martedì 21 agosto 2018

Dove abbiamo sbagliato ?

  
  Peppino Bivona 

"Il pomodoro “seccagno” resta l’emblema della sobrietà, del risparmio, dell’orgoglio, della sovranità alimentare contadina. Una filosofia di coltivazione in armonia con la natura."

                Caro Nino, ho letto gli appunti che mi hai mandato in occasione della Sagra del pomodoro “seccagno” svoltasi a Montallegro, Borgo GeniusLoci De.Co.
            Ti potrà sembrare curioso ma mi sono ricordato che molti e molti anni fa il pomodoro, da noi, veniva coltivato inderogabilmente in asciutto. Le uniche aree irrigue erano localizzate nelle zone periferiche del paese, gli orti sub-urbani, in particolare nella zona di sud – est, captando le acque di falda superficiali che venivano tirate su dalle “senie” e riversate nelle “ gebbie”. Se vuoi, puoi leggerla come una versione peculiare delle oasi desertiche del vicino Nord –Africa. La scarsità di acqua aveva plasmato e modellato nei secoli il nostro paesaggio agricolo, le scelte colturali, l’economia, insomma il nostro stile di vita. Finché, un giorno, alla fine degli anni cinquanta avvenne, come per incanto, il “miracolo”, le nostre campagne divennero tutte “orti”! Le opere irrigue distribuirono l’acqua dell’invaso artificiale “Lago Arancio” in buona parte del nostro territorio. Una prima manifestazione di questa nuova era accadde a Bertolino, nel terreno della buonanima di tuo zio Filippo Sutera, il quale, su indicazione dell’allora “Centro Studi” di Danilo Dolci, decise di piantare qualche centinaia di piantine di pomodoro, credo, San Marzano. I risultati furono strepitosi, ai lati dei profondi “vattali” si stendevano le piante di pomodoro stracarichi di frutti splendenti in tutta la loro abbondanza. Da quel giorno il nostro rapporto con il pomodoro cambiò radicalmente. Dedicammo sempre meno fatica, ma di contro investimmo più energia. La coltura divenne sempre più “dipendente” dai nostri interventi di natura irrigua, nutritiva(concimazione) ed in particolar modo della difesa sanitaria. Il “nuovo” pomodoro aveva sempre più bisogno di aiuto ovvero di energia esterna, “sussidiaria” e stranamente quanto più ne fornivamo tanto più la coltura ne richiedeva! Avevamo innescato un feedback positivo, una retroazione sempre più energivora, di cui oggi non riusciamo a venirne fuori! Per comprendere la chiave di lettura di cosa sia successo al pomodoro, bisogna capire il ruolo svolto dal DNA, il quale non solo svolge la sua principale funzione nella trasmissione dei caratteri ereditari, ma è anche un supporto di memorizzazione plastico. Non è solo la mutazione genetica a causare il “cambiamento”, c’è anche l’adattamento, ovvero, possiamo nel nostro agroecosistema, addormentare o risvegliare i geni che si svelano attraverso il fenotipo come “espressione genica”. Oggi sappiamo che la pianta alla fine del suo ciclo produce dei semi dopo aver vissuto la sua interazione con l’ambiente circostante, assimilandone nel suo DNA alcuni aspetti del suo vissuto. Così accade che il nostro pomodoro “intensivamente” coltivato non ha alcun bisogno di “attivare” le sue capacità di approfondimento delle radici per la ricerca d’acqua o di sostanze nutritive, né tanto meno mobilitare i geni deputati alla difesa delle avversità sia biotiche che abiotiche. 
Insomma abbiamo intrapreso un percorso opposto a quello a cui da decenni avevano dato significato e senso i nostri nonni. Perciò il pomodoro “seccagno” resta l’emblema della sobrietà, del risparmio, dell’orgoglio, della sovranità alimentare contadina delle nostre aree interne. Una filosofia di coltivazione in armonia con la natura. Una cultura sempre attenta a scrutare i segreti delle piante e trasferirle nel campo coltivato.

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