“Resta nella storia” dissi rivolgendomi a Filippo e rompendo il silenzio “Che un ammanco di grano di diversi quintali sottratti alla Cooperativa Colajanni, nel dopoguerra, possa essere imputabile ai passeracei voraci che ,cip cip ,giorno e notte trasportavano attraverso una finestrella ,nei loro nidi gran parte del grano stoccato in magazzino”
sabato 11 ottobre 2025
Il cavaliere Giuseppe Volpe
martedì 7 ottobre 2025
I barbari domestici
Peppino
Bivona
Belice di Mare, Agosto 2024
Il viandante
che attraversa le nostre contrade è attratto
dalla campagna menfitana per un suo particolare ed irresistibile fascino: interagisce,si
articola, si lascia coinvolgere con lo sfondo azzurro del mare africano.
Un panorama
particolare,una scenografia accattivante
che si lascia godere appena si
abbandona l’entroterra e si
scende verso la costa. Un susseguirsi
ininterrotto di ampi gradoni
ovvero di terrazze marine che
leggermente degradano verso il mare aperto.
Se invece il viandante percorre la vecchia statale 115
da est ad ovest e viceversa , la scena appare più intrigante. Al susseguirsi di
docili colline che si alternano a fondovalle, si
distendono piccoli appezzamenti regolari, delimitanti i carciofeti, i pochi seminativi, qualche
uliveto e le ampie distese di vigneti.
Il mare, come per gioco, vi appare e poi subito scompare, ad una curva si
cela per poi inaspettatamente svelarsi
,mostrando tutta la sua calma distesa, il suo inconfondibile colore. Questa
magia ci viene regalata grazie ai dodici kilometri di costa, che sommati a quelli belicini, fanno un tratto di campagna-costiera, dal
Belice al Carboj , decisamente unico. Il verde dei vigneti o il giallo dei seminati “sfociano “
nell’azzurro del mare.
Se la campagna mostra il suo
fascino,l’agricoltura di questi luoghi
deve fare i conti con le frequenti mareggiate
che, trasportando goccioline di salsedine, non risparmiano le coltivazioni litoranee. Perciò i
contadini hanno studiato tutta una serie
di apprestamenti per difendere le loro coltivazioni.
Lo chiamavano Peppe di Mare,
un curioso soprannome ,perché non
era un pescatore bensì un contadino ,
povero quanto e forse più dei marinai del luogo. Possedeva buona parte della
collina che sovrastava l’antico borgo marinaro che come un ampio terrazzo, si
affacciava nello stupendo mare tra le “ Solette” e la “Conca della regina”.
Suo nonno l’aveva comprata
dai principi Pignatelli per pochi denari ,nessuno aspirava
a possedere quella “bella” ma
sterile collina. Ma al povero Peppe
quella “ bellezza “ non lo
incuriosiva più di tanto, in fondo l’incanto
suscitato per le attrattive
paesaggistiche è stata tutta una” invenzione” della modernità. Peppe
come suo padre non si lasciava incantare né
distrarre da questo paesaggio mozzafiato, impegnati come erano,
da mattina a sera,con la schiena curva, a zappettare il grano in primavera
o a mieterlo nel mese di giugno. Quel grano cresceva a stento,vuoi per
la cattiva natura del terreno, prevalentemente argillosa , ma ancor più, per le
sferzate di vento carico di salsedine che flagellava la coltura. Così come la vegetazione costiera per difendersi cresceva poco e restava bassa quasi strisciante, raramente le spighe
di grano riuscivano ad arrivare a buon fine . Le buone annate nella vita di
Peppe si contavano come le dita della mano !
All’epoca
c’era un tempo per ogni cosa:
dopo la mietitura e la successiva trebbiatura, i lavori agricoli si placavano, perciò arrivava il tempo di “andare al mare” .
