sabato 31 marzo 2012

L’ingratitudine

                 

 di Giuseppe Bivona

I due contadini erano ormai allo stremo delle forze. Per tutta la mattina   non si erano presi un attimo di pausa, zappavano con tanta lena  incuranti  dell’immane sforzo ,nella speranza di riuscire a terminare il lavoro entro la giornata .
Ma ora era arrivato pure il caldo , afoso ,quasi asfissiante  e più il sole si alzava nel cielo, completamente terso,  più il sudore inondava la fronte dei due poveretti.
Non avevano voglia neanche di parlare, chini sulla zappa , non  avevano che un solo traguardo : terminare il filare da zappare.
A metà circa della giornata uno dei due  propose all’altro di sospendere il lavoro e prendere un boccone, almeno  servirà a riprendere fiato !. Tutto intorno non c’era un angolo in  cui ripararsi dai raggi infuocati del sole , una vasta landa desolata, erano in aperta campagna, non una casa ,non un albero!. Eppure ,un poco più sotto, al limite dell’appezzamento, si intravedeva un arbusto ,  forse un piccolo albero di “vruca( tamerici) , striminzito , assetato ,quasi spoglio di gran parte della fronda.
Per i due contadini era però una vera manna! Consumarono il pasto e si distesero per rinfrancare la schiena  spezzata per il duro lavoro , ma solo per pochi  minuti . Poi ,   uno dei due ,con gli occhi rivolti alla  scarna chioma dell’albero,  disse” Ma tu guarda un po’, che razza di albero inutile ha fatto la natura, non produce alcun tipo di frutto!”
E l’altro  di rinforzo “ Consuma acqua e sostanze dal terreno inutilmente, sottraendola magari a culture più utili , da cui  gli uomini possano trarne qualche beneficio. Ma quest’albero a cosa “serve”?. “ Forse a permettere a qualche uccello di nidificare” disse l’altro.
 “ Il padreterno prima di mettere al mondo certe creatura dovrebbe rifletterci un po’”
Il povero albero , suo malgrado ,era costretto a sorbirsi le disquisizioni demenziali di  questi due poveracci  grattaterra, che grazie alla frescura assicurata dalla sua ombra ,   si permettevano di giudicare “inutile”  la sua esistenza. “ Sono davvero due esseri ingrati” disse tra se e se l’albero.

L’ingratitudine  per le piante e in generale per la natura non è solo una prerogativa dei due stupidi  villici. No, coinvolge la stragrande maggioranza della popolazione  a prescindere dal livello d’istruzione  e dell’attività professionale svolta. Una ignoranza , profonda , verticale e totalizzante ,che non risparmia quasi nessuno, una subcultura che tende a trascurare e a sottovalutare il ruolo della biodiversità e dei complessi processi eco sistemici .
Cosi accade che ogni volta che i “servizi” ambientali forniti “gratuitamente “ dalla natura vacillano ,optiamo subito senza esitare  per la soluzione o il rimedio tecnologico .
 Quando ci troviamo in situazioni  in cui i “servizi” vengono perduti , non  ci sforziamo di analizzate le cause e possibilmente sostituirli con surrogati o imitazioni naturali, ma ci affrettiamo  con soluzioni ingegneristiche, ovvero più pratiche, più comode e di sicuro effetto immediato.
La nostra vita contemporanea è ricca di esempi : dighe, bacini idrici,impianti per il trattamento dei rifiuti , condizionatori d’aria, sistemi di filtraggio dell’acqua, pesticidi e fertilizzanti ,ecc.
Spesso sostituiamo  dei sistemi naturali che operano gratis  ,con impianti meccanici alimentati dai combustibili  fossili   cosi da innalzare la spesa  senza  riuscire a fornire l’intera gamma di servizi.
Herbert Bormann  dell’università  di Yale  elencò tutte le prestazioni o servizi che andavano perduti  in seguito al taglio di una forasta:
“Dobbiamo rimpiazzare i prodotti del legno, costruire opere che frenino l’erosione e contrastino le inondazioni , ampliare i bacini idrici, migliorarla tecnologia per il controllo dell’inquinamento dell’aria e modernizzare  gli impianti  di depurazione  dell’acqua , aumentare il condizionamento dell’aria  e provvedere a nuove strutture ricreative. Tutto ciò ,oltre a gravare sul carico fiscale, rappresenta un salasso per la scorta di riserve naturali del Pianeta e un aumento di stress per il sistema naturale rimasto.
Al momento attuale  la riduzione dei sistemi naturali ad alimentazione solare  e di contro l’espansione di quelli umani  ad alimentazione fossile  sono legate da un feedback positivo . All’incremento  del consumo di energia fossile  corrisponde un aumento  delle sollecitazioni sui sistemi naturali , questo a sua volta ,genera un ulteriore consumo di energia fossile , per sostituire le funzioni naturali perdute e mantenere così inalterata la qualità della vita” .

