venerdì 19 settembre 2025

Vai Italia, l'inno di Al Bano e Mogol per la candidatura

   

La cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale, domenica 21 la presentazione dell'inno

Quando il cibo viene ancorato in maniera identitaria ad un territorio, smette di essere un momento culinario e diventa esperienza totale. In questo modo coinvolge immediatamente i quatto sensi, vedere, annusare, gustare e toccare; ma quando un cibo è veramente ancorato ad un territorio tocca anche l’udito, perché si racconta e racconta il territorio. Quando arriva nel piatto, quel cibo ti ha detto tante cose e quando lo assapori diventa esperienza avvolgente, coinvolgente e identitaria di quel luogo. Il termine genius loci, di origine latina, definisce letteralmente il “genio”, lo spirito, l’anima di un luogo è caratterizza l’insieme delle peculiarità sociali, culturali, architettoniche, ambientali e identitarie di una popolazione e l’evoluzione di quest’ultima nel corso della storia. 

La cucina italiana rappresenta un vero e proprio mosaico di tradizioni che riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo dei pasti come un’occasione di condivisione e al tempo stesso di confronto.



La  Rete Nazionale dei Borghi GeniusLoci De.Co., IDIMED  e altri,  sostengono  la Candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità promossa dal Governo,  insieme quanti sono impegnati e dedicati alla divulgazione culturale, all’educazione alimentare, alla formazione e alla promozione del territorio, in Italia e all’estero. Con un obiettivo chiaro: tutelare e valorizzare la cultura alimentare e i prodotti agroalimentari di qualità, ponendo particolare attenzione al patrimonio identitario delle produzioni agroalimentari  

PARTECIPA

La candidatura della cucina italiana all’Unesco ha trovato la sua voce ufficiale in una canzone che porta la firma di due protagonisti della musica leggera: Al Bano Carrisi e Mogol. Insieme a cinquanta bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano di Bologna, i due artisti hanno inciso un brano pensato per accompagnare il percorso verso il riconoscimento internazionale. L’atteso verdetto arriverà a dicembre a Nuova Delhi, ma già da settimane si moltiplicano le iniziative di sostegno.

Perché la cucina italiana è candidata all’Unesco come patrimonio immateriale

La proposta di inserire la cucina italiana nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità è stata ufficialmente lanciata nel marzo 2023 dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste.






La cucina italiana è un patrimonio fatto di conoscenze, gesti quotidiani e pratiche sociali che vanno oltre il semplice cucinare, per questo motivo preparare un piatto e condividerlo diventa un modo per tramandare la memoria familiare, rinsaldare i legami e creare comunità. Ogni territorio contribuisce con le proprie tradizioni, offre un patrimonio che tutela la biodiversità, valorizza la stagionalità degli ingredienti e invita a dare nuova vita agli avanzi, trasformandoli in cultura condivisa.

Oggi questo patrimonio riguarda circa 60 milioni di italiani nel Paese e oltre 80 milioni di connazionali e discendenti all’estero e a essi si aggiungono milioni di stranieri che vedono nello stile alimentare italiano un modello di convivialità e benessere.

Quando sarà presentato l’inno di Al Bano e Mogol per la candidatura

Per accompagnare la candidatura Unesco è nato un brano musicale intitolato ‘Vai Italia’: il testo di Mogol, musicato da Oscar Prudente, è stato inciso da Al Bano insieme ai bambini dei cori di Caivano e dell’Antoniano.

A presentare ufficialmente’Vai Italia’ al pubblico televisivo sarà Mara Venier, nella puntata inaugurale di ‘Domenica In’ del 21 settembre. In quella stessa giornata, in numerose piazze italiane, si terranno pranzi collettivi ispirati al tradizionale “pranzo della domenica”, simbolo di convivialità e occasione di sostegno pubblico alla candidatura.

 Il progetto ha l’obiettivo di ricordare che la cucina è linguaggio universale, capace di unire generazioni e territori attraverso il valore condiviso del cibo.

In una intervista al ‘Corriere della Sera’, Al Bano, a ridosso dell’imminente debutto dell’inno, ha dichiarato: “dal punto di vista culinario il nostro Paese non è secondo a nessuno. Ai fornelli facciamo i fuochi pirotecnici”.

