sabato 8 novembre 2025

La sinistra e ...Peppe Urpi

 Peppino Bivona


Belice di Mare  Luglio 2024


             Nei pomeriggi estivi, caldi e assolati, i “soci”  della Biblioteca comunale “Santi Bivona”, la cui apertura era esposta a mezzogiorno, erano soliti fruire dell’ombra  dell'altro lato della strada, dove aveva sede il Circolo Universitario e di ….Cultura.

 Di tanto in tanto veniva a sedersi l’ing. Bilello ,  vecchio dirigente  della locale sezione del partito  comunista e nel dopoguerra sindaco di Menfi. Negli ultimi anni si era ritirato a vita privata dedicandosi alla pollicoltura, ovvero all’allevamento dei polli nella sua tenuta di “Pupo Rosso”.

Fu così che un tardo pomeriggio estivo, non ricordo bene, se    nell’anno 73 o 74 ,l’ing. Bilello con la sedia della biblioteca venne a sedersi nell’ampio marciapiede prospicente la sede del circolo Universitario, accanto a noi giovani . Questo vecchio dirigente comunista era stimato dalla base e riconosciuto da tutti oltre che per la sua onestà e correttezza, per la sua vasta e profonda cultura. Noi giovinastri sessantottini rispettavamo questa figura storica, ma non più di tanto:  a nostro parere il PCI aveva “tradito” la sua vocazione rivoluzionaria , si era imborghesito , divenuto un partito riformista.

Proprio in quegli anni usciva per l’Einaudi un saggio di Sidney Tarrow,”Partito Comunista e contadini nel Mezzoggiorno”,la cui tesi di fondo era abbastanza chiara: se  in Cina ,in Iugoslavia o nell’Andalusia spagnola i contadini costituirono la forza dirompente  tale da sovvertirne l’ordine costituito, perché nel sud dell’Italia questa imponente forza sociale e politica costituita da braccianti e mezzadri e contadini poveri,   giunti ad occupare i feudi, non  fu guidata verso la rivoluzione socialista? Perché non si realizzò la storica saldatura auspicata da Gramsci, tra operai del Nord e contadini del Sud?

L’ing. Bilello pur non frequentando la sezione del partito, sapeva che alcuni giovani manifestavano insofferenza per l’autorità dei “padri”, sia quelli genitoriali che quelli simbolici: erano critici verso la scuola, la chiesa, la famiglia, le istituzioni e non si salvava neanche il partito. Perciò quando gli esposi la tesi del sociologo americano, sembrava preparato a questa domanda, tanto più che nel dopoguerra aveva diretto per qualche anno la “Federterra “regionale. Bilello fece un profondo respiro , si avvicinò la sedia perché la sua voce per sua natura flebile potesse arrivarmi bene alle orecchie. “Pippinè capisco la vostra insofferenza giovanile, anch’io sono stato giovane ,ma spesso dimenticate che il nostro partito con la svolta di Salerno , aveva abbandonato la strategia leninista della presa del potere e si pose come interlocutore paritetico nei confronti delle democrazie occidentali, accettandone la dialettica parlamentare”. Il vecchio saggio Bilello aveva ragione, ( eppure questa semplice verità non era stata compresa   dai gruppi estraparlamentari  che negli anni successivi divennero “Brigate Rosse , Prima Linea e tanti  giovani disperati, sommersi da un equivoco di fondo  che caratterizzò   la doppia  “identità” del Partito Comunista). Ma torniamo a noi.

Ciò nondimeno l’occupazione delle terre, l’esproprio dei feudi non erano di per sè atti “ sovversivi” tali da stravolgere gli assetti sociali ed istituzionali!? Pensa che non siamo riusciti ad applicare la stessa legge di Riforma Agraria ,votata dall’ARS il 22 novembre del 1950, in particolare nei titoli”I”e “II” che proponeva un limite alla proprietà e taluni obblighi  come le trasformazioni fondiarie ,la buona coltivazione, l’imponibile di manodopera!”

 Mi resi conto che avevo  di fronte un testimone importante che poteva comunque raccontarci un tratto della nostra storia menfitana inerente la Riforma Agraria e in particolare l’occupazione delle terre e il ruolo svolto da un indiscusso protagonista di quegli anni, ovvero Giuseppe Volpe ,“Peppi Urpi”. L’ing.Bilello si assestò sulla sedia, fece una piccola smorfia di disappunto, quasi a dirmi che l’argomento non era uno dei suoi preferiti. Ora dopo tanti anni non ricordo bene i particolari ma in sintesi la versione  dei fatti secondo Bilello era questa.

 Noi non abbiamo avuto una vera Riforma Agraria, se si eccettuano l’esproprio del feudo Fiore e qualche sporadica assegnazione di lotti, del tutto irrilevanti. L’esproprio del feudo Fiore fu un “capolavoro “ di “Peppi Urpi” anche se bisogna dire che contribuirono al successo talune vicende politiche che caratterizzarono opposte fazioni negli anni successivi il primo dopoguerra negli anni 1918-22.

 Le vicende successive al dopoguerra, dal 48 in poi sono complessi, turbolenti e di non facile lettura. Intanto il partito fu colto di sorpresa dalla partecipazione massiccia  e la mobilitazione da parte dei lavoratori della terra.Si era rotto di colpolo storico “sonno” di gattopardiana memoria.