E se provassimo ad assegnare un valore  all’intera gamma di servizi che la natura ci offre.?
Come la pulizia dell’aria e alla depurazione dell’acqua
Pensate a quanto azoto  i batteri fissatori, che vivono nel suolo , forniscono agli agricoltori .
Oppure  al servizio svolto dagli insetti impollinatori dove per molte piante la produzione è indissolubilmente legata.
In tutto il mondo  ogni anno si spendono più di 20 miliardi di dollari per l’acquisto di pesticidi ,ma secondo le stime  i servizi di controllo  dei parassiti offerti dai predatori e dai parassiti dei parassiti che prosperano negli agro ecosistemi, valgono da cinque a dieci volte tanto .
Un altro servizio fornito dagli ecosistemi naturali consiste nel preservare  nuovi geni di incalcolabile valore, per i programmi futuri,di miglioramento genetico.
Si può ,e si deve ,esaminare la natura con i suoi ecosistemi ,non solo dal punto di vista dei beni che ci forniscono direttamente,ossia cibo ,fibra ecc,ma  anche in termini  di capacità  di  offrire servizi  ecologici .
Perciò ogni riduzione della biodiversità minaccia ed intacca  numerosi ed essenziali servizi per la vita del pianeta        

giovedì 29 marzo 2012

I limiti dello sviluppo

 Quaranta anni fa, quando lessi I limiti dello sviluppo, già pensavo che la crescita nell’uso delle risorse globali (la popolazione per l’uso delle risorse procapite) si sarebbe arrestata entro i successivi quaranta anni. L’analisi su modello del gruppo Meadows costituì una conferma forte di ciò che suggeriva il buon senso e che si basava sui principi che risalivano almeno a Malthus e ad altri economisti classici precedenti.    
Ora sono passati proprio quarant’anni e la crescita economica è ancora l'obiettivo numero uno della politica di quasi tutte le nazioni – questo è innegabile. Gli economisti della crescita sostengono che i “neo-malthusiani” si sono semplicemente sbagliati, e che continueremo a crescere. Ma io penso che la crescita economica sia già finita nel senso che la crescita che continua è ora antieconomica – costa di più del suo valore marginale e ci rende sempre più poveri invece che più ricchi. Noi la chiamiamo ancora crescita economica, o semplicemente “sviluppo”, nella confusa convinzione che la crescita debba essere sempre economica. Io sono convinto che noi, specialmente nei Paesi ricchi, abbiamo raggiunto il limite della crescita economica ma non lo sappiamo, e disperatamente nascondiamo questo fatto con bilanci nazionali fallaci, perché lo sviluppo è il nostro idolo e smettere di adorarlo sarebbe una bestemmia.
Mi potreste chiedere se vorrei vivere al freddo e nell’oscurità in una caverna piuttosto che accettare tutti i benefici storici dello sviluppo. Naturalmente no. A mio parere il cumulo dei benefici complessivi dello sviluppo sono più grandi dei costi totali, anche se alcuni storici dell’economia non sono completamente d’accordo. In ogni caso non possiamo modificare il passato e dobbiamo essere grati a coloro che hanno sostenuto i costi per creare la ricchezza di cui oggi godiamo. Ma, come qualunque economista dovrebbe sapere, sono i costi e i benefici marginali (non quelli totali) rilevanti per determinare quando la crescita diventa antieconomica. I benefici marginali diminuiscono perché noi siamo portati a soddisfare prima i nostri bisogni più urgenti; i costi marginali aumentano perché noi usiamo prima le risorse più accessibili e sacrifichiamo gli ecosistemi meno vitali man mano che la crescita va avanti (conversione della natura in manufatti artificiali). I benefici marginali della terza automobile valgono quanto i costi marginali degli sconvolgimenti climatici e l’aumento del livello del mare? Il calo dei benefici marginali bilancerà  l'aumento dei costi marginali finché i benefici netti saranno positivi - nei fatti questo sarà vero sino a quando i benefici netti cumulativi di crescita del passato non avranno raggiunto il massimo! Nessuno è contrario a essere più ricco, almeno fino a un livello sufficiente di ricchezza. Che essere ricchi sia meglio che essere poveri è vero per definizione. Che la crescita ci faccia sempre più ricchi è però un errore elementare anche nella logica di base dell’economia standard.