La partenza era sempre animata, movimentata , al vocio chiassoso di
noi ragazzi ,si imponeva l’ordine perentorio degli adulti ai quali spettava il
compito di caricare sulla mula la brocca
con l’acqua, gli ombrelli grandi e neri, le seggiole basse e tante altre cose ritenute di pratica utilità. Dalla vecchia
casa posta sulla sommità della collina la “carovana” seguiva il vecchio Peppe
che con la sua mula faceva da battistrada giù per lo stretto viottolo
e si snodava tra gli asfodeli e
le palme nane, i giunchi, sospeso tra cielo e mare. Dopo infinite
curve, finiva, quasi di sorpresa,a ridosso della mitica spiaggia delle “ solette”. Un tratto
di arenile a forma di mezzaluna che si
estendeva alla fine di una profonda vallata, mentre poco distante, nel mare
aperto, una serie di rocce affioranti
piatte e irregolari si
allungavano di fronte a noi come tante piccole isolette( o come diceva il
vecchio Peppe “solette” ovvero come le
suole delle scarpe).
Questi “luoghi” appartenevano
a Peppe e ai pochi abitanti della zona.
Era tutto il suo mondo. ”Suoi” erano le fredde giornate invernali, quando
la pioggia insistente e violenta , si abbatteva inesorabilmente sul suo volto e su quel
sottile strato di suolo
argilloso mentre cercava di
affidare il seme al terreno.”Suoi” i
venti infuocati di tramontana che
puntualmente arrivavano nei mesi più caldi
ad abbrustolire le poche stoppie. “Suoi” le raffiche di scirocco
carichi di salsedine che
danneggiavano irreparabilmente la vegetazione. “Suoi” le fatiche quotidiane ,il
sudore per strappare a questa avara terra un misero raccolto.
Così come “Sue” erano
le prime brezze che nelle giornate più assolate sentiva salire dalla
costa,cariche di profumo di mare, sature
di essenze floreali. “Suoi” erano
i chiarori di luna che scopriva la mattina presto,una luna piena e
rotonda,che prima di tramontare, di tuffarsi , si specchiava nell’argenteo mare .”Suo” era il silenzio ,
tanto silenzio , interrotto a tratti dal
canto degli uccelli o dal rumoreggiare del mare. “Suo” era questo
piccolo tratto di spiaggia,questo mare….
Tutto questo rappresentava
per il vecchio contadino il suo
patrimonio materiale e spirituale,
tutto quanto costituiva la sua unica ricchezza che un giorno avrebbe
trasmesso per intero ai suoi
figli e nipoti. Questa terra ,diceva
il vecchio Peppe ,era la sua “croce e
delizia”.
Se i luoghi hanno un’anima, come dice Hillman, di
certo sono sedi di uno spirito del
luogo,il”genius loci”.
Peppe di Mare e i suoi si erano “guadagnati”
l’anima di questi luoghi
attraverso la lenta ma costante
accumulazione e deposito degli affetti, operata per decenni
da diverse generazioni che li
l’avevano vissuto, rispettandone la natura, il senso del limite, la
sobrietà , l’interiorità ,la forma.
Peppe possedeva un rapporto intimo e cosciente
con quel “luogo”, aveva consolidato una cultura stabile e “sostenibile” che
aveva alle spalle una visione conservativa, la sua esistenza era segnata dalla
ciclicità, costellata da una intensa vita cerimoniale e rituale. Per Peppe
abitare voleva dire permettere all’anima
dei luoghi di manifestarsi in chi vive
in quel posto, assorbirla in sé, rispettandola e rilasciandola in modo creativo
, cosi che l’abitare diviene un atto “sacro”.
Molto probabilmente gli antenati di Peppe circondavano di pietre i luoghi che
ritenevano sacri per proteggerne lo spirito e
la sua identità : cosi nascevano i templi consacrati alle divinità.
Di certo
questo scenario sembrava non dovesse avere mai fine .
Ma un giorno all’improvviso
arrivarono i barbari, alcuni venivano da
lontano ma i più erano nostrani
.Predoni, come uccelli rapaci calarono dall’alto, comprarono tutto, si appropriarono
delle “delizie”, il meglio che quei luoghi potessero esprimere.
Scavarono, livellarono, costruirono con razionalità strumentale, con praticità
riduttiva e in nome della funzionalità
squarciarono l’interiorità dei luoghi.
Ora ne fruiscono per soli
pochi mesi estivi,distratti, annoiati :efflorescenze senza radici!