 Dopo gli eccidi di Melissa in Calabria , la parola d’ordine era occupare le terre incolte o mal coltivate. Si riaprì di colpo l’annoso problema delle terre nel  nostro Mezzogiorno, riaffioravano ancora i ricordi di usurpazioni  di beni demaniali , di proprietà della “mano morta” e di proprietari con precario o nullo titolo di proprietà( per tutti leggasi “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia) . Ma lo scenario non era completo: gli “agrari” non avrebbero ceduto facilmente i terreni, tantè che non esitano a ricorrere alla mafia , assoldano bande come quella di Giuliano,mobilitano i loro pastori e i gabelloti. Ma fanno di più: assoldano studi legali più in vista come,Virga, Orlando Cascio Ferro, Scaduto , attuano un fronte detto ,”l’offensiva della carta bollata”    Insomma mandano a dire chiaro e tondo che venderanno cara la pelle! I risultati di quegli anni sono sotto gli occhi di tutti: l’eccidio di Portella della Ginestra e decine di sindacalisti uccisi, tra cui il nostro vicino saccense Accursio Miraglia.

In questo contesto a Menfi si radicalizzano due posizioni nettamente distinte: La prima del Partito Comunista che occupando le terre chiede l’esproprio e l’assegnazione ai contadini poveri, mezzadri, braccianti. L’altra di”Peppi Urpi” che apre un varco di mediazione nel fronte degli “agrari” i quali sono disposti a vendere le loro proprietà e attraverso mutui ventennali( formazione della  piccola proprietà contadina). In un contesto così” fluido” e ingarbugliato, per la sinistra Peppi Urpi” appariva un” traditore” perché  traduceva il grande movimento per la riforma agraria in una  accomodante vendita da parte de grossi proprietari che venivano ristorati e rifocillati  dal denaro pubblico e da quello privato. La faccenda non è di poco conto perché nella transazione con i proprietari    la assegnazioni di lotti o di quote richiedeva un minimo di anticipo che i contadini poveri non disponevano, mentre i piccoli e medi  proprietari disponevano di risparmi tali da consentire loro di aggiudicarsi diversi lotti. Ai proprietari terrieri non fu strappato neanche un palmo di terra, essi vendettero a prezzo pieno di mercato. Insomma la tesi di Biello è che i proprietari fecero un affare. Di fronte al rischio concreto di una possibile confisca dei loro beni, ne uscirono con le tasche piene. Un esempio interessante è la vicenda del feudo di Belice dei Pignatelli. Un resoconto lo troviamo nel saggio di Vincenzo Lotà” Uomini senza Cappotto” ,  dove l’autore raccoglie la testimonianza della buonanima di Baldassare Li Petri. Qui mentre la Commissione provinciale verificava lo stato di incolto e mal coltivato del feudo per l’esproprio, “Peppi Urpi”concorda con l’amministrazione del feudo la divisione in lotti e la successiva vendita in violazione della legge e in affido a cooperative. Le ragioni addotte sono risibile : l’esproprio avrebbe dato la possibilità ai contadini di Castelvetrano di reclamarne il diritto, per il semplice motivo che il feudo ricadeva nel loro territorio. Non a caso lo stesso “Peppi Urpi” nella sua intervista a Danilo Dolci  nel libro “Spreco”, confessa che i proprietari terrieri nei suoi confronti manifestavano  benevolenza e stima se non ammirazione!.

Queste vicende furono occasione  di una amara riflessione sulla strategia del partito comunista nel sud e in particolare in Sicilia La posizione di Bilello si scontra con quella di Li Causi ,capisce che il movimento contadino è espressione di una variegata manifestazione di interessi disparati , spesso difficile contemplarli in un'unica strategia onnicomprensiva . Ci siamo infilati in un “cul di sacco”: esiste una palese contraddizione tra le scelte strategiche del partito a livello nazionale e le spinte radicali offerte dall’occupazione delle terre.Non si capiva bene se “ le cavalcate” verso i feudi  avessero un valore folkoristico tale solo per mostrare i muscoli, o di vera dirompenza sociale e politica. Qui  il vecchio dirigente comunista fa una riflessione teorica marxiana di elevato spessore culturale, e indirettamente risponde a Tarrow:”Ricordati” Pippinè “che le classi proletari , gli operai, e a maggior ragione le masse contadine , hanno “bisogno” della mediazione della borghesia! I salti nella storia non sono ammessi!”

Comprendo alla fine della chiacchierata che al vecchio dirigente comunista  gli costa molto ammetterlo, ma la strategia scelta da “Peppi Urpi” in fin dei conti, risultò vincente,  perché era di buon senso: questo vecchio contadino aveva realizzato una rivoluzione pacifica , alla fine tutti potevano, volendo ,disporre anche di un fazzoletto di terra ,  e  chi credeva nella terra, non si lasciò sfuggire l’occasione, era sufficiente  a fungere da “lievito” che, con le successive opere di bonifica e l’irrigazione, nel breve tempo di una due generazione, ha consentito a gran parte dei vecchi contadini di risvegliarsi imprenditori e comunque tali da cambiare scenario nelle campagne menfitane.

     

lunedì 20 ottobre 2025

Alimentazione, mangiare è ancora un atto agricolo?

 Peppino Bivona

Belìce di Mare Gennaio 2024

                                           “Der  mensch ist vas er isst “ l’uomo è ciò che mangia dice  Ludwig Feuerbach. Le nostre popolazioni rurali con altrettanto praticità  rispondevano:  “adinghi la panza , adinghila  puru di spini “ ( riempi la pancia , riempila anche se,di spine) .  