Come suggerito sopra non vogliamo veramente sapere quando la crescita diventa antieconomica, perché allora dovremmo smettere di crescere in quel momento - ma non sappiamo come gestire uno stato stazionario dell'economia, e siamo religiosamente fedeli alla ideologia del "no limits". Vogliamo credere che la crescita possa "curare la povertà" senza condivisione e senza limiti alle dimensioni della «nicchia umana» sulla Terra. Per mantenere questa illusione confondiamo due distinti significati del termine "crescita economica". A volte ci si riferisce alla crescita di quella che chiamiamo economia (il sottosistema fisico del nostro mondo costituito dalle popolazioni con la loro ricchezza, e i flussi di produzione e consumo). Quando l'economia diventa fisicamente più grande noi chiamiamo questo "crescita economica". Ma il termine ha anche un secondo significato molto diverso - se la crescita di qualcosa fa sì che i benefici aumentino più rapidamente dei costi anche questa noi la chiamiamo "crescita economica" poiché la crescita è economica nel senso che produce un beneficio netto o un profitto. Orbene, la "crescita economica" nel primo senso comporta "crescita economica" nel secondo senso? No, assolutamente no. L'idea che una economia più grande debba sempre farci più ricchi è pura illusione.
Che gli economisti debbano contribuire a questa confusione è sconcertante perché tutto nella microeconomia è dedicato a trovare la scala ottimale per una determinata attività - il punto oltre il quale i costi marginali superano i benefici marginali e un'ulteriore crescita sarebbe antieconomica. La formula Ricavo marginale = Costo marginale è anche chiamata "la regola del quando fermarsi" nella crescita di un'impresa. Come mai questa semplice regola logica di ottimizzazione scompare in macroeconomia? Perché la crescita in macro-economia non è soggetta ad una analoga "regola del quando smettere"?
Ci rendiamo conto che tutte le attività microeconomiche sono parti del sistema più grande macroeconomico, e la loro crescita provoca lo spostamento e il sacrificio di altre parti del sistema. Ma la macro-economia è pensata per essere un tutt'uno e quando si espande, presumibilmente nel vuoto, non dovrebbe muovere nulla, e quindi non causare alcun costo. Ma questo è falso, naturalmente. Anche la macroeconomia è una parte, un sottosistema della biosfera, una parte dell’economia più grande degli ecosistemi naturali. La crescita della macro-economia impone anche un costo crescente di opportunità legato alla riduzione del capitale naturale, che ad un certo punto bloccherà una ulteriore crescita.
Ma alcuni dicono che se la nostra misura empirica della crescita è il PIL, che si basa sull'acquisto e la vendita volontaria di beni e servizi in regime di libero mercato, allora questo garantisce che la crescita sia sempre costituita da beni e non "mali." Questo perché la gente volontariamente acquisterebbe solo beni. Se la gente, infatti, si comprasse un «male» allora dovremmo ridefinirlo come un bene! Ma questa strada non ci porta lontano. Il libero mercato non dà un prezzo ai "mali". Ciò nonostante i mali sono inevitabilmente prodotti in aggiunta ai beni. Siccome ai mali non viene attribuito un prezzo, non si possono sottrarre dal PIL - che invece registra la produzione aggiuntiva di anti-mali (che hanno un prezzo), e li classifica come beni. Per esempio, non sottraiamo al PIL il costo dell'inquinamento come un male, ma aggiungiamo al PIL il costo degli interventi anti-inquinamento come un bene. Questa è contabilità asimmetrica. Inoltre consideriamo il consumo del capitale naturale (l'esaurimento di miniere, pozzi, falde acquifere, foreste, riserve di pesca, suolo fertile, ecc.) come se si trattasse di reddito piuttosto che perdita di capitale - un colossale errore contabile. Paradossalmente, di conseguenza, quali che siano le altre cose misurabili col PIL, esso è anche il miglior indice statistico che abbiamo dell'aggregato di inquinamento, esaurimento, congestione, e perdita di biodiversità. L'economista Kenneth Boulding ha suggerito, con un pizzico d'ironia, di ribattezzare il PIL chiamandolo CIL (Costo interno lordo). Quantomeno dovremmo mettere costi e benefici in una contabilità separata per il confronto. Gli economisti e gli psicologi stanno scoprendo che, al di là di una soglia di sufficienza, la correlazione positiva tra il PIL e la felicità autostimata scompare. Questo fatto non è sorprendente perché il PIL non è mai stato inteso come una misura della felicità o del benessere, ma solo di attività, alcune delle quali gioiose, alcune benefiche, alcune necessarie, alcune correttive, alcune banali, alcune dannose, ed alcune stupide.
In sintesi, la crescita economica nel significato 1 (scala) può diventare, e negli Stati Uniti è diventata, crescita antieconomica nel senso 2 (benefici netti). Ed è il significato 2 che conta di più. Penso che I limiti dello sviluppo nel senso 2 siano stati raggiunti negli ultimi quaranta anni, ma noi abbiamo volontariamente rimosso questo fatto, con grande danno della maggior parte di noi, ma a beneficio di una minoranza elitaria che continua a propagandare l'ideologia della crescita, perché ha trovato il modo di privatizzare i benefici della crescita e, nel mentre, socializzarne i sempre crescenti costi. La grande domanda che mi faccio è se sarà possibile negare, illudersi e oscurare questa realtà anche per i prossimi quarant'anni. Se continuiamo a negare il limite alla crescita economica quanto tempo ci resta prima di schiantarci in maniera catastrofica contro i limiti biofisici? Spero che nei prossimi 40 anni possiamo finalmente riconoscere e adattarci ai limiti di una economia più sostenibile. L'adattamento significa passare da uno stato di crescita ad un stato stazionario dell'economia, uno stato quasi certamente di scala più piccola di quella attuale. Con scala intendo dimensioni fisiche dell'economia compatibili con l'ecosistema, che possono probabilmente essere misurate al meglio in termini di throughput delle risorse. E, ironia della sorte, il miglior indice esistente che abbiamo di throughput è probabilmente il PIL reale!
Devo confessare la sorpresa che la «negazione» abbia  resistito per 40 anni. Penso che il risveglio richiederà qualcosa tipo pentimento e conversione, per dirla in termini religiosi. È ozioso "prevedere" se avremo la forza spirituale e la chiarezza razionale per una tale conversione. La previsione della direzione della storia si fonda su un determinismo che nega che scopo e impegno siano fattori causali indipendenti. Nessuno ottiene un premio per predire il suo comportamento. La previsione del comportamento degli altri è problematica, poiché gli altri sono simili a noi. Se siamo davvero deterministi allora non importa ciò che prevediamo - anche le nostre previsioni sono determinate. Essendo un non-determinista io spero, e lavoro, per giungere alla fine della «crescita-mania» entro i prossimi 40 anni. Questa è la mia personale scommessa sul futuro a medio termine. Quanta fiducia pongo nel vincere questa scommessa? Circa il 30%, forse. È del tutto plausibile infatti che esauriremo completamente  le risorse della terra e i sistemi di supporto vitale in tentativi rovinosamente costosi di crescere comunque, forse con la conquista militare delle risorse di altre nazioni e dei restanti beni comuni, forse con il tentativo di conquista della "frontiera alta" dello spazio. Molti pensano che solo perché abbiamo gestito un paio di acrobazie spaziali con equipaggio e con spese enormi la fantascienza della colonizzazione dello spazio siderale sia tecnicamente, economicamente, politicamente, ed eticamente praticabile. E queste sono le stesse persone che ci dicono che lo stato stazionario dell'economia sulla terra è un compito troppo difficile da realizzare.

