizzazione delle posizioni pro e contro il latino». E ciò non è certamente un elemento positivo