Un motto che nella sua semplicità   assicurava che tutto ciò che era naturale poteva essere considerato alimento,  era commestibile ,insomma il “cibo” era tutto ciò che poteva essere mangiato .  C’erto erano tempi in cui l’ingiustizia sociale faceva da corollario alla  povertà e alla  fame. Eppure  la povertà alimentare rurale spesso non era disgiunta da una “abbondanza frugale”  un apparente ossimoro ma  contrariamente alle condizioni di oggi ,che  pur paradossale che possa sembrare, al limite della illogicità , siamo perennemente  satolli e sovralimentati, ma  …sottonutriti.. La quantità primeggia sulla qualità ,i macronutrienti prevalgono  sui micronutrienti. Insomma in questi nostri  tempi moderni non abbiamo un buon  rapporto  col cibo, ( e non solo!) un giusto e misurato equilibrio:  viviamo  in  una perenne  esasperata apprensione  ,una fame insaziabile!.Le ragioni sono molte e complesse, le dinamiche economiche  che caratterizzano le vicende storiche dell’ultimo secolo ,non hanno risparmiato il cibo, l’alimento, che da un bene atto a soddisfare un bisogno diviene merce , cosi il suo valore di scambio prevale  o sopprime il valore d’uso.
Ma che cosa è successo alla nostra agricoltura? Quali profonde modifiche abbiamo apportato alla filiera alimentare?Cosa hanno di diverso i nostri alimenti rispetto a quelli consumati dalle nostre nonne?  Comprendere  la natura di tali cambiamenti  può aiutarci  a capire  come potremmo modificare il nostro rapporto con il cibo, per il nostro benessere e la nostra salute. Fin dai tempi fondativi dell’evoluzione degli ecosistemi, convergenti verso una sempre maggiore complessità, l’atto del “mangiare” è stato una relazione tra specie all’interno di sistemi che oggi chiamiamo catene o reti alimentari, oggi, vanno dall’uomo  e scendono giù fino al terreno. Le specie vegetali ed animali  sono entrati in una interattività ,  una relazione”coevolutiva” , si evolvono congiuntamente con quelle di cui si nutrono, sviluppando un legame di interdipendenza.
 Dicono le piante : “io ti nutrirò se tu propagherai i miei geni” . Un adattamento reciproco trasforma progressivamente una mela  in un frutto nutriente e gustoso  per un animale, e col tempo  attraverso tentativi ed errori  la pianta in generale  diventa più appetitosa ,dolce e attraente  al fine di catturare l’attenzione dell’animale e appagare i suoi bisogni, i suoi  desideri .Al tempo stesso l’animale acquisisce gradualmente gli strumenti digestivi come ad esempio gli enzimi. Nella catena alimentare è fondamentale  che gli elementi abbiano un buon grado di benessere  perché un disturbo potrebbe ripercuotersi su tutti gli altri organismi che  ne fanno parte. Cosi, se un suolo è malato   non strutturato o in qualche modo carente di qualche elemento nutritivo, si ripercuoterà sull’erba che vi cresce sopra, debole e malaticcia . La stesso varrà per le mucche che brucano quell’erba  e infine per le persone che bevono il loro latte .La lunga familiarità  tra certi alimenti e i loro consumatori ha dato luogo ad elaborati sistemi di comunicazione,sia verso l’alto che verso il basso della catena ,cosicché gli organi di senso finiscono per riconoscere i cibi che conviene mangiare dall’odore ,dal colore dal sapore .Perciò la maturazione dei frutti e spesso segnalata da un odore caratteristico,un colore brillante,un sapore tipicamente dolce, ma che opportunamente corrisponde al momento in cui i semi della pianta sono pronti  per andare via e germinare e non a caso coincide con la massima concentrazione di nutrienti e digeribilità . Oggi ,invece i cibi sono espressamente progettati  per ingannare i nostri sensi, attraverso aromi artificiali e dolcificanti sintetici depistando  il nostro odorato e l’olfatto .Con l’avvento dell’agricoltura ,diecimila anni fa , avvenne un grande mutamento  che peggiorò la salute  dell’uomo,provocando ogni sorta di carenza nutrizionale e non poche malattie infettive , messe sotto controllo solo nell’ultimo secolo. Ma il vero disastro lo abbiamo commesso nell’ultimo secolo : dal terreno fino ad arrivare al piatto sulla tavola, l’agricoltura industrializzata ha operato in una sola direzione , ovvero la semplificazione sia chimica che biologica . La nutrizione delle piante è affidata a tre macronutrienti  N,P,K , trascurando l’importanza dell’attività biologica del suolo , il contributo alla salute delle piante, dal complesso sistema sotterraneo  di batteri ,lombrichi ,funghi micorrizici. Le piante oggi sono più vulnerabili ai parassiti e alle malattie  e sembra si siano ridotte le loro qualità nutrizionali . Questa agricoltura ha “estratto “ dalla terra i macronutrienti  con un apporto di calorie non indifferente , ma questo guadagno quantitativo è avvenuto a spese della qualità Cosi  la vitamina C è diminuita del 20%  il ferro del 15% ,il calcio del 16% e le riboflavine del 38% , una vera inflazione nutrizionale  tanto che  tra qualche tempo dovremmo mangiare tre mele per avere la stessa quantità  micronutriente di una . Ma al declino della qualità  ha contribuito  la genetica e la selezione, indirizzata prevalentemente in funzione delle rese .Le nuove varietà di frumento nell’ultimo mezzo secolo hanno triplicato le rese  ma ridotto ,per esempio il ferro del 28%  ,lo stesso dicasi per gli ortaggi  come per le  mucche da latte . Ma non è finita , perché al peggio non c’è limite! La sciagura alimentare l’abbiamo compiuto negli ultimi decenni ,passando dalla “foglia” al seme” ovvero dall’utilizzo a fine alimentare  dalle strutture foto sintetiche “dirette”  alle  strutture conservative tipo  cariossidi delle piante