                                                                                                                                  di Herman Daly 
da The Next Forty Years, Jorgen Randers  

lunedì 26 marzo 2012

Dalla lettura della mano all’analisi in laboratorio dei telomeri.



Giuseppe Bivona



Alice   fini di leggere  l’articolo e con tono sconsolato disse:  Aveva ragione Martin Heindegger“Solo un dio potrà salvarci!
Una volta ,nel tempo incantato per leggere il futuro, porgevamo la mano alla zingara, scrutando la “linea “ della vita , del cuore ,della salute….. ora il disincanto, bastano alcune gocce di sangue e in laboratorio vi svelano l’arcano!“ Piegò il giornale  e lo passò al Gufo “ Leggilo”, disse
Il quotidiano era “The Indipendent” in cui era apparsa la notizia che attraverso l’esame del sangue e con una spesa di circa 500 euro  sapremo  quanto ci resta da…vivere. Il test è stato messo a punto da Maria Blasco dello Spanisch National Cancer Resaerch Centre di Madrid denominato “Life Length” : Sappiamo ,-Dice la Blasco- “ che le persone nate con telomeri corti  rispetto al normale hanno una durata di vita più breve , molto probabilmente varrà il contrario”
Alice,si chiedeva   perplessa come  reagiranno le persone che risulteranno destinati  ad avere una vecchia breve se non addirittura inesistente , oggi,vivere  con la speranza di una vita lunga è fondamentale! E come si sarebbero comportate le società assicurative? E le nostre scelte di “coppia”   saranno condizionati?  Quale scenario si apre sul futuro di questo mondo cosi perfetto, razionale, calcolante? Il Gufo fini di leggere l’articolo e rispose:” Cara Alice siamo ormai a pieno titolo nell’età della “tecnica”   la nostra tragedia “umana” è duplice: non siamo preparati “culturalmente”  a questi cambiamenti e, quello ancora più grave, che non possediamo un pensiero “alternativo” capace di proporci soluzioni diverse  a quelle oggi imperanti”.
 Alice , però ,non era del tutto convinta , in fondo la scienza e le applicazioni della tecnica hanno consentito di elevare la qualità della vita.  La scienza indaga, la tecnica applica è pur vero che l’utilizzazione  talvolta viene indirizzata in “malo modo”destinata  a fini non certo nobili !”.
 “ Non sono d’accordo”- disse il Gufo- “ la tecnica , diversamente dalla tecnologia ,nella sua vera espressione deve essere intesa come la forma più  alta di razionalità  raggiunta dall’uomo ,è il fondamento del nostro modo di pensare  , è un pensiero pratico ,calcolante   a cui interessa il risultato ,l’efficienza  , non usa più parole superflue, discorsi retorici , anzi per farla breve si serve dei numeri ,imita il calcolatore col sistema binario ,zero ,uno .Risponde  pragmaticamente ad un imperativo: ottenere il massimo risultato con un minimo  dispendio di mezzi “ .
 Alice continuava  ad avere delle riserve questa ”tecnica” in fondo… le ricordava qualcosa….” Ma si ! disse ,”alcuni anni fa ho visto al teatro greco di Siracusa la tragedia di Eschilo “ Prometeo incatenato” , in breve Giove aveva dato incarico ad Epimeteo,, di assegnare ad ogni animale del creato la sua “virtù”  ovvero le qualità istintive, ma come dice lo stesso nome Epimeteo , colui che pensa dopo,improvvido, esaurì le virtù ,lasciandone privo l’uomo. Giove mosso da pietà per i poveri uomini, decise di ovviare inviando sulla terra il fratello Prometeo , colui che pensa in anticipo , previgente  e con la sua virtù ,insegnò  agli uomini la “tecnica”  tra cui quella del fuoco. Fu cosi che gli uomini da esseri impauriti ,muti ed indifesi, organizzarono la mente e conquistarono dignità e prestigio” .
“ Ma tu dimentichi -,disse il Gufo -che per questo Giove fece incatenare Prometeo su una montagna ed ogni giorno una aquila perforava il suo ventre beccandogli il fegato! E dovresti ricordare che quando il coro chiede a Prometeo, se oltre al fuoco ,agli uomini, abbia dato “cieche speranze”, Prometeo risponde di si, e  il coro ribatte  :“che ben ti stia ,questa punizione!”  .
 “ Ma per gli antichi la natura era lo scenario entro cui si svolgeva la vita ora madre affettuosa ,ora matrigna ,per dirla con Leopardi.”  disse Alice.
Be, non tutti gli antichi si rapportavano con la natura allo stesso modo : c’è  una sostanziale differenza  tra la visione greca ,in cui la natura è l’entità che nessun uomo, nessun dio fece , che  sempre  è stata e sempre sarà , perciò l’uomo è “giusto” se sa “aggiustarsi”  , rapportarsi  con armonia e rispetto alle leggi della natura, la quale è indiscutibilmente superiore alla “tecnica”. Per la cultura giudaica- cristiana invece la natura è stata creata da Dio  e posta al servizio dell’uomo , il quale è collocato al vertice del creato con facoltà  di dominarla e servirsene secondo le sue necessità ”
“Comunque sia- disse Alice -fino all’età moderna la natura non mi sembra fosse stata “violentata”  più di tanto ,a parte qualche disastro, i rapporti tra uomo e l’ambiente  sono vissuti in sostanziale rispetto  o quasi in armonia.  I nostri guai sono iniziati da qualche secolo a questa parte”
“ Non proprio” disse il Gufo il “seme”  fu buttato nel seicento , con Cartesio, Bacone, Galileo,i quali non intendevano più osservare la natura e carpirne qualche segreto , come fossero scolaretti impacciati !  Ma sottopongono la natura  ad una severa indagine  cognitiva, attraverso il cosi detto metodo scientifico, ovvero formulano delle ipotesi , sottopongono la natura a sperimento e se la risposta è positiva , questa costituirà una legge di natura! Altro che antitesi tra scienza e religione ! Qui si consuma un abbraccio mortale .Cosi la scienza viene chiamata a  dare un contributo alla “redenzione” ,  si hai capito bene ,alla “liberazione” dell’uomo dalla condanna  divina di dover guadagnare il pane col sudore della fronte e la donna di partorire con dolori! La scienza diventa cosi la vera ed unica essenza del’umanesimo, l’uomo” possessor et dominator  mundi” .
 Per Alice il discorso non era ancora del tutto chiaro :” Ma se la tecnica o la scienza utilizzano dei mezzi per raggiungere dei fini ,che poi sono il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo che “male  ti fo”?
E il Gufo:“Intanto lo sguardo dell’uomo per la natura non è più contemplativo,  trasognato , poetico, ha cambiato interesse , si muove per operare “cambiamenti”. Vedi, cara Alice se porti in un bosco un poeta e un falegname, il primo,   sentirà il canto degli uccelli, e il profumo della ginestra, il secondo è mosso dall’interesse per il legname per fabbricare porte e tavolini, cosi vale per il fiume, la terra”..
Alice , questa volta lo interruppe bruscamente: “ Ma il poeta  , il falegname e tanti altri dovranno alimentarsi o si nutriranno di poesia?”
“ Certo, disse il gufo, noi utilizziamo dei mezzi per raggiungere dei fini e fin qui nulla da eccepire ! Se non  fosse sorto ,uno strano caso ,sollevato dal filosofo Hegel il quale sostenne che un fenomeno di interesse quantitativo se viene ampliato, esteso, coinvolgendo tutto il contesto in cui opera,  si modifica…. Qualitativamente, e a supporto della sua idea portò questo esempio:  se io mi tolgo un capello ho sempre i capelli, se me ne tolgo dieci ho sempre i capelli  e cosi via…ma se me ne tolgo tutti sono …calvo .Al manifestarsi dell’incremento quantitativo alla fine se ne modifica la qualità.
Alice  arricciò il naso:” Scusami ma il tuo discorso  somiglia assai alla tecnica oratoria dei sofisti greci!”
“Proverò a farti un esempio più convincente”  - disse il Gufo- “Tutti  sappiamo che il denaro è nato  come un mezzo per raggiungere determinati fini ovvero soddisfare i bisogni , ebbene , se il denaro è la condizione universale per soddisfare i bisogni ,da mezzo diviene l’unico fine al cui raggiungimento gli uomini sono disposti a fare cose leciti ed illeciti! Insomma da mezzo si è trasmutato in fine, ovvero  lo scopo( per molti ) della ragion di vivere! Dimmi tu, se  al mondo d’oggi il nostro rapporto col denaro è più “vicino” alla definizione di un mezzo oppure ad uno “scopo”!!  
Alice restò perplessa, ma il Gufo continuò : “ Ora la condizione della “tecnica” ha subito la stessa metamorfosi , quante balle siamo costretti a sentire sulla ricerca scientifica , sugli obbiettivi, i nobili fini…No! La tecnica è un gigantesco ,mostruoso apparato autoreferenziale ,che si auto legittima quasi per definizione  ,gli uomini strumenti di questi apparati . Va avanti secondo un percorso perverso: se la tecnica crea disastri sarà sempre la tecnica a proporre le soluzione , non abbiamo via di scampo! “
Alice ora era sconfortata: “ Sai , tutti i nostri guai nascono dall’essere pregni di “culture” ottimiste. Dalla religione : peccato –espiazione-salvezza
Dalla tecnica    : ignoranza- conoscenza- progresso
Dalla politica   : povertà – lotta benessere.
Sembrano tutti mirare ,verso una ed univoca direzione come una freccia scoccata . E se valesse il contrario,ovvero che dall’”età dell’oro” scendiamo sempre “giù” ,come dire che i tempi migliori sono quelli …trascorsi?

