domenica 14 aprile 2013

Sviluppo, crescita, progresso ? ..No, grazie!




Giuseppe Bivona


Ci sono due categorie di persone che credono nello crescita illimitata: i pazzi e gli …economisti




















                                  Quel  mattino tutto il villaggio era in festa, il vecchio capo tribù africano era impaziente di riabbracciare il suo primogenito di ritorno dopo 5 anni di lontananza. Era andato ragazzino a studiare a Londra, voleva imparare la lingua dei bianchi e capire i loro usi e costumi, carpire il segreto del loro successo….
Il giovanotto , aveva l’aria intelligente, osservava con curiosità la vita nel villaggio,  in  particolare le fatiche quotidiane a cui erano sottoposti uomini e donne per attingere l’acqua dal pozzo poco profondo , insufficiente in alcune annate siccitose a dissetare pure il bestiame.
“ Padre “ disse  il giovane studente “ perché non proviamo  a trivellare  un pozzo cosi abbiamo acqua sufficiente per tutti, uomini, animali ed irrigare anche buona parte della terra per produrre foraggio!”
Il vecchio capo africano rimase per qualche minuto in silenzio, quasi pensieroso, poi rispose:
“ Vedi figliolo, l’idea non è di per se cattiva, anzi ammiro la tua sensibilità verso la sofferenza del tuo popolo, ma più acqua noi disponiamo, più foraggio possiamo produrre , cosi possiamo allevare più bestiame, il quale  chiederà più erba per nutrirsi e noi dobbiamo scavare altri pozzi, come dire più soddisfi il bisogno più questo si accresce. E’ una strana legge della natura, c’è sempre qualcosa  di troppo in confronto a quell’altro, un fattore che abbonda  che si alterna alla scarsità  di un altro. Una strenua  rincorsa  verso   la ricerca del suo improbabile  equilibrio!”

                                                                                 Noi  invece non abbiamo avuto alcun dubbio: lo sviluppo, la crescita, nonostante conseguenze devastanti sulla società e l’ambiente, resta il principale obbiettivo dei politici, delle agenzie internazionali, dei governi. La tesi  esposta in tutte le salse non cambia: lo sviluppo ed il libero commercio globale che lo alimenta,  può sradicare la povertà!
 Ma cosi non è, tanto che,  poco dopo la seconda guerra mondiale,  abbiamo avuto una performance senza precedenti. Appare evidente che se questi processi fossero  veramente una risposta alla povertà mondiale, allora questa dovrebbe essere stata ridotta  a poco più di un vago ricordo.
Stranamente per i fautori della crescita, la povertà non è vista come un problema isolato  in un preciso contesto, ma come la causa di tutti gli altri problemi, così se la gente ha fame è perché è povera e non può permettersi di comprare il cibo di cui ha bisogno,  oppure se si ammala e muore giovane, è perché è povera e non può permettersi di comprare le medicine.
La risposta più ovvia sia alla fame che alle malattie è perciò lo sradicamento della povertà, e dunque lo sviluppo.
Da qui l’ovvia conclusione che la povertà è equiparata al “sottosviluppo”, e solo lo sviluppo può eradicarla.
Nelle condizioni economiche in cui viviamo  definiamo la povertà in termini puramente monetari, un requisito indispensabile per soddisfare i bisogni reali. Ne siamo talmente convinti  che guardiamo tutti i nostri problemi con l’aberrante esperienza  di questa nostra realtà che ci hanno insegnato a considerare come ovvia e normale. E se ribaltassimo la “frittata”? E se fosse invece lo sviluppo, l’illusione della crescita, ad accrescere la povertà?
Per buona parte della vita sulla terra le famiglie e le comunità tradizionali  progettavano villaggi, costruivano case, il cibo veniva prodotto, preparato e distribuito, i bambini erano allevati ed istruiti, ci si prendeva cura dei vecchi e malati, si organizzavano e celebravano cerimonie religiose,  si svolgevano funzioni di governo, e tutto questo in forma completamente gratuita. Ciò era possibile perché, come sostiene lo storico dell’economia Karl Polary: “ in  tali società  l’economia era incastrata nelle relazioni sociali “. Tutte le funzioni che oggi consideriamo economiche erano compiute per ragioni sociali, vuoi per  soddisfare relazioni di parentela che per ottenere prestigio sociale.
 Lo sviluppo cambia e sovverte tutto, inizia con il graduale scioglimento dal loro contesto sociale  di tutte quelle funzioni svolte gratuitamente, monetizzandole e assorbite dallo stato e dalle corporazioni. D’ora in poi chi non ha soldi non può pagarsi il cibo, non può disporre di una casa e di altre necessità della vita. Così lo sviluppo ha creato a livello mondiale sempre più miserabili e disgraziati, e il loro numero è destinato a crescere con il progredire della  globalizzazione e dello sviluppo.
Ovviamente siamo stati addestrati a credere che i popoli pre-industriali erano  poveri, malati e infelici. Invece, quei popoli,  avevano una vita culturale e cerimoniale ricca, e nel complesso vivevano in un ambiente non guastato, di solito erano ben nutriti e in perfetta salute, fino a quando i loro modelli sociali ed organizzativi non furono scombussolati  dalla colonizzazione, e poi dallo sviluppo economico occidentale, e il loro ambiente naturale distrutto.
Quei popoli non si sentivano “poveri” malgrado vivessero in ambiente difficile e possedessero pochi beni. Povertà non significa, sostiene Latouche,  avere pochi beni, né è una relazione tra mezzi e fini, ma  è soprattutto una relazione tra persone, la povertà è uno stato sociale e come tale una invenzione della nostra società.
In questo senso la povertà non è associata alla mancanza di denaro, ma  piuttosto all’assenza di un rapporto sociale  che trova il suo terreno di coltura nella società individualista, possessiva, vogliosa di accumulare ricchezze.
I veri poveri sono gli anziani in gran parte abbandonati dalle famiglie e dipendenti da una miserabile pensione statale. Sono poveri le madri separati senza reddito. Sono tutte le persone che –secondo Durkheim-  soffrono di  anomia, ovvero, quando le loro vite sono vuote e senza scopo, prive di significative relazioni umane.
 Ma il principale contributo  dello sviluppo economico  all’aumento della povertà   nel mondo è la  produzione di sempre più grandi quantità di gas  responsabili dell’effetto serra  che causano il riscaldamento globale  del pianeta, è l’inquinamento del suolo, dell’aria, dei fiumi, del mare! Di certo lo sviluppo avrà eliminato la povertà  perché di fatto la terra sarà inabitabile  dagli esseri umani: ricchi e poveri saranno incapaci di sopravvivere. 