Ebbene, ci siamo chiesti perché il 75% del fabbisogno calorico e soddisfatto da 4 colture : mais, soia, grano e riso  e le loro coltivazioni interessano buona parte della superficie del pianeta? Per la semplice ragione che sono particolarmente adatti alle esigenze del capitalismo agroindustriale in particolare il mais e la soia . Queste piante sono eccezionalmente efficienti (mais c4) nel trasformare  l’energia del sole , i fertilizzanti ,l’anidrite carbonica e l’acqua in carboidrati ,lipidi e proteine racchiuse nel seme  i quali possono essere vantaggiosamente convertiti in carne, latticini, uova ecc. I semi possono essere facilmente trasportati per lunghe distanze , stoccati  per prolungati periodi e lavorati  nei modi più disparati ( vedi mais)
Ma, il diavolo fa le pentole ma si dimentica i coperchi, infatti la convenienza dell’agroindustria non coincide con le esigenze nutrizionali dell’essere umano che si è visto stravolto il modello alimentare  dalle fondamenta ,le cui conseguenze solo da poco tempo riusciamo a coglierne le implicazioni   . Ma cosa hanno di particolare le “foglie” intese nella loro eccezione di frutta ,verdura ortaggi che i semi (cariossidi ) non hanno?
 Le foglie forniscono nutrienti essenziali al nostro organismo  come antiossidanti ,fitonutrienti, fibre e soprattutto acidi grassi omega 3 . Ma gli omega 3 non si trovano nel pesce?  Si ma la ricchezza di questi acido grasso lo troviamo in alcuni tipi di pesce( azzurro) che  si nutrono di piante verdi  specificatamente di alghe .Ma, benedetto iddio, se lo producono le alghe, piante primitive  perché non dovrebbero produrlo le foglie di cavolo ,lattuga o spinacio? Ebbene ,si ,le foglie delle piante verdi producono questi acidi grassi nella membrana cellulare dei cloroplasti  dove contribuiscono alla captazione delle radiazioni luminose . Invece  i semi ,i cereali in genere sono ricchi  di omega 6 che servono come riserva di energia per lo sviluppo dell’embrione, ovvero della futura piantina.
Per  capire il  ruolo di questi due acidi, omega 3 e omega 6 bisogna leggere l’affascinante libro  di  Susan Allport :”The Queen of fats “. Questi due acidi essenziali hanno funzioni diversi nel nostro organismo . gli omega 3  hanno un ruolo importante nello sviluppo funzionamento del cervello nella permeabilità delle pareti cellulari, nel metabolismo del glucosio , nel controllo delle infiammazioni ecc. . Gli omega 6 sono implicati nell’accumulo dei grassi nella rigidità delle pareti cellulari  nella coagulazione del sangue . Poiché i due acidi competono tra di loro per lo spazio nelle membrane e per l’attivazione dei vari enzimi , è di estrema importanza è il mantenimento di un giusto rapporto tra i due acidi. Ebbene nella dieta delle nostre nonne il loro rapporto era di 1/3 , oggi siamo  arrivati a 1/12.
Ciò che vale per noi  e valso per gli animale ,i quali  sono stati privati del loro cibo naturale ovvero erba e foglie e sono stati rimpiazzati con sfarinati ipercalorici a base di mais e soia. Con quale risultato?  A parte lo stato di salute precario e il costante ricorso a sulfamidici e antibiotici,sono diminuiti ,nelle carni ,nel latte e nelle uova  gli omega 3 e aumentate gli omega 6 , inoltre spesso la selezione  delle piante coltivate ha un tenore in omega 3 nettamente inferiore a quelle spontanee vedi il caso della Portulaca o di alcune chenopodiacee.
Molti studiosi sono convinti    che questi livelli storicamente bassi di omega 3  e di contro,invece sensibilmente alti per gli omega 6 , siano responsabili di buona parte delle malattie croniche( cardiovascolari, diabete ecc.), sono da  associare esclusivamente al  nostro modello  di agricoltura e allo stile alimentare .
Una alimentazione degli animali a base di erba ,ovvero pascoli ,magari polifite cambiano radicalmente il profilo nutrizionale dei prodotti  come la carne, il latte formaggi e le uova . Non sono assolutamente commensurabili con quelli provenienti da allevamenti a stabulazione fissa e nutriti con sfarinati di soia e mais , perennemente ammalati e imbottiti preventivamente di antibiotici.
“ mangiare è un atto agricolo” disse con felice espressione Wendell Berry . Noi possiamo non essere solo semplici consumatori passivi, ma compartecipi  della creazione dei sistemi che ci nutrono
Secondo come spendiamo il nostro denaro nell’acquisto dei cibi, possiamo sostenere una agricoltura industriale  indirizzata alla quantità ,alla sola  convenienza, i cui “valori”  sono indifferenziati ,omogeneizzati ,banalizzati. Possiamo, di contro, spendere il nostro denaro per alimenti  trasparenti  intrisi di “valori” come la qualità e  salute .Si, salute, nel senso più ambio del termine. 