I barbari
nostrani, non hanno “storia”, sono senza passato né memoria ,sono
portatori di un modello “civilizzato” che privatizza il panorama che reprime la
“bellezza”, impedisce le emozioni offende
il sentimento , prepara il deserto!
martedì 30 settembre 2025
L'eredità della memoria: Sabato a Menfi omaggio a Peppino Bivona
“Ora noi siamo qui a chiederci, la vita umana finisce con la morte come una stella? Per noi laici e non credenti possiamo accettare che la morte sia l'ultima parola sulla vita? Possiamo vivere una trascendenza nell'immanenza? La morte è la fine naturale di tutte le cose. Ma la vita umana pienamente vissuta, una vita viva, costellata di passioni, operosa, animata da desideri, eccedente la vita stessa... non muore!” Così scriveva Peppino Bivona in uno dei suoi tanti scritti.Queste parole rappresentano il cuore dell'evento organizzato in suo onore, un momento di celebrazione della sua eredità culturale e del suo impegno per il mondo rurale e la valorizzazione del territorio.
Nato a Menfi nel 1948, Peppino Bivona si è laureato in Scienze Agrarie e ha insegnato materie tecniche negli istituti agrari. Dal 1976 ha svolto un ruolo fondamentale nell’assistenza tecnica per l’Ente di Sviluppo Agricolo della Regione Siciliana, e fino al 2010 ha diretto con grande impegno l’azienda sperimentale dimostrativa. Oltre alla sua carriera professionale, Peppino è stato un giornalista attivo, collaborando con numerose testate del settore agricolo, tra cui il sito della Libera Università Rurale, di cui era Presidente.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Diario dell’Ulivo Saraceno” (2018), “Chicco di Sole” (2021) e “Il Sole nel Bicchiere, Menfi e il suo territorio”. La sua opera ha contribuito in modo significativo alla valorizzazione del patrimonio agricolo e culturale delle Terre Sicane.
In Sicilia il Genius Loci della gastronomia
La Sicilia, terra di sole e di vento, di colline profumate e di mari che raccontano storie antiche, quest’anno celebra un riconoscimento che profuma di orgoglio: è stata proclamata da Igcat “Regione europea della gastronomia”. Non è un caso, ma la naturale consacrazione di un’isola che da sempre custodisce nei suoi campi, nelle sue cucine e nei suoi mercati un patrimonio unico al mondo.
Dietro ogni prodotto certificato DOP o IGP non ci sono solo disciplinari e numeri, ma la voce profonda di un territorio che parla attraverso il gusto. L’olio che scivola dorato sul pane, il cioccolato che conserva antiche lavorazioni, il vino che racchiude il respiro delle vigne e della pietra: sono segni concreti di un’identità che non si lascia dimenticare.
Con 67 denominazioni riconosciute, tra cibo e vino, la Sicilia non offre soltanto eccellenze gastronomiche: offre narrazioni di comunità, storie di uomini e donne che da generazioni si fanno custodi di un sapere antico. Ogni DOP e IGP è una carta d’identità del territorio, e il loro valore – oltre i 555 milioni di euro che contribuiscono alla Dop Economy nazionale – è prima di tutto culturale, umano, collettivo.
Ed è proprio qui che si inserisce il percorso dei Borghi Genius Loci De.Co., quel mosaico identitario che mette al centro i luoghi e le persone. Perché se i marchi europei danno regole e garanzie, la De.Co. restituisce il battito del cuore dei borghi: i profumi delle feste popolari, le ricette che non hanno bisogno di manuali, ma si tramandano con un gesto delle mani e con un segreto sussurrato.
In questo viaggio, accanto ai prodotti, camminano i Custodi dell’identità territoriale, donne e uomini che hanno scelto di difendere e raccontare le tradizioni, salvaguardando ciò che rischierebbe di perdersi. Con loro, gli Ambasciatori dell’identità territoriale, chiamati a portare nel mondo il messaggio di un’isola che non si limita a produrre eccellenze, ma le trasforma in strumenti di diplomazia culturale e di sviluppo sostenibile.