     



  

martedì 9 aprile 2013

La De.Co. Ambasciatore dell'Identità Territoriale


NinoSutera


Un modello di De.Co per la Sicilia, che valorizzi il territorio, ma soprattutto, a burocrazia zero e chiaramente a costo zero, per le aziende, per le istituzioni e per i cittadini, dove gli elementi essenziali di relazionalità sono Territorio-Tradizioni-Tipicità-Tracciabilità-Trasparenzache rappresentano la vera componente innovativa. La De.Co. Denominazione Comunale è un concreto strumento di marketing territoriale, ma è soprattutto un importante opportunità per il recupero e la valorizzazione delle identità locali. L’Italia, è il “paese dei Comuni”, ognuno di essi è un’occasione, di turismo, di cultura, di sapore… di unicità. Per garantire la sostenibilità di una De.Co. occorrono tuttavia due principi, la storicità del prodotto da promuovere, perchè si eviti improvvisazioni che possono nascere da meri interessi commerciali. e la De.Co. come espressione di un patrimonio collettivo e non a vantaggio di una singola azienda. Si tratta di un sistema innovativo che vuole difendere il locale rispetto al fenomeno della globalizzazione, la quale tende ad omogeneizzare prodotti e sapori. 
Per fare ciò bisogna coinvolgere tanti appassionati, tantissimi innamorati dei luoghi in cui dimorano, ed ecco gli ambasciatori dell’identità territoriale.

