sabato 29 giugno 2013

Le radici recise


( abbiamo perso i contatti: siamo in pericolo!)
Giuseppe Bivona


….Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che
fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria3 cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che
egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia;
aprì le mani nere in quella chiarità d'argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E
che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna...
C'era la Luna! la Luna!
’Ciaula scopre la luna” di Luigi Pirandello

Il bambino seduto nel sedile posteriore  della macchina, vedeva scorrere , quasi fuggissero veloc,i le case basse della periferia della grande città . Ora le case non c’erano più o almeno divenivano sempre più rari , sostituite da lunghe file di alberi che come le case scappavano via chissà sa dove.
Ad un tratto la macchina rallentò una lunga colonna di macchine li  costrinse a muoversi a passo d’uomo,facendolo  quasi annoiare . Ma ad un tratto vide una cosa stranissima, si alzò in piedi  sul sedile e non credendo ai suoi occhi  cercò di pulire  più che potesse il vetro del finestrino. No, non poteva essere vero  e con voce meravigliata ed incredulo, quasi gridando esclamò. : “ Papà , papà  guarda qui fuori sulla tua sinistra, che cosa strana, hanno appeso  tante, tantissime pere agli alberi!”
Viviamo in un mondo intessuto come  di fili che magicamente legano  ogni cosa e dove tutto vive legato con cosa è stato  e con cosa è per essere. Ciascuno di noi è legato  a tutto e a tutti.
E’ un mondo di relazione che ci suggerisce sensazioni talvolta sottili e sfuggenti, come il senso di familiarità con qualcosa  che si sa di non avere mai conosciuto , che si mostra inconsueto e pur tuttavia non estraneo.
E’vero  ognuno di noi sente in modo diverso , qualcuno sente ogni cosa che pulsa ,che vive  , gli animali ,fino alle piante , altri addirittura arrivano a sentire una impronta emotiva anche nelle cose inanimate.

Gli animali sentono il pericolo prima che arrivi , ci sembra naturale, ormai lo ripetiamo senza stupore. Ma gli animali vivono a diretto contatto con il mondo ed è un contatto non mediato.
I ruminanti abituati al pascolo sanno quali erbe  debbono mangiare per non  sentirsi male e addirittura avvelenarsi . Diciamo che è un sapere innato , istintivo, pur non sapendo bene casa significhi.
Invece gli animali  che nascono e vivono  al chiuso di una stalla  e sono alimentati  col solo mangime, se per caso escono  al pascolo sono in serio pericolo perché non sanno riconoscere le erbe  da non mangiare.
Hanno perso il contatto. Sono in pericolo!
Noi   tutti , non come individui, ma collettivamente, come popolo, cultura ,siamo passati  in breve tempo da una rete  fitta di connessioni  con il mondo e i diversi piani della realtà ,  di legami con la terra e con il cielo, con chi ci ha preceduto e con chi è per venire o sta per arrivare.  Alla fine ,per approdare  ad uno stadio di solitudine, senza contesti, sedati  nella distrazione, un po’ oscillanti tra noia , stordimento ed eccitazione, sotto un cielo che si è solidificato  come una calotta di cemento  e, come una morsa si è chiusa sopra di noi che non sappiamo ne possiamo più vedere le stelle.
Abbiamo perso contatto. Siamo in pericolo!

Quando il deserto cresce dentro di noi  non rimaniamo che gusci vuoti , magari lucidi,performanti, come oggi si usa dire.
Ma a quel tessuto di fili che unisce tutto a tutti , si sostituiscono  informazioni innumerevoli e ridondanti , che affaticandolo ci riempiono il cuore, come paglia per l’imbalsamatore

domenica 16 giugno 2013

Le radici profonde dell’identità


Giuseppe Bivona

Nella cultura popolare contadina i prodotti della terra ,in particolare l’olio,il vino,il formaggio e il pane, erano considerati  “sacri” in quanto espressioni autentici della terra,  portavano inconfondibilmente impressa la traccia del “luogo”  ovvero la qualità essenziale.