sabato 11 ottobre 2025

Il cavaliere Giuseppe Volpe


Il cavaliere Giuseppe Volpe
(Peppi  Vurpi)





di Peppino Bivona   
Belice  di Mare  2018
  
Al circolo Universitario quel pomeriggio  le ore trascorrevano   lente e pigre, quando in lontananza sentimmo il rumore delle
saracinesche abbassarsi con  sincronica sequenza, l’ultima, quella più rimbombante, che destò i più intorpiditi, arrivò dalla
rivendita di tabacchi  di don Lillo  Tavormina, di fronte al nostro Circolo.  
 Ricordo che la buonanima di Filippo Alesi,a cui la curiosità non faceva difetto, si alzò, apri l’ampia  vetrata che dava sulla strada ed esclamò 
“Si portano a Peppi Vurpi|!”
 I più, noncuranti, non si distrassero più di tanto, continuarono la lettura del giornale, ma Filippo mi rivolse lo sguardo e dal segno della testa, compresi ch’era doveroso tributare un ultimo saluto a questo singolare personaggio che per più di mezzo secolo fu protagonista delle vicende menfitane .
Ci accodammo allo striminzito corteo funebre , poche persone , ancor meno la presenza di  parenti.
  
Di Peppi Vurpi eravamo attratti  da una singolare curiosità, in modo   particolare dopo aver letto la sua intervista rilasciata a Danilo Dolci in “ Spreco” .Una personalità  dall’aspetto modesto e dai modi semplici, ma che inevitabilmente lo troviamo al centro dei nodi cruciali della vita politica menfitana, tra vicende storiche complesse  e talvolta complicate ,che per anni hanno animato  accesi
dibattiti  dando luogo a giudizi contrastanti.
Per anni lo abbiamo visto seduto dietro il bancone della rivendita di tabacchi in via della Vittoria, con lo scialle sulle gambe, premurosamente accudito dalla moglie e dalla
cognata santamariganterese.
 “ Cavalè ,una nazionale ed una esportazione senza filtro”  e lui calmo e docile apriva la bustina ed introduceva le due sigarette per 20lire. Dietro il bancone sembrava piccolo ,piccolo, eppure  per questo paese  era stato un “Gigante”
La lunga strada che porta al cimitero conta un paio di kilometri , non molti  ma neanche pochi ,in verità sufficienti a meditare sulla vita del defunto, quasi a consentirne un singolare bilancio, certo disgiunto  dalla pietà che si deve  per chi lascia  questo mondo.
“Resta nella storia” dissi rivolgendomi a Filippo e rompendo il silenzio “Che un ammanco di grano di diversi quintali sottratti alla Cooperativa Colajanni, nel dopoguerra, possa essere imputabile ai  passeracei voraci che ,cip cip ,giorno e notte  trasportavano attraverso una finestrella ,nei loro nidi gran parte del grano stoccato in magazzino”
Filippo, rallentò un poco il passo, poi riprese” La verità è che voi comunisti non l’avete mai “digerito” un uomo che non fosse legato ad alcuna ideologia, fuori dagli apparati, che pensa con la sua testa: vi risulta alquanto scomodo. L’esproprio del feudo Fiore  resta il suo vero “capolavoro” .Ti sei mai chiesto perché solo a Menfi il movimento “Reduci e Combattenti” divenne vincente? Perché a Ribera come in altri paesi non avvennero alcun esproprio? Peppi Vurpi ebbe l’intelligenza di motivare l’esproprio del feudo Fiore non solo per distribuire le terre ai combattenti ( come era stato promesso da Diaz sul fronte del  Carso) ma legarla ad una giustificazione di natura sanitaria ,ovvero quei terreni incolti o scarsamente coltivati erano la vera e principale fonte di malaria”
Restammo un po’ indietro  in previsione che la discussione potesse accendersi.
Replicai:”L’esproprio del feudo Fiore è ancora tutto da scrivere. Resta comunque il fatto che Peppe Vurpi non ha mai creduto alla Riforma Agraria, neanche quando nel dopoguerra militò nelle file del partito Comunista. Anzi molte delle sue azioni furono indirizzate a contrastare i pur minimi tentativi di espropriazione di terreni incolti o scarsamente coltivati”. Filippo si fermò accese la sigaretta e replicò “ Se dobbiamo dire la verità, e si eccettua qualche dirigente regionale ,come Li Causi, il partito Comunista nazionale non aveva capito niente dei problemi della terra e dei contadini. In fondo restava prigioniero della visione marxista-leninista, dove la classe operaia era la sola designata a realizzare la rivoluzione”
Ora si vedevano i primi alberi lungo la strada del camposanto. Capii che Peppi Vurpi, per meglio “decifrare” la sua vita avevamo bisogno di molti altri Kilometri            

 Il corteo si arrestò al cancello del cimitero , tra i pochi che si avvicinarono alla bara  scorsi
l’ingengnere “Sasa” Li Petri.  Alzo il suo lungo braccio, come a chiedere attenzione e con voce commossa rotta dall’emozione esclamò :
“ Peppe questo paese  ti ha lasciato  solo   non ha  avuto il “coraggio”  di riconoscere i tuoi meriti,il tanto bene che hai fatto per loro.
Sono rimasti a casa  hanno avuto “paura” di tributarti  l’ultimo saluto!
 Ma io sono certo  che un giorno i loro figli e nipoti ti saranno grati per quanto  hai saputo fare per questa  comunità.”
Il geometra Rosario Li Petri non parlava molto ma quel pomeriggio  aveva una gran voglia di raccontare come erano andati i fatti !
Tra i tanti che erano rimasti a casa c’erano alcuni che non hanno mai condiviso il trasformismo di Peppi Vurpi ,  considerandolo privo di una coerenza ideale e politica.
Resta innegabile che Il nostro Peppe da vero contadino  aveva saputo interpretare quell’atavica “fame “ di terra , Quella terra che quei “dannati “ se la sentivano addosso come una seconda pelle.  Questa terra da lavorare , che esigeva
fatiche quasi disumane,  da mattina a sera , col cado e con la pioggia o col vento, tutti i santi giorni:  doveva
essere  Sua,aveva il sacrosanto diritto di averne il pieno e totale possesso!
 Il frutto del suo sudore non andava spartito con nessuno!
 Oggi  a distanza di molti anni  attraversiamo  distratti  queste nostre campagne menfitane, godiamo di un paesaggio agricolo unico ed inconfondibile, espressione di una ruralità ,un  tessuto  sociale,  di una struttura  economica   felicemente  e armoniosamente  combinati.
Ebbene, Si, questo piccolo miracolo  lo dobbiamo in buona parte  a questo piccolo modesto lungimirante contadino

martedì 7 ottobre 2025

I barbari domestici

 


Peppino Bivona

Belice di Mare, Agosto 2024

 


   Il viandante che attraversa le nostre contrade è attratto  dalla campagna menfitana per un suo particolare  ed irresistibile fascino: interagisce,si articola, si lascia coinvolgere con lo sfondo azzurro del mare africano.

 Un panorama particolare,una scenografia accattivante  che si lascia godere appena si  abbandona l’entroterra  e si scende verso la costa. Un susseguirsi  ininterrotto di  ampi gradoni ovvero  di terrazze marine che leggermente degradano verso  il  mare aperto.