La LURSS tra i blog stories della YOURuralNET




MENFI  -AG-


La Libera Università Rurale Saper&Sapor tra i blog stories della YOURuralNET, la community dei giovani agricoltori





               YOURuralNET è una web community promossa dal Gruppo di Lavoro Giovani della Rete Rurale Nazionale che offre strumenti  per la condivisione di conoscenza, esperienze e buone pratiche.
Basata sul concetto di 'intelligenza collettiva' e per molti aspetti simile ad un social network come quelli oggi più in voga
(facebook, twitter, ecc.), è uno di quegli strumenti che, affermatosi dapprima in ambito aziendale, viene oggi utilizzato come  strumento di partecipazione dei cittadini alle politiche pubbliche.
La libera università rurale dei saperi e dei sapori, nasce come fondazione che rompe verticalmente e profondamente con la cultura agroalimentare fino ad ora dominante.  
Attualmente prestigiose istituzioni scientifiche (Cambredige, Oxfor alla Cornell University) stanno attenzionando il cibo e perciò i prodotti alimentari ,provenienti dall’agricoltura con rinnovato interesse e sotto una nuova visione. I prossimi anni saranno decisivi per la nostra società, saranno anni di transizione verso modelli di sviluppo radicalmente diversi da quelli fino ad ora adottati . Dobbiamo confrontarci con i “cambiamenti” siano essi fisici ,sociali economici , perciò dobbiamo essere preparati quanto più possibile “culturalmente”, onde evitare di essere travolti dagli eventi O li gestiremo o li subiremo!
Il percorso che porta alla costituzione della LURSS -Libera Università Rurale Saper&Sapor- in Sicilia è stato avviato nel dicembre del 2009 con il primo incontro organizzato proprio a Menfi (AG)











giovedì 22 marzo 2012

La dispensa di “la gnà Maria”