Le cifre parlano chiaro: province come Trapani e Agrigento trainano un sistema economico che coinvolge oltre 19.000 operatori, eppure è la narrazione dietro queste cifre a renderle vive. È la visione di contadini, pastori, artigiani e viticoltori che hanno saputo trasformare la fatica in bellezza. È il Cioccolato di Modica che cresce del 10%, ma anche la carezza di chi lo lavora ancora a pietra. È il Pecorino Siciliano che vale milioni, ma soprattutto vale il sorriso degli anziani che insegnano ai giovani a non dimenticare.
Essere Regione europea della gastronomia non è solo un premio, ma una missione: ricordare che il futuro della Sicilia passa dalla capacità di coniugare tradizione e innovazione, radici e visione, identità e sviluppo. È la sfida di un’isola che sa raccontarsi attraverso i suoi borghi, attraverso i suoi custodi, attraverso i suoi ambasciatori.
la Sicilia non celebra soltanto un titolo. Celebra sé stessa: la sua anima antica e contemporanea, il suo Genius Loci capace di emozionare chi la abita e chi la scopre, ogni giorno, come fosse la prima volta.
venerdì 19 settembre 2025
Vai Italia, l'inno di Al Bano e Mogol per la candidatura
La cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale, domenica 21 la presentazione dell'inno
Quando il cibo viene ancorato in maniera identitaria ad un territorio, smette di essere un momento culinario e diventa esperienza totale. In questo modo coinvolge immediatamente i quatto sensi, vedere, annusare, gustare e toccare; ma quando un cibo è veramente ancorato ad un territorio tocca anche l’udito, perché si racconta e racconta il territorio. Quando arriva nel piatto, quel cibo ti ha detto tante cose e quando lo assapori diventa esperienza avvolgente, coinvolgente e identitaria di quel luogo. Il termine genius loci, di origine latina, definisce letteralmente il “genio”, lo spirito, l’anima di un luogo è caratterizza l’insieme delle peculiarità sociali, culturali, architettoniche, ambientali e identitarie di una popolazione e l’evoluzione di quest’ultima nel corso della storia.
La cucina italiana rappresenta un vero e proprio mosaico di tradizioni che riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo dei pasti come un’occasione di condivisione e al tempo stesso di confronto.
La Rete Nazionale dei Borghi GeniusLoci De.Co., IDIMED e altri, sostengono la Candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità promossa dal Governo, insieme a quanti sono impegnati e dedicati alla divulgazione culturale, all’educazione alimentare, alla formazione e alla promozione del territorio, in Italia e all’estero. Con un obiettivo chiaro: tutelare e valorizzare la cultura alimentare e i prodotti agroalimentari di qualità, ponendo particolare attenzione al patrimonio identitario delle produzioni agroalimentari
La candidatura della cucina italiana all’Unesco ha trovato la sua voce ufficiale in una canzone che porta la firma di due protagonisti della musica leggera: Al Bano Carrisi e Mogol. Insieme a cinquanta bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano di Bologna, i due artisti hanno inciso un brano pensato per accompagnare il percorso verso il riconoscimento internazionale. L’atteso verdetto arriverà a dicembre a Nuova Delhi, ma già da settimane si moltiplicano le iniziative di sostegno.
Perché la cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale
La proposta di inserire la cucina italiana nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità è stata ufficialmente lanciata nel marzo 2023 dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste.
La cucina italiana è un patrimonio fatto di conoscenze, gesti quotidiani e pratiche sociali che vanno oltre il semplice cucinare, per questo motivo preparare un piatto e condividerlo diventa un modo per tramandare la memoria familiare, rinsaldare i legami e creare comunità. Ogni territorio contribuisce con le proprie tradizioni, offre un patrimonio che tutela la biodiversità, valorizza la stagionalità degli ingredienti e invita a dare nuova vita agli avanzi, trasformandoli in cultura condivisa.
Oggi questo patrimonio riguarda circa 60 milioni di italiani nel Paese e oltre 80 milioni di connazionali e discendenti all’estero e a essi si aggiungono milioni di stranieri che vedono nello stile alimentare italiano un modello di convivialità e benessere.