Ha aggiunto che per lui è impossibile scegliere un solo piatto preferito, perché “Ogni regione ha sei o sette specialità che possono essere definite incredibili“.   



mercoledì 10 settembre 2025

10 settembre 2025 | Giornata internazionale di azione contro l'OMC e gli accordi di libero scambio


🌱
"È urgente e necessario un nuovo quadro commerciale mondiale basato sulla sovranità alimentare" – La Via Contadina



Questo appello non è nuovo. Difendiamo il multilateralismo e ci basiamo su decenni di lotta, compresa l'agenda visionaria ma incompiuta del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI), proposta attraverso l'UNCTAD negli anni '70 come parte del processo di decolonizzazione. Il NOEI immaginava un mondo in cui il commercio sarebbe stato al servizio dello sviluppo, non della dominazione. Tuttavia le crisi del debito degli anni '80 e '90, insieme alle politiche di adeguamento strutturale e all'imposizione di riforme neoliberali, hanno costretto ad abbandonare questa visione a favore della liberalizzazione del mercato.
🌱
Oggi rivendichiamo questa aspirazione decoloniale.
🌱
Affermiamo che un altro ordine commerciale non è solo necessario, ma urgente.

martedì 2 settembre 2025

Il ritorno del latino

 emma fattorini

 lingua morta o voce viva dell’identità?


Dalle scuole medie italiane alla liturgia cattolica, il latino torna al centro del dibattito tra ideologia, tradizione e cultura, tra equivoci mediatici e passioni ecclesiali


Annosa polemica quella sul latino: serve, non serve? Si toglie e si rimette nelle pseudo- riforme delle tribolate scuole medie italiane. Da ultimo, in gennaio, il ministro dell’Istruzione e del Merito dell’Italia, Giuseppe Valditara, ha annunciato la reintroduzione di questa materia di studio nelle scuole medie a partire dall’anno scolastico 2026/27. Da allora, si sono rinfocolate le polemiche tra chi considera il latino un mezzo prioritario per tutelare la nostra identità culturale e chi lo bolla come roba passatista, reazionaria, di destra. Eppure, e non certo da oggi, è arrivato un inequivocabile altolà da grandi intellettuali del “fronte opposto”, come, tra gli altri, Luciano Canfora e Ivano Dionigi: il latino non è né di destra né di sinistra. E, chi afferma il contrario, chiude la questione Canfora con la consueta efficace franchezza, dà prova «di non capire niente». Il latino non può, aggiunge l’ex rettore dell’Università di Bologna Dionigi, essere ridotto  a «questione ideologica» o «bandierina identitaria».

E’ questa una diatriba, fatte ovviamente le debite differenze, che si è riproposta anche nella Chiesa cattolica dai tempi del concilio Vaticano II, di cui, il prossimo 8 dicembre, ricorrerà il 60° anniversario della chiusura. E’ da sessant’anni a questa parte, che continua ad agitare gli animi dei cosiddetti conservatori e progressisti.  Il latino è divenuto, via, via un vero e proprio vessillo dei loro scontri.

Eppure, va detto ancora una volta, liquidando l’opposta sentenza come un marchiano falso storico, che il Concilio non ha mai bandito il latino dalla liturgia e dagli altri usi ecclesiali. Preceduti dalla costituzione apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII (22 febbraio 1962), due documenti conciliari, la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium e il decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, hanno non solo mantenuto in essere l’uso della lingua latina ma caldamente raccomandato. E si devono al “Papa del Concilio”, il grande e non ancora pienamente compreso Paolo VI, due benemerite istituzioni per lo studio e la promozione della lingua e della cultura latina, rispettivamente fondate nel 1964 e nel 1976: il Pontificio istituto superiore di latinità, divenuto nel ’71 la Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’attuale Università pontificia salesiana, e la Fondazione Latinitas, soppressa da Benedetto XVI nel 2012 e contestualmente confluita nella neo-eretta Pontificia accademia di latinità. È stato proprio Montini, d’altra parte, a intervenire ripetutamente sul latino quale lingua ufficiale della Chiesa, concetto poi ripreso e nuovamente esplicitato da tutti i suoi successori, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. E, pur non parlandone in tali termini, anche Francesco ha comunque sottolineato più volte l’importanza del latino – come, ad esempio, nel messaggio del 2023 alla Pontificia accademia di latinità –, cui è spesso ricorso, «per spiegare il significato più profondo di parole, concetti teologici o filosofici in modo semplice e comprensibile».