(ovvero l’abbondanza frugale)
Giuseppe Bivona

Il fatto che il declino possa essere prospero è una nuova idea
entusiasmante che ormai si offre a tutti.
(Howard ed Elisabeth Odum)

Erano trascorsi quasi trent’anni che “lu zù Vito” mancava dal suo paese natale. Terminato il militare non volle più saperne di ritornare a coltivare la terra, alle fatiche disumane di tutti i giorni…, pure la   mattina della santa domenica non gli veniva risparmiata: c’era sempre qualcosa da fare, animali da  accudire, stalle da ripulire ecc. Così restò a Torino e trovò lavoro alla FIAT. Si sposò con una “piemontese”  ed ebbe due figlie. Ma la nuova famiglia mal sopportava il none “Vito”: sapeva troppo di meridionale, d’” incrostazione” contadina. Cosi la moglie e i suoceri decisero di “italianizzarlo” chiamandolo “Guido” suonava meglio, e poi era….più moderno, progressista, industriale. Durante la guerra combatté a fianco dei partigiani, si distinse nella difesa dei macchinari della fabbrica che i tedeschi volevano smantellarli per  trasferirli in Germania.
 L’unica  sorella, Maria, con cui intratteneva corrispondenza epistolare, viveva  in Sicilia. La poverina   aveva due crucci: era si vero che al nord le comuni pietre le chiamavano sassi, ma non riusciva a capacitarsi come potesse essere cambiato il nome ad un “cristiano ” nel “bel mezzo” della sua vita, dopo essere stato  sancito da un atto sacramentale, quale quello battesimale! Ma ancor più desiderava rivedere l’amato fratello, prima che diventasse molto vecchio e non più in grado di viaggiare.
Fu così che “lu zù Vitu” italianizzato e modernizzato “Guido” nel 1954 decise di trascorrere con la moglie le vacanze Natalizie in Sicilia e rivedere la sua  famiglia.
La notizia si diffuse in tutto il quartiere in meno di un baleno. Per una famiglia di antiche tradizioni antifasciste ed ora comunista, accogliere un congiunto partigiano che aveva imbracciato il fucile contro i nazi-fascisti, non era un evento di poco conto o che capitasse tutti i giorni!
La gnà Maria sistemò  la stanza da letto dei due sposi al piano superiore, lontano dalle stalle, un locale piccolo ma dignitoso, attiguo alla “dispensa”.
Stanchissimi del viaggio, gli sposi dormirono tutta la notte e buona parte del giorno successivo, mentre fuori una pioggerella fine, mista a neve, annunciava che da lì a qualche giorno sarebbe arrivato il Santo Natale.
Nel totale silenzio del primo pomeriggio la gnà Maria sentì rumori di sedie che si spostavano al piano superiore: segno che i due “piccioncini” si erano svegliati. Era giunta l’ora di preparare la cena  e sempre piano piano salì le scale per prendere le bontà che conservava nella sua dispensa chiusa a chiave e non accessibile a nessuno, segreta  anche ai più stretti  familiari!
 Le quantità e le qualità  che uscivano dalla dispensa erano insindacabilmente decise e portate a tavola dalla “vecchia”. Una  vera e propria ”ape regina” che non ammetteva eccezioni o trasgressioni.
Fu cosi che lu zù Vitu e sua moglie uscendo dalla stanza videro la porta aperta della dispensa e curiosi si affacciarono. In quel momento la gnà Maria stava sistemando i mazzi di origano appesi al muro: fu il primo impatto  che investi l’odorato dei due sposi.  La stanza non era grande ma ogni piccolo spazio era stato sapientemente sfruttato. A destra la grossa giara contenente “l’ogghiu d’aliva” l’olio di oliva, chiusa con un coperchio di legno e il tutto ricoperto da una vecchia tovaglia da tavola ormai in disuso. Poi una lunga fila di barattoli “ burnie” di terracotta smaltate  contenente  i pomodori secchi “cunzarti” con aglio, basilico, origano ed una spruzzata di aceto finale.  Seguivano  appresso  le acciughe salate,  pressate col peso di un grosso sasso bianco e lucido. I fichi secchi,  infilzati in un filo di spago a formare ghirlande, scendevano  dalle canne appesi alla trave principale: marroni e neri,  tutti spruzzati alla base di una polverina biancastra …ovvero lo zucchero eccedente che affiorava come candida neve. Curiosi i melograni che, per essere conservati a lungo, erano tagliati con il rametto che veniva immerso in una bottiglia piena d’acqua, in tal modo si mantenevano turgidi fino a Natale e Capodanno. Per la tradizione  sono buon augurali, tanti chicchi  quanti denari!
Distese su un tavolozza ruvida ed ampia, stavano pezzi di mostarda  di colore tendenzialmente scuro, ma che lasciavano intravedere  sulla superficie ruvida i pezzettini di mandorle tritate e i semi di finocchio.
La parete che guardava l’unica piccola finestra era piena di pomodorino,  ovvero, il pizzutello. Appeso con tutto il fusto e parte delle radici,  le bacche si mantenevano  sane e turgide fino ed oltre Natale.
 Sotto, sistemati a cavalcioni sopra una canna, riposavano i grappoli di uva Sultanina essiccata in compagnia della vecchia e gloriosa Inzolia….e  poi la farina, i legumi secchi, le trecce d’aglio e di cipolla, le mandorle, i cotogni,  le sorbe e le nespole d’inverno, le olive verdi, intere e scacciate, e quelle nere…
Lu zù Vito e la moglie  restarono entrambi esterrefatti  e quasi all’unisono esclamarono:
 -“ Ma voi siete ricchi! Non vi manca niente, avete tutto il necessario! Noi nella civilissima Torino, nei giorni  in cui occupavamo le fabbriche e non si lavorava, pativamo la fame!”
La gnà Maria si sentì un po’ sfottuta :- “ Noi ricchi? Ma non ditemi stupidaggini!”
    