Quando sarà presentato l’inno di Al Bano e Mogol per la candidatura
Per accompagnare la candidatura Unesco è nato un brano musicale intitolato ‘Vai Italia’: il testo di Mogol, musicato da Oscar Prudente, è stato inciso da Al Bano insieme ai bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano.
A presentare ufficialmente’Vai Italia’ al pubblico televisivo sarà Mara Venier, nella puntata inaugurale di ‘Domenica In’ del 21 settembre. In quella stessa giornata, in numerose piazze italiane, si terranno pranzi collettivi ispirati al tradizionale “pranzo della domenica”, simbolo di convivialità e occasione di sostegno pubblico alla candidatura.
Il progetto ha l’obiettivo di ricordare che la cucina è linguaggio universale, capace di unire generazioni e territori attraverso il valore condiviso del cibo.
In una intervista al ‘Corriere della Sera’, Al Bano, a ridosso dell’imminente debutto dell’inno, ha dichiarato: “dal punto di vista culinario il nostro Paese non è secondo a nessuno. Ai fornelli facciamo i fuochi pirotecnici”.
Ha aggiunto che per lui è impossibile scegliere un solo piatto preferito, perché “Ogni regione ha sei o sette specialità che possono essere definite incredibili“.
mercoledì 10 settembre 2025
10 settembre 2025 | Giornata internazionale di azione contro l'OMC e gli accordi di libero scambio


martedì 2 settembre 2025
Il ritorno del latino
emma fattorini
lingua morta o voce viva dell’identità?
Dalle scuole medie italiane alla liturgia cattolica, il latino torna al centro del dibattito tra ideologia, tradizione e cultura, tra equivoci mediatici e passioni ecclesiali
Annosa polemica quella sul latino: serve, non serve? Si toglie e si rimette nelle pseudo- riforme delle tribolate scuole medie italiane. Da ultimo, in gennaio, il ministro dell’Istruzione e del Merito dell’Italia, Giuseppe Valditara, ha annunciato la reintroduzione di questa materia di studio nelle scuole medie a partire dall’anno scolastico 2026/27. Da allora, si sono rinfocolate le polemiche tra chi considera il latino un mezzo prioritario per tutelare la nostra identità culturale e chi lo bolla come roba passatista, reazionaria, di destra. Eppure, e non certo da oggi, è arrivato un inequivocabile altolà da grandi intellettuali del “fronte opposto”, come, tra gli altri, Luciano Canfora e Ivano Dionigi: il latino non è né di destra né di sinistra. E, chi afferma il contrario, chiude la questione Canfora con la consueta efficace franchezza, dà prova «di non capire niente». Il latino non può, aggiunge l’ex rettore dell’Università di Bologna Dionigi, essere ridotto a «questione ideologica» o «bandierina identitaria».
E’ questa una diatriba, fatte ovviamente le debite differenze, che si è riproposta anche nella Chiesa cattolica dai tempi del concilio Vaticano II, di cui, il prossimo 8 dicembre, ricorrerà il 60° anniversario della chiusura. E’ da sessant’anni a questa parte, che continua ad agitare gli animi dei cosiddetti conservatori e progressisti. Il latino è divenuto, via, via un vero e proprio vessillo dei loro scontri.
Eppure, va detto ancora una volta, liquidando l’opposta sentenza come un marchiano falso storico, che il Concilio non ha mai bandito il latino dalla liturgia e dagli altri usi ecclesiali. Preceduti dalla costituzione apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII (22 febbraio 1962), due documenti conciliari, la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium e il decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, hanno non solo mantenuto in essere l’uso della lingua latina ma caldamente raccomandato. E si devono al “Papa del Concilio”, il grande e non ancora pienamente compreso Paolo VI, due benemerite istituzioni per lo studio e la promozione della lingua e della cultura latina, rispettivamente fondate nel 1964 e nel 1976: il Pontificio istituto superiore di latinità, divenuto nel ’71 la Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’attuale Università pontificia salesiana, e la Fondazione Latinitas, soppressa da Benedetto XVI nel 2012 e contestualmente confluita nella neo-eretta Pontificia accademia di latinità. È stato proprio Montini, d’altra parte, a intervenire ripetutamente sul latino quale lingua ufficiale della Chiesa, concetto poi ripreso e nuovamente esplicitato da tutti i suoi successori, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. E, pur non parlandone in tali termini, anche Francesco ha comunque sottolineato più volte l’importanza del latino – come, ad esempio, nel messaggio del 2023 alla Pontificia accademia di latinità –, cui è spesso ricorso, «per spiegare il significato più profondo di parole, concetti teologici o filosofici in modo semplice e comprensibile».