09:24


DuDurante il pontificato di Bergoglio, inoltre, l’account papale Twitter, poi X, in lingua latina, a cura dei latinisti della Segreteria di Stato vaticana, ha superato il milione di follower, mentre su Radio Vaticana è stato dato il via, ogni domenica, a un notiziario tutto in latino, Hebdomada Papae, e a uno specifico programma, Anima Latina, condotto in italiano ma dedicato a cultori e cultrici dell’antica lingua. Da parte sua, Leone XIV, che legge correntemente il latino e, nella scelta del nome pontificale, si è espressamente ispirato a Leone XIII, il papa della Rerum Novarum – che è stato anche uno dei più grandi latinisti dei suoi tempi – ha dato prova di attenzione e amore per la lingua ufficiale della Chiesa sin dalla sera dell’elezione (8 maggio 2025), impartendo nuovamente in latino la prima solenne benedizione Urbi et Orbi.

Su tutta questa questione mette ordine, con il suo consueto acume,  il giornalista e scrittore Francesco Lepore,  nel suo ultimo libro Bellezza antica e sempre nuova. Il latino nel mondo di oggi, Edito da Castelvecchi in uscita in questi giorni, con prefazione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi. E con la sua nota acribia ha dedicato alla questione interna alla Chiesa  uno specifico paragrafo dal titolo provocatorio Chiesa e latino: una storia d’amore finita? In questo libro, dai temi difficili ma dalla scrittura scorrevole e piacevolissima troviamo anche una selezione di cinquanta brevi articoli, in lingua latina con traduzione italiana a fronte, su fatti, persone, curiosità degli ultimi cinque anni.

Già latinista pontificio in Segreteria di Stato, l’autore, che ha abbandonato il ministero sacerdotale nel 2006 per motivi di coscienza e vivere apertamente la propria omosessualità, cura infatti dal 2020 una rubrica quotidiana in latino su Linkiesta.it, da cui sono tratte le commentatiunculae scelte e raccolte nel libro.

Nelle osservazioni introduttive al volume Lepore spiega, con grande chiarezza, l’utilità del latino quale valido mezzo per migliorare le capacità espressive in italiano, potenziare il nostro vocabolario, conoscere più approfonditamente le lingue europee e accedere al complesso della cultura occidentale. E osserva anche come si debba «principalmente, sebbene non solo, alla Chiesa cattolica» se lo stesso latino è anche «sopravvissuto fino ai nostri giorni come lingua non solo di studio ma anche di comunicazione» (p. 26). Con esplicito riferimento proprio agli scriptores della citata Sezione latina della Segreteria di Stato vaticana, che, componendo in tale lingua i più importanti documenti pontifici, contribuiscono ad attualizzare il latino col conio di neologismi o l’attribuzione di nuovi significati a parole già esistenti, per esprimere adeguatamente concetti e realtà contemporanei. Ed ha perfettamente  ragione quando definisce infondate «le mai sopite voci, rimesse periodicamente in circolo dai mezzi d’informazione, sull’abolizione e sulla proscrizione dell’uso del latino nella liturgia e nella vita della Chiesa» (p. 29). Voci, che sono da attribuire anche a una certa negligenza di preti e vescovi nel seguire le numerose direttive pontificie sull’uso del latino, ma soprattutto la grossolana identificazione da parte di alcuni media «tra lingua e antica forma del rito romano», complice la liberalizzazione della cosiddetta “Messa tridentina” o “preconciliare”, disposta da Benedetto XVI nel 2007 e totalmente ridimensionata – al limite quasi della proibizione – da Francesco nel 2021.

Personalmente appartengo a quella generazione, che ha vissuto con entusiasmo la stagione conciliare e ha positivamente salutato l’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia per una maggiore comprensione dei misteri celebrati e della Parola di Dio annunciata. Ma, proprio secondo il dettato della Sacrosanctum Concilium, riconosco, allo stesso tempo, la bellezza e la ricchezza della liturgia in latino. Né, in linea di massima, sono totalmente contraria alla Messa in rito romano antico ( se non quando è celebrata,  partecipata e  promossa, a puro scopo polemico e divisivo, come nei seguaci di Marcel Lefebvre per rigettare il Vaticano II): da sempre nella Chiesa sono molti e vari i riti legittimi, che esprimono l’unica ricchezza della fede. Lo dice Francesco Lepore in una nota, «le restrizioni, imposte con zelo forse eccessivo» da Bergoglio con la Traditionis custodes, «hanno invece non solo acuito le divisioni intraecclesiali tra “conservatori” e “progressisti” ma anche favorito, più in generale, un’ulteriore polarizzazione delle posizioni pro e contro il latino». E ciò non è certamente un elemento positivo