Se invece il viandante percorre la vecchia statale 115 da est ad ovest e viceversa , la scena appare più intrigante. Al susseguirsi di docili colline  che si alternano a fondovalle, si distendono  piccoli  appezzamenti regolari, delimitanti  i carciofeti, i pochi seminativi, qualche uliveto  e le ampie distese di vigneti.

Il mare, come per gioco, vi  appare e poi subito scompare, ad una curva si cela per poi inaspettatamente  svelarsi ,mostrando tutta la sua calma distesa, il suo inconfondibile colore. Questa magia ci viene regalata  grazie  ai dodici kilometri di costa, che sommati  a quelli belicini,  fanno un tratto di campagna-costiera, dal Belice al Carboj , decisamente unico. Il verde dei  vigneti o il giallo dei seminati “sfociano “ nell’azzurro del mare.

Se la campagna mostra il suo fascino,l’agricoltura  di questi luoghi deve fare i conti con le frequenti mareggiate  che, trasportando goccioline di salsedine, non risparmiano  le coltivazioni litoranee. Perciò i contadini  hanno studiato tutta una serie di apprestamenti per difendere le loro coltivazioni. 

Lo chiamavano Peppe di Mare, un curioso soprannome ,perché  non era  un pescatore bensì un contadino , povero quanto e forse più dei marinai del luogo. Possedeva buona parte della collina che sovrastava l’antico borgo marinaro che come un ampio terrazzo, si affacciava nello stupendo mare tra le “ Solette” e la “Conca della regina”.

Suo nonno l’aveva comprata dai principi Pignatelli per pochi denari ,nessuno  aspirava  a possedere quella  “bella” ma sterile collina. Ma al povero Peppe  quella “ bellezza “ non  lo incuriosiva più di tanto, in fondo l’incanto  suscitato  per le attrattive paesaggistiche  è stata  tutta una” invenzione” della modernità. Peppe come suo padre non si lasciava incantare né  distrarre da questo paesaggio mozzafiato, impegnati  come erano,  da mattina a sera,con la schiena curva, a zappettare il grano  in primavera  o a mieterlo nel mese di giugno. Quel grano cresceva a stento,vuoi per la cattiva natura del terreno, prevalentemente argillosa , ma ancor più, per le sferzate di vento carico di salsedine che flagellava la coltura. Così come  la vegetazione costiera per  difendersi cresceva  poco e restava  bassa quasi strisciante, raramente le spighe di grano riuscivano ad arrivare a buon fine . Le buone annate nella vita di Peppe si contavano come le dita della mano !

 All’epoca  c’era un tempo per ogni cosa:  dopo la mietitura e la successiva trebbiatura, i lavori agricoli  si placavano, perciò arrivava il tempo   di “andare al mare” .

La partenza era sempre  animata, movimentata , al vocio chiassoso di noi ragazzi ,si imponeva l’ordine perentorio degli adulti ai quali spettava il compito di caricare sulla mula la brocca  con l’acqua, gli ombrelli grandi e neri, le seggiole basse  e tante altre cose  ritenute di pratica utilità. Dalla vecchia casa posta sulla sommità della collina la “carovana” seguiva il vecchio Peppe che con la sua mula faceva da battistrada giù per lo stretto  viottolo  e si snodava  tra gli asfodeli e le palme nane,  i giunchi,   sospeso tra cielo e mare. Dopo infinite curve, finiva, quasi di sorpresa,a ridosso della  mitica spiaggia delle “ solette”. Un tratto di arenile a forma di  mezzaluna che si estendeva alla fine di una profonda vallata, mentre poco distante, nel mare aperto, una serie di rocce affioranti   piatte e irregolari  si allungavano  di fronte a noi  come tante piccole isolette( o come diceva il vecchio Peppe “solette” ovvero come le  suole delle scarpe).

Questi “luoghi” appartenevano a Peppe e ai   pochi abitanti  della zona.

Era  tutto il suo mondo. ”Suoi” erano le  fredde giornate invernali,  quando  la pioggia insistente e violenta , si abbatteva  inesorabilmente sul suo volto e su quel sottile strato  di  suolo  argilloso  mentre cercava di affidare il seme al terreno.”Suoi”  i venti  infuocati di tramontana che puntualmente arrivavano nei mesi più caldi  ad abbrustolire le poche stoppie. “Suoi” le  raffiche  di scirocco  carichi  di salsedine che danneggiavano irreparabilmente la vegetazione. “Suoi” le fatiche quotidiane ,il sudore per strappare a questa avara terra un misero raccolto.

Così come  “Sue” erano  le prime brezze che nelle giornate più assolate sentiva salire dalla costa,cariche di profumo di mare, sature  di essenze floreali.  “Suoi” erano i   chiarori di luna che scopriva  la mattina presto,una luna piena e rotonda,che  prima di tramontare,   di tuffarsi , si specchiava  nell’argenteo mare .”Suo” era il silenzio , tanto silenzio , interrotto a tratti dal  canto degli uccelli o dal rumoreggiare del mare. “Suo” era questo piccolo  tratto di spiaggia,questo mare….

Tutto questo rappresentava per il vecchio contadino il suo   patrimonio  materiale e spirituale, tutto quanto costituiva la sua unica ricchezza che un giorno avrebbe trasmesso  per intero  ai suoi figli e nipoti.  Questa terra ,diceva il vecchio Peppe ,era  la sua “croce e delizia”.

Se i luoghi hanno un’anima, come dice Hillman, di certo sono sedi di uno spirito  del luogo,il”genius loci”.

Peppe di Mare e i suoi si erano  “guadagnati”  l’anima di questi luoghi  attraverso la lenta ma costante  accumulazione e deposito degli affetti, operata  per decenni  da diverse generazioni che li  l’avevano vissuto, rispettandone la natura, il senso del limite, la sobrietà , l’interiorità ,la forma.