Su tutta questa questione mette ordine, con il suo consueto acume, il giornalista e scrittore Francesco Lepore, nel suo ultimo libro Bellezza antica e sempre nuova. Il latino nel mondo di oggi, Edito da Castelvecchi in uscita in questi giorni, con prefazione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi. E con la sua nota acribia ha dedicato alla questione interna alla Chiesa uno specifico paragrafo dal titolo provocatorio Chiesa e latino: una storia d’amore finita? In questo libro, dai temi difficili ma dalla scrittura scorrevole e piacevolissima troviamo anche una selezione di cinquanta brevi articoli, in lingua latina con traduzione italiana a fronte, su fatti, persone, curiosità degli ultimi cinque anni.
Già latinista pontificio in Segreteria di Stato, l’autore, che ha abbandonato il ministero sacerdotale nel 2006 per motivi di coscienza e vivere apertamente la propria omosessualità, cura infatti dal 2020 una rubrica quotidiana in latino su Linkiesta.it, da cui sono tratte le commentatiunculae scelte e raccolte nel libro.
Nelle osservazioni introduttive al volume Lepore spiega, con grande chiarezza, l’utilità del latino quale valido mezzo per migliorare le capacità espressive in italiano, potenziare il nostro vocabolario, conoscere più approfonditamente le lingue europee e accedere al complesso della cultura occidentale. E osserva anche come si debba «principalmente, sebbene non solo, alla Chiesa cattolica» se lo stesso latino è anche «sopravvissuto fino ai nostri giorni come lingua non solo di studio ma anche di comunicazione» (p. 26). Con esplicito riferimento proprio agli scriptores della citata Sezione latina della Segreteria di Stato vaticana, che, componendo in tale lingua i più importanti documenti pontifici, contribuiscono ad attualizzare il latino col conio di neologismi o l’attribuzione di nuovi significati a parole già esistenti, per esprimere adeguatamente concetti e realtà contemporanei. Ed ha perfettamente ragione quando definisce infondate «le mai sopite voci, rimesse periodicamente in circolo dai mezzi d’informazione, sull’abolizione e sulla proscrizione dell’uso del latino nella liturgia e nella vita della Chiesa» (p. 29). Voci, che sono da attribuire anche a una certa negligenza di preti e vescovi nel seguire le numerose direttive pontificie sull’uso del latino, ma soprattutto la grossolana identificazione da parte di alcuni media «tra lingua e antica forma del rito romano», complice la liberalizzazione della cosiddetta “Messa tridentina” o “preconciliare”, disposta da Benedetto XVI nel 2007 e totalmente ridimensionata – al limite quasi della proibizione – da Francesco nel 2021.
Personalmente appartengo a quella generazione, che ha vissuto con entusiasmo la stagione conciliare e ha positivamente salutato l’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia per una maggiore comprensione dei misteri celebrati e della Parola di Dio annunciata. Ma, proprio secondo il dettato della Sacrosanctum Concilium, riconosco, allo stesso tempo, la bellezza e la ricchezza della liturgia in latino. Né, in linea di massima, sono totalmente contraria alla Messa in rito romano antico ( se non quando è celebrata, partecipata e promossa, a puro scopo polemico e divisivo, come nei seguaci di Marcel Lefebvre per rigettare il Vaticano II): da sempre nella Chiesa sono molti e vari i riti legittimi, che esprimono l’unica ricchezza della fede. Lo dice Francesco Lepore in una nota, «le restrizioni, imposte con zelo forse eccessivo» da Bergoglio con la Traditionis custodes, «hanno invece non solo acuito le divisioni intraecclesiali tra “conservatori” e “progressisti” ma anche favorito, più in generale, un’ulteriore polarizzazione delle posizioni pro e contro il latino». E ciò non è certamente un elemento positivo