Cosi, ad esempio, mangiare i prodotti della terra che si attraversava o si visitava era un rito  quasi sacrale,  perché significava  arricchirsi  dell’energia  del luogo.
La scena ci rimanda alla figura del viandante , curioso ed insaziabile “ricercatore” colui che in ogni terra/luogo incontra ciò che è  sempre uguale e sempre diverso: la natura autentica della vita e  l’emozioni.
I prodotti del luogo si guadagnano nel tempo le loro identità attraverso  un lento processo  di “deposito” ed “ accumulazione” a cui partecipano intere generazioni delle popolazioni locali che costantemente  e diligentemente  hanno saputo  felicemente coniugare il  prodotto  con il processo, in una fusione quasi inscindibile che qualsiasi scellerato tentativo  di decolonizzarlo vanificherebbe i peculiari aspetti qualitativi.
Ma quali segreti meccanismi  legano cosi  strettamente il prodotto alla terra/luogo?
Quali  complessi e complicati processi  biochimici  si intrecciano in un sincronismo  cosi perfetto   da rendere unici , inimitabili , intrasferibili  certi prodotti  alimentari?
Se mi consentite , mi avvarrò di alcuni esempi  tratti  dalla realtà  di un angolo della nostra Sicilia, nella Valle del Belice : il pane nero di Castelvetrano, le olive verdi della Nocellara del Belice, la “vastedda” del Belice.
Il pane nero di Castelvetrano è stato l’orgoglio e vanto delle casalinghe di questo centro agricolo localizzato a pochi passi dalla greca Selinus. Qui per generazioni le “comare” all’interno dei cortili  si scambiavano  il “crescente”  ovvero il lievito madre  da cui prendeva avvio il complesso processo di acidificazione-levitazione. Le farine provenivano dalla molitura  di grani tradizionali , Capeiti, Biancolillo, Timilia  macinate con il mulino di pietra , lentamente  , per non surriscaldare e mantenere integri i “granuli “ di amido. La legna era quasi sempre la fascina proveniente dalla pota delle olive. I tempi  lunghi dell’impasto e una oculata  gestione del forno  ci regalano  questo eccezionale prodotto di questa terra.
L’olivo , varietà Nocellara del Belice, cresce  rigoglioso  in un triangolo  costituito dai  comuni di Partanna, Castelvetrano e Campobello di Mazara.  Qui il sottosuolo è prevalentemente costituito da calcarenite  che assicura alle drupe   una consistenza  tale da sopportare il processo  di conservazione in salamoia ,anche “schiacciata” per più di un anno senza mai perdere la croccantezza della polpa . Ma il suo inconfondibile flavuer  assicurato  da ceppi di batteri  indigeni  che attivandosi  avviano il processo di “ addolcimento “ al naturale   regalandoci  queste prelibate olive da mensa.
L’ allevamento della pecora nella Valle del Belice è abbastanza diffuso  e prevale quasi esclusivamente la razza locale. Ebbene in questi luoghi nei mesi più caldi dell’anno si raggiungono punte di 40-45 C con il frequente rischio  che i formaggi si guastano , perciò i pastori  li  rilavorano  in acqua calda e come per miracolo il formaggio inizia a “filare” e fanno  assumere successivamente la forma  rotondeggiante , come la pagnotta del pane.
Questi pochi esempi  che vi ho brevemente descritto,  servono a comprendere come  nel lungo tempo ,in questi  luoghi, si sono  differenziati e selezionati  ceppi di batteri  che in stretta coevoluzione con le tipiche produzioni locali  hanno permesso  si definire un “unicum”  a cui  restano indissolubilmente legati il luogo, il prodotto e il processo . Le popolazioni locali hanno nel tempo  adattato , modificato  fino all’ottimizzazione i diversi componenti , cercando ,più che stravolgere la natura , di assecondarla, piegarla , giusto quanto fosse necessario , anzi rispettandola  e spesso assicurandosi una sinergia con essa.

Molte elaborazioni di prodotti tradizionali  sono assecondate da un discreto , riservato , rituale , quasi che le popolazioni agricole volessero conciliare il difficile rapporto tra natura e cultura , sapevano che i lenti e complessi processi che coinvolgevano  le “ fermentazioni” subivano  l’influenza di molti fattori per cui era buona norma un rituale ben augurale.  Valga per tutti il segno della croce  delle massaie appena terminato l’impasto della farina  e l’avvio della lievitazione 

domenica 9 giugno 2013

La vita contadina nel cerchio del tempo


                
Giuseppe Bivona  

  Sorge il mattino in compagnìa dell’alba
innanzi al sol che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intepidìr la notte;
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol giojelli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.

      Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.

      A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.

      Tu tra le veglie, e le canore scene,
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte; e stanco alfine
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestìo
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno
dall’uno all’altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.

      Da “Il giorno” di Parini



                                   
Per gli anziani contadini la più piccola unità di misura  del tempo  era …il battito del cuore che in quiete batte una volta al secondo  
Cosi come la misura dello spazio  era il passo del viandante  oppure della capienza ,erano le mani giunte  a conchiglia . infine lo sguardo , il solo metro che misurava il movimento del cielo  , le forme delle realtà e le dimensioni delle cose .  La “ cosa” che per essere misurata ha bisogno di una macchina ,non s’addice all’esperienza contadina  e ,fuori dall’esperienza  il mondo si dirada nelle estrazioni
 Il giorno inizia con l’alba quando il sole emerge dall’orizzonte  e termina con il tramonto quando il sole scende  dietro l’orizzonte , L’alba e il tramonto durano pochi minuti , quanto ci vuole perché il sole faccia un passo grande quanto il suo diametro .  Ma l’alba per in contadino è più intrigante , ha un suo sviluppo temporale   un divenire  partoriente tanto che lne conta…. “ sette” . Si le sette  albe!.
In questa complessa nascita del giorno ,il contadino si serve della complicità del gallo. Il pennuto percepisce la prima alba ,ovvero quando la parte più nera e profonda della notte …prelude al nuovo giorno. Non e più notte ma ancora non può definirsi giorno ,il gallo sporge la testa dall’uscio del pollaio ed osserva che le stelle non hanno più la stessa luminosità , il loro splendore scema lentamente, perciò inizia il suo primo canto. Il canto del gallo scandisce  attraverso l’intensità e la frequenza il divenire del giorno, le cose  cominciano ad assumere le prime forme ,i lineamenti divengono più precisi e infine mostrano il loro colore
 Accade con il crepuscolo  quando no è più giorno ,ma non è ancora notte . E un tempo mediano  dove i due mondi si incontrano e le ombre diventano vive  come le cose che le proiettano…anche dentro di noi : è il tempo per le riflessioni  il più adatto per entrare in contatto con i due mondi .
L’ultima luce del giorno ,al crepuscolo  è un piccolo raggio  bluastro ,  emesso come un lampo .
Si dice che il profumo dei fiori in questo momento è più intenso
La metafora del giorno si estende  per tutto quanto esiste  cosi come non c’è alcun dubbio che dopo la notte spunterà l’aurora  ,dopo l’inverno  il risveglio primaverile e dopo il sonno profondo il risveglio  .
Ma la nostra aurora, quel tempo che non è più notte ,ma ancora non è giorno,  non potrebbe coincidere  con il tempo che dal concepimento accompagna la nascita?
Questo nostro mondo moderno  sorretto dal tempo lineare  siamo perennemente tesi come una corda tra la nascita  e la morte  . Una freccia  scoccata verso uno bersaglio, tante freccie veloci quasi ad esorcizzare la morte.
Nel mondo contadino  domina l’armonia del tempo circolare  si accetta la morte  ma di fatto la “ morte” non esiste  e come per ciò che non esiste , forse no c’è  motivo  di averne paura
 Il cerchio del tempo  è fatto di stagioni . per tutto c’è un tempo : c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo : c’è un tempo per seminare e uno per raccogliere , uno per abbracciare e uno per astenersi dagli abbracci , cosi è scritto nel libro  dell’Ecclesiaste
Il periodo di luce , dal chiarore  dell’aurora  fino all’ultima luce  del crepuscolo  è fatto per la veglia , quello del giorno per le occupazioni , quello  della notte  per la quiete ,il sonno .
Fuori dal cerchio , tutto diventa uguale  e senza il senso delle stagioni  si sveglia di notte e si dorme di giorno .
Fuori dal cerchio la morte esiste e fa paura . perciò  cerchiamo affannosamente di  rimuoverla ed allontanarla con l’inganno , fingendoci giovani quando non l’ho si è più , cancellando i degni del tempo come una vergogna , curando il corpo come un feticcio  per mantenerlo lucido e performante : un guscio refrattario al tempo ma anche alla nostra anima


La nostra stupida visione del tempo lineare , alla quale siamo addomesticati, ignora la verità profonda delle “stagioni” e il piacere del ritorno