 Peppe possedeva un rapporto intimo e cosciente con quel “luogo”, aveva consolidato una cultura stabile e “sostenibile” che aveva alle spalle una visione conservativa, la sua esistenza era segnata dalla ciclicità, costellata da una intensa vita cerimoniale e rituale. Per Peppe abitare voleva  dire permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi  in chi vive in quel posto, assorbirla in sé, rispettandola e rilasciandola in modo creativo , cosi che l’abitare diviene un atto “sacro”.

 Molto probabilmente gli antenati di Peppe  circondavano di pietre i luoghi che ritenevano sacri per proteggerne lo spirito e  la sua identità : cosi nascevano i templi consacrati alle divinità.

 

 Di certo  questo scenario sembrava non dovesse avere mai fine .

Ma un giorno all’improvviso arrivarono i barbari,  alcuni venivano da lontano  ma i più erano nostrani .Predoni, come uccelli rapaci calarono dall’alto, comprarono tutto, si appropriarono delle “delizie”, il meglio che quei luoghi potessero esprimere. Scavarono, livellarono, costruirono con razionalità strumentale, con praticità riduttiva  e in nome della funzionalità squarciarono l’interiorità dei luoghi.

Ora ne fruiscono per soli pochi mesi estivi,distratti, annoiati :efflorescenze  senza radici!

 I barbari nostrani, non hanno “storia”, sono senza passato né memoria ,sono portatori  di un modello “civilizzato”  che privatizza il panorama che reprime la “bellezza”,  impedisce le emozioni offende il sentimento , prepara il deserto!

martedì 30 settembre 2025

L'eredità della memoria: Sabato a Menfi omaggio a Peppino Bivona


 
Ora noi siamo qui a chiederci, la vita umana finisce con la morte come una stella? Per noi laici e non credenti possiamo accettare che la morte sia l'ultima parola sulla vita? Possiamo vivere una trascendenza nell'immanenza? La morte è la fine naturale di tutte le cose. Ma la vita umana pienamente vissuta, una vita viva, costellata di passioni, operosa, animata da desideri, eccedente la vita stessa... non muore!” Così scriveva Peppino Bivona in uno dei suoi tanti scritti.

Queste parole rappresentano il cuore dell'evento organizzato in suo onore, un momento di celebrazione della sua eredità culturale e del suo impegno per il mondo rurale e la valorizzazione del territorio.

Nato a Menfi nel 1948, Peppino Bivona si è laureato in Scienze Agrarie e ha insegnato materie tecniche negli istituti agrari. Dal 1976 ha svolto un ruolo fondamentale nell’assistenza tecnica per l’Ente di Sviluppo Agricolo della Regione Siciliana, e fino al 2010 ha diretto con grande impegno l’azienda sperimentale dimostrativa. Oltre alla sua carriera professionale, Peppino è stato un giornalista attivo, collaborando con numerose testate del settore agricolo, tra cui il sito della Libera Università Rurale, di cui era Presidente.

Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Diario dell’Ulivo Saraceno” (2018), “Chicco di Sole” (2021) e “Il Sole nel Bicchiere, Menfi e il suo territorio”. La sua opera ha contribuito in modo significativo alla valorizzazione del patrimonio agricolo e culturale delle Terre Sicane.

 

In Sicilia il Genius Loci della gastronomia

 



La Sicilia, terra di sole e di vento, di colline profumate e di mari che raccontano storie antiche, quest’anno celebra un riconoscimento che profuma di orgoglio: è stata proclamata da Igcat “Regione europea della gastronomia”. Non è un caso, ma la naturale consacrazione di un’isola che da sempre custodisce nei suoi campi, nelle sue cucine e nei suoi mercati un patrimonio unico al mondo.

Dietro ogni prodotto certificato DOP o IGP non ci sono solo disciplinari e numeri, ma la voce profonda di un territorio che parla attraverso il gusto. L’olio che scivola dorato sul pane, il cioccolato che conserva antiche lavorazioni, il vino che racchiude il respiro delle vigne e della pietra: sono segni concreti di un’identità che non si lascia dimenticare.

Con 67 denominazioni riconosciute, tra cibo e vino, la Sicilia non offre soltanto eccellenze gastronomiche: offre narrazioni di comunità, storie di uomini e donne che da generazioni si fanno custodi di un sapere antico. Ogni DOP e IGP è una carta d’identità del territorio, e il loro valore – oltre i 555 milioni di euro che contribuiscono alla Dop Economy nazionale – è prima di tutto culturale, umano, collettivo.

Ed è proprio qui che si inserisce il percorso dei Borghi Genius Loci De.Co., quel mosaico identitario che mette al centro i luoghi e le persone. Perché se i marchi europei danno regole e garanzie, la De.Co. restituisce il battito del cuore dei borghi: i profumi delle feste popolari, le ricette che non hanno bisogno di manuali, ma si tramandano con un gesto delle mani e con un segreto sussurrato.

In questo viaggio, accanto ai prodotti, camminano i Custodi dell’identità territoriale, donne e uomini che hanno scelto di difendere e raccontare le tradizioni, salvaguardando ciò che rischierebbe di perdersi. Con loro, gli Ambasciatori dell’identità territoriale, chiamati a portare nel mondo il messaggio di un’isola che non si limita a produrre eccellenze, ma le trasforma in strumenti di diplomazia culturale e di sviluppo sostenibile.


Le cifre parlano chiaro: province come Trapani e Agrigento trainano un sistema economico che coinvolge oltre 19.000 operatori, eppure è la narrazione dietro queste cifre a renderle vive. È la visione di contadini, pastori, artigiani e viticoltori che hanno saputo trasformare la fatica in bellezza. È il Cioccolato di Modica che cresce del 10%, ma anche la carezza di chi lo lavora ancora a pietra. È il Pecorino Siciliano che vale milioni, ma soprattutto vale il sorriso degli anziani che insegnano ai giovani a non dimenticare.