E’ vero gnà Maria, non eravate “ricchi”, eravate poveri, ma con una sobria ebbrezza della vita!  Non avevate molti soldi, anzi, in verità  pochi, ma disponevate di tanti  beni, il giusto necessario e  tutti essenziali. Il superfluo, abbiamo iniziato a conoscerlo, ahimè, negli ultimi decenni del secolo scorso. Le merci circolavano in poche e anguste “putie” del necessario, lontano anni luce  dalle nuove cattedrali del consumismo, quelle in cui, per intenderci, pensiamo di andare a riempire il carrello della spesa “di ogni ben di Dio” senza riflettere sulle  banalità, inutilità e spesso spazzatura dei cibi che acquistiamo.
 E poi…. volete  metter con  quanta dignità e fierezza  esponevate la vostra condizione  di umiltà e frugalità?
Cosa è successo, oggi, alle naturali eredi della gnà Maria? Un nutrito stuolo vociante di donne che imprecano al carovita, a ragione è vero, ma che di contro ha perso di vista quella che un tempo si chiamava “economia domestica” e si insegnava anche nelle scuole. Il sapere fare, gestire la quotidianità con le, a volte o spesso scarse, risorse disponibili in casa, come erano preparate a fare le nostre equilibrate antenate.  Ma la società è cambiata - ci sentiamo dire - ed è vero, ci sono le donne in carriera, gli uomini casalinghi, le massaie abituate ai moderni agi della cucina pronta e via dicendo, ma….. cosa c’è di male a fermarsi un po’ a ragionare sulle cose utili e necessarie e le inutili o superflue, che certo fanno aumentare il PIL, ma non fanno di certo bene né alla nostra tasca né alla nostra salute. E se ancora proviamo a ragionare su questa strada appena imbroccata, ci interessa tanto che aumenti il PIL, parola magica che identifica il benessere, se più che proporzionalmente aumentano le spese per la sanità pubblica a causa di uno stile alimentare e di vita dissennato?
 Strano! Ma dopo mezzo secolo dobbiamo  rivedere i valori nei quali fino ad ora abbiamo creduto.
La frugalità materiale, la sobrietà intesa come mancanza del superfluo, è stata per secoli ritenuta un  valore positivo. Ci ha consentito di sopravvivere. E’ stata l’economia globalizzata di questo “nuovo” mondo a creare  una dissonanza. Del valore “ povertà”  oggi non ne abbiamo alcuna traccia. Intanto più il PIL aumenta, più la natura viene distrutta, più gli uomini sono alienati, più i sistemi di solidarietà vengono smantellati, più le tecniche, le pratiche semplici ma efficaci, assieme ai saperi ancestrali vengono gettati nel dimenticatoio.
La cosiddetta “povertà” di una volta era caratterizzata dall’assenza del superfluo, la miseria di oggi è l’impossibilità di procurare il necessario.

lunedì 19 marzo 2012

Il buon pane quotidiano



di Giuseppe Bivona

La Genesi racconta che il Dio irato, cacciò  Adamo dal paradiso  condannandolo senza possibilità d’appello:  ”col sudor di tua fronte mangerai il pane…” ovvero d’ora in poi gli uomini saranno costretti a  guadagnarsi il pane con il sudore della fronte. Eppure  la storia  , in particolare quella più recente,  può essere letta come un caparbio tentativo di espirare questo castigo divino attraverso furbesche scorciatoie o ingegnosi espedienti vari. Con quale risultato?