I produttori agricoli e zootecnici ma anche i pescatori, custodiscono sapientemente un giacimento inesauribile della dieta mediterranea, costituiscono il collante tra i prodotti della terra e del mare e il territorio. Rappresentano infatti gli ereditieri di un “savoirfaire” locale, portatori di valori specifici, artefici di una costruzione sociale e di una cooperazione che ha come risultato la qualificazione di un prodotto di cui i riferimenti sono l’identità del gusto. Le caratteristiche del prodotto sono irriproducibili in altri luoghi, cioè al di fuori di quel particolare contesto economico, ambientale, sociale e culturale, e pertanto uniche. Il prodotto del territorio è la risultante di questa interazione, e incorpora un sapere costruito nel tempo e condiviso all’interno di una collettività territorializzata e condivisa.Questo processo di accumulazione di conoscenza e di sedimentazione locale tramite interazione permette al prodotto di divenire l’espressione della società locale nella sua organizzazione, nei suoi valori, nelle sue tradizioni e nei suoi gusti adattati al contesto ambientale, economico, sociale e culturale del luogo. 
Gli ambasciatori dell’identità territoriale, sono quindi destinati ad assolvere a un ruolo fondamentale, comunicare e far conoscere il territorio, il quale assume un importanza crescente anche nei confronti del visitatore, e del viaggiante, che ritrova nel prodotto, un insieme di valori, ivi compresi quelli identitari.
In questo percorso , chef, gastronauti, giornalisti, sommelier, associazioni, pro-loco, intenditori e appassionati, sono partners privilegiati, candidati ideali a divenire Ambasciatori dell’identità territoriale.

mercoledì 3 aprile 2013

La “dolce” vendetta delle monache di clausura


di 
Giuseppe Bivona







Dal convento, 30 Gennaio

Non ho voluto lasciare passare il mese senza scriverti. Tu avresti potuto credere che io sia triste, infelice, mentre qui, ai piedi degli altari, nelle pratiche austere del nostro rito ho trovato, se non la pace, almeno la calma del cuore.
È vero. Si prova uno sgomento invincibile entrando qui, sentendosi chiudere alle spalle quella porta, vedendosi mancare ad un tratto l'aria, la luce, sotto questi corridoi, fra questo silenzio di tomba e il suono monotono di queste preci. Tutto rattrista il cuore e lo spaurisce: quelle fantasime nere che si veggono passare sotto la fioca luce della lampada che arde dinnanzi al crocifisso, che s'incontrano senza parlarsi, che camminano senza far rumore come se fossero spettri, i fiori che intristiscono nel giardino, il sole che tenta invano [di] oltrepassare i vetri opachi delle finestre, le grate di ferro, le cortine di saia bruna. Si ode il mondo turbinare al di fuori e i suoi rumori vengono ad estinguersi su queste mura come un sospiro. Tutto quello che viene dal di fuori è pallido e non fa strepito. Son sola in mezzo a cento altre derelitte.
Ho perduto anche la consolazione della famiglia; non posso vederla che in presenza di molta gente, in una gran sala oscura, attraverso la doppia grata che difende la finestra. Le nostri mani non possono stringersi scambievolmente. L'intimità sparisce. Non restano che fantasmi che si parlano attraverso le gelosie, e ogni volta domando a me stessa se quello è mio padre, quel padre che mi sorrideva e mi abbracciava, s'è quella stessa Giuditta che saltellava con me, s'è quello stesso Gigi ch'era così vispo e allegro. Ora son serî, freddi, malinconici; mi guardano attraverso le grate della gelosia come viventi che si affacciano alla tomba per vedere cadaveri che parlano e si muovono.
Eppure tutte queste privazioni, tutte queste austere pratiche servono a distaccare il cuore dalla fragilità della terra, ad isolarlo, a farlo pensare a sé stesso, a dargli quella mutua calma che viene da Dio e dal pensiero che così si abbrevia il nostro pellegrinaggio sulla terra. Mi son confessata. Ho detto tutto! tutto! Quel buon padre ha avuto compassione del mio povero cuore malato. Mi ha confortato, mi ha consigliato, mi ha aiutato a strapparmi il demone dal seno. Mi sento più libera, più tranquilla, più degna della misericordia di Dio.
Domani entrerò in noviziato. Hanno voluto indugiare ancora pochi giorni perché la mia salute è malferma. Non mi son rimessa mai intieramente dalla malattia che soffersi lassù a Monte Ilice. Ogni due o tre giorni ho la febbre e tossisco tutte le notti. Ma Dio mi darà la forza di sopportare la
prova del noviziato. D'ora innanzi però non potremo vederci che assai di raro e non potrò scriverti perché non vedrò tanto spesso Filomena, quella buona sorella laica che si è incaricata di trasmetterti le mie lettere.
Non vedrò più nemmeno il mio povero babbo!... Sia fatta la volontà del Signore!
Marianna, raccomandami a Dio perché io subisca codesta prova con rassegnazione