Essere Regione europea della gastronomia non è solo un premio, ma una missione: ricordare che il futuro della Sicilia passa dalla capacità di coniugare tradizione e innovazione, radici e visione, identità e sviluppo. È la sfida di un’isola che sa raccontarsi attraverso i suoi borghi, attraverso i suoi custodi, attraverso i suoi ambasciatori.

 la Sicilia non celebra soltanto un titolo. Celebra sé stessa: la sua anima antica e contemporanea, il suo Genius Loci capace di emozionare chi la abita e chi la scopre, ogni giorno, come fosse la prima volta.


 

venerdì 19 settembre 2025

Vai Italia, l'inno di Al Bano e Mogol per la candidatura

   

La cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale, domenica 21 la presentazione dell'inno

Quando il cibo viene ancorato in maniera identitaria ad un territorio, smette di essere un momento culinario e diventa esperienza totale. In questo modo coinvolge immediatamente i quatto sensi, vedere, annusare, gustare e toccare; ma quando un cibo è veramente ancorato ad un territorio tocca anche l’udito, perché si racconta e racconta il territorio. Quando arriva nel piatto, quel cibo ti ha detto tante cose e quando lo assapori diventa esperienza avvolgente, coinvolgente e identitaria di quel luogo. Il termine genius loci, di origine latina, definisce letteralmente il “genio”, lo spirito, l’anima di un luogo è caratterizza l’insieme delle peculiarità sociali, culturali, architettoniche, ambientali e identitarie di una popolazione e l’evoluzione di quest’ultima nel corso della storia. 

La cucina italiana rappresenta un vero e proprio mosaico di tradizioni che riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo dei pasti come un’occasione di condivisione e al tempo stesso di confronto.



La  Rete Nazionale dei Borghi GeniusLoci De.Co., IDIMED  e altri,  sostengono  la Candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità promossa dal Governo,  insieme quanti sono impegnati e dedicati alla divulgazione culturale, all’educazione alimentare, alla formazione e alla promozione del territorio, in Italia e all’estero. Con un obiettivo chiaro: tutelare e valorizzare la cultura alimentare e i prodotti agroalimentari di qualità, ponendo particolare attenzione al patrimonio identitario delle produzioni agroalimentari  

PARTECIPA

La candidatura della cucina italiana all’Unesco ha trovato la sua voce ufficiale in una canzone che porta la firma di due protagonisti della musica leggera: Al Bano Carrisi e Mogol. Insieme a cinquanta bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano di Bologna, i due artisti hanno inciso un brano pensato per accompagnare il percorso verso il riconoscimento internazionale. L’atteso verdetto arriverà a dicembre a Nuova Delhi, ma già da settimane si moltiplicano le iniziative di sostegno.

Perché la cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale

La proposta di inserire la cucina italiana nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità è stata ufficialmente lanciata nel marzo 2023 dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste.






La cucina italiana è un patrimonio fatto di conoscenze, gesti quotidiani e pratiche sociali che vanno oltre il semplice cucinare, per questo motivo preparare un piatto e condividerlo diventa un modo per tramandare la memoria familiare, rinsaldare i legami e creare comunità. Ogni territorio contribuisce con le proprie tradizioni, offre un patrimonio che tutela la biodiversità, valorizza la stagionalità degli ingredienti e invita a dare nuova vita agli avanzi, trasformandoli in cultura condivisa.

Oggi questo patrimonio riguarda circa 60 milioni di italiani nel Paese e oltre 80 milioni di connazionali e discendenti all’estero e a essi si aggiungono milioni di stranieri che vedono nello stile alimentare italiano un modello di convivialità e benessere.

Quando sarà presentato l’inno di Al Bano e Mogol per la candidatura

Per accompagnare la candidatura Unesco è nato un brano musicale intitolato ‘Vai Italia’: il testo di Mogol, musicato da Oscar Prudente, è stato inciso da Al Bano insieme ai bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano.

A presentare ufficialmente’Vai Italia’ al pubblico televisivo sarà Mara Venier, nella puntata inaugurale di ‘Domenica In’ del 21 settembre. In quella stessa giornata, in numerose piazze italiane, si terranno pranzi collettivi ispirati al tradizionale “pranzo della domenica”, simbolo di convivialità e occasione di sostegno pubblico alla candidatura.

 Il progetto ha l’obiettivo di ricordare che la cucina è linguaggio universale, capace di unire generazioni e territori attraverso il valore condiviso del cibo.

In una intervista al ‘Corriere della Sera’, Al Bano, a ridosso dell’imminente debutto dell’inno, ha dichiarato: “dal punto di vista culinario il nostro Paese non è secondo a nessuno. Ai fornelli facciamo i fuochi pirotecnici”.

Ha aggiunto che per lui è impossibile scegliere un solo piatto preferito, perché “Ogni regione ha sei o sette specialità che possono essere definite incredibili“.   



mercoledì 10 settembre 2025

10 settembre 2025 | Giornata internazionale di azione contro l'OMC e gli accordi di libero scambio


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"È urgente e necessario un nuovo quadro commerciale mondiale basato sulla sovranità alimentare" – La Via Contadina



Questo appello non è nuovo. Difendiamo il multilateralismo e ci basiamo su decenni di lotta, compresa l'agenda visionaria ma incompiuta del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI), proposta attraverso l'UNCTAD negli anni '70 come parte del processo di decolonizzazione. Il NOEI immaginava un mondo in cui il commercio sarebbe stato al servizio dello sviluppo, non della dominazione. Tuttavia le crisi del debito degli anni '80 e '90, insieme alle politiche di adeguamento strutturale e all'imposizione di riforme neoliberali, hanno costretto ad abbandonare questa visione a favore della liberalizzazione del mercato.
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Oggi rivendichiamo questa aspirazione decoloniale.
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Affermiamo che un altro ordine commerciale non è solo necessario, ma urgente.