Da “ Storia di una capinera” di Giovanni Verga

                         La storia dei conventi, da non confondere coi monasteri, è una pagina triste, oscura,  della chiesa.
I conventi di clausura custodiscono  giovane donne sepolte vive, dove l’alterazione della ragione   ha fin troppo facile gioco, sconfinando spesso nella follia.
E’ una perversa anomalia  che obbliga la natura a percorrere  sentieri insoliti ed inauditi,  che  paradossalmente riesce a coniugare, tristemente, la sessuofobia  della chiesa cristiana  e la protervia di una classe nobiliare,  disposta fino all’inverosimile a difendere per “intero” l’accumulazione della ricchezza.  
A differenza dei fratelli minori, che avevano la possibilità di intraprendere oltre alla scelta monastica( e mai di clausura), anche quella militare, per le disgraziate  figlie femmine  esisteva la sola violenta sistemazione in convento. La dote  con cui si accompagnava la sventurata erano le briciole del patrimonio di famiglia.  Ma, come se non bastasse,  le  sciagurate,  quasi sempre erano accompagnate  da sventurate figlie di contadini al servizio della famiglia nobiliare, destinate a  divenire  nel gergo  isolano “li criate”,  ovvero, la condizione più infima ed infelice  della scala sociale.  Le povere sventurate, segregate, senza vocazione,  subiscono la violenza  dell’imperante principio del maggiorascato, a cui la chiese porge, senza indugio, il  suo fianco.
 Ora, accade che, a partire dai primi del cinquecento, con l’introduzione del più pratico ed efficiente zucchero, il  saccarosio sostituisce sempre più il miele, prende  così avvio una svolta epocale  nella pasticceria. Le suore, aiutate dalle converse, creano dolci  che non si limitano a soddisfare  il palato, ma vanno più in là,  tentano di sedurre  la vista e con le forme e l’estetica, pure la….. fantasia! Le monache pasticciere  prestano molta attenzione agli ingredienti, mettono una cura meticolosa nella decorazione, curano all’inverosimile i particolari.
Gli esempi abbondano nelle tante elaborazioni tradizionali a cui sono legati gli innumerevoli dolci tipici  che  disseminano i nostri paesi,  la cui ricchezza e variabilità, oggi, possiamo stimarla scorrendo le vetrine delle nostre pasticcerie.
 Ma vien da chiederci: perché queste figlie sventurate, nel chiuso delle cucine, al riparo di sguardi indiscreti, decisero di elaborare dolcezze  strepitose,  una esaltazione  esasperata della dolcezza  senza pari, sfruttando, senza alcun ritegno, le allusive  forme anatomiche intimr , come metafore?
Cosa sarebbe il “cannolo”, le “ minne di vergini”, le “ cunchiteddi”.
 Ma le suore  vanno oltre,  con la frutta di “martorana “, intendono piegare la natura,  la stessa che ogni giorno, ogni notte si ribella dentro il loro corpo ,la loro carne. Gli elementi  naturali semplici , glucosio e fruttosio sono artificiosamente estratti  concentrati ,stabilizzati ,sbiancati  , ma  il processo muta la sua natura ,diviene uno strano disaccaride, il saccarosio. Puro “zucchero”senza i limiti e protezioni della natura può essere lavorato , manipolato decorato….un vero e proprio cavallo di Troia!  
Una sicura  trappola per i palati dei loro  parenti nobiliari, una dolcezza così intrigante e  accattivante che non avrebbe risparmiato alcuno, in particolare i tanti prelati che venivano a far visita e quanti altri che con calcolo  freddo e meschino avevano deciso della loro sorte.  Le suore non avevano alcun amore per questo mondo ,  anzi lo odiavano,  detestavano i loro congiunti  a cui periodicamente inviavano  i dolci,  con la speranza che, presi per la “gola”, finissero tutti nel sesto girone dell’inferno dantesco in compagnia di Ciacco. Qui le pene erano tanto severe quanto intolleranti,  la pioggia di fango li avrebbe coperto, e il fetore nauseabondo annullato l’olfatto e il gusto .
 Ma oggi la vendetta delle sventurate sorelle,  alla luce  delle odierne conoscenze, lascia un segno più profondo , minando dal di “dentro” la salute dei golosi
Questo candido estratto ,isolato dal suo contesto naturale ,altera molte delle funzioni metaboliche , provoca danni irreparabili al nostro organismo e come se non bastasse, si comporto come una droga, inducendo dipendenza
Le disgraziate sorelle di clausura forse non avevano la piena consapevolezza  dei danni arrecati alla salute , volevano solo spedire  all’inferno tutti coloro che avevano contribuito a rendere infelice la loro esistenza su questa terra.