Atterrato sulla pista polverosa di Marzuq  l’eroico aviatore Italo Balbo  dopo aver attraversato  buona parte del deserto libico domandò, con tono  quasi provocatorio, ai beduini  presenti, quanto tempo  impiegavano  con i cammelli, partendo da Bengasi . “Più o meno 28 giorni” risposero tutti d’accordo  i più esperti cammellieri .” Ebbene ,io , ho solo impiegato poco più di sei ore!” disse compiaciuto il governatore della Libia. “Di grazia”  chiesero,ancora di stucco, i carovanieri “ e degli altri 27 giorni cosa ne fate?!”
Se vi capita di visitare il mulino  restaurato e reso funzionale da Umberto Russo a Longi sui Nebrodi, non potete sottrarvi all’emozione che vi assale appena  varcate l’ambio uscio che sfiora la strada , divenuta in quel tratto appena poco più larga dopo un percorso stretto e tortuoso.  Percepite subito una curiosa sensazione ,gradevole, quasi epidermica, come se per la prima volta  ci si potesse appropriare del tempo,invertirne la freccia ,renderlo reversibile, come se una magica moviola ci riconducesse in una età passata, immersi in uno scenario odoroso, rumoroso, polveroso così come l’avevamo lasciato cinquant’anni fa ,prima di barattarlo per qualcosa di cui oggi non riusciamo a definirne  vantaggiosamente i contorni. Ora che  viviamo in un’epoca in cui la nostra capacità di fare e realizzare sembra soverchiare e prevalere sulla capacità  intellettiva di prevedere e governare, sentiamo tutti uno strano  presagio, un vago  malessere .Circa trent’anni fa Masanobu Fukuoka scrisse un testo che fu l’introduzione all’agricoltura naturale :”La rivoluzione del filo di paglia” : Oggi parafrasando il lavoro dell’agronomo giapponese, l’ingegnere  Russo ha compiuto la sua piccola, privata ,solitaria “rivoluzione “ ma…..con il chicco di grano .
Ebbene si ! Viviamo in  tempi  assurdi dove il destino delle cose prodotte dall’uomo è segnato dalle “scadenze” quasi che la nostra maggiore preoccupazione sia la” non  durata”  ,dove qualsiasi bene realizzato ha in se connaturato, incorporato un preciso termine  (da consumarsi entro e non oltre)che ne determina, paradossalmente, non il fine , ma la fine!  Invece qui, in questo silenzioso e delizioso angolo dei Nebrodi, Russo combatte solitario ma deciso la sua battaglia contro ….il Mulino Bianco ,la stravagante invenzione pubblicitaria che da anni  rincoglionisce grandi e piccini, surrogando le naturali sensazioni gustative con piacevoli trasposizioni visive ed uditive in una girandola che confonde e sconvolge il ruolo dei sensi. Cosi basta salire al primo piano dove Russo ha allestito un piccolo laboratorio per biscotti ed essere piacevolmente investiti dal ‘effluvio di composite fragranze, naturalmente sprigionate dalla sua produzione  dolciaria artigianale. Mentre assaggiamo le  classiche  paste secche siciliane  al sapore di pistacchio, non possiamo esimerci da una riflessione: ritroviamo intatta una originale esperienza, caratterizzata dal principio d’inscindibilità che lega con una attenzione e cura meticolosa   tutte le operazioni procedurali nella filiera produttiva ,  coniugando felicemente il “prodotto “con il “processo” . Come si realizza ? Semplicemente esorcizzando la tirannia del tempo  con le sole armi della discontinuità, lentezza ,la paziente attesa, le lunghe pause , ma ancor di più con il “rispetto” delle cose a cominciare  ad esempio dalla materia prima ,la farina ,attraverso la molitura del grano. Si proprio dal nostro chicco! Perché dalle condizioni di macinazione adottate che noi ne determiniamo il grado di danneggiamento dell’amido o meglio dei granuli di amido. Solo le farine con granuli di amido non eccessivamente danneggiate rigonfiano e gelatinizzano debolmente durante l’impasto , quelle che poi ci daranno un pane di giusto volume ,con mollica asciutta ,ben cotta e dal colore della crosta poco scura . Per produrre una si fatta farina i fratelli Russo hanno recuperato le grosse  macine di un vecchio mulino ad acqua le cui pietre speciali provenivano dalla Francia e precisamente dalla zona di La Fertè-sous-Jouarre ,probabilmente di origine vulcanica durissime che non comunicano odori e gusti estranei alle farine durante la lavorazione. Due pietre dal peso di una tonnellata ciascuna, a cui un ruolo non secondario, è affidato alle “scanalature” disegnate sulle facce interne delle macine , molto probabilmente del tipo olandese composta da incavi circolare e solchi paralleli.
La ruota mobile gira lentamente così da mantenere bassa la temperatura preservandone della cariosside  tutta la ricchezza organolettica in particolare consentire al germe ed agli oli essenziali  in esso contenuti ,di amalgamarsi con la restante parte amilacea evitandone la “cottura”e così  conservare molte proprietà benefiche naturalmente presenti nel grano. La farina “tal quale “ finisce nel buratto dove un cilindro a pareti di tela separa la sola crusca , la parte più esterna ,periferica del chicco. E’ qui che Russo orgogliosamente, vi mostra  le tante risultanze di una vasta e attenta ricerca medica, che assegna alla fibra  e alla suo ricco contenuto in minerali  un ruolo di scavenger(spazzino)  decisivo nella prevenzione e cura di molte malattie  cosi dette del benessere che non a caso,sono aumentati, da quando abbiamo abbandonato   gli Antichi Mulini a Pietra.

venerdì 16 marzo 2012

Il dono nella società contadina

Giuseppe Bivona

Quel beneficio che si realizza nell’azione di donare
 è già contraccambiato se viene accolto con benevolenza;
l’altro beneficio, quello che consiste nell’aspetto materiale, noi non lo abbiamo ancora ricambiato, ma vogliamo ricambiarlo. All’intenzione rispondiamo con l’intenzione, ma siamo ancora debitori di un oggetto in cambio di un altro oggetto. Per questo diciamo che la riconoscenza consiste nel ricevere con buona disposizione d’animo. Tuttavia prescriviamo  anche di ricambiare il dono ricevuto con uno simile (Seneca)

Se il mercato è il luogo dove s’incontrano domanda ed offerta ,ovvero dove si scambiano  i beni divenuti nel frattempo merci, il dono è una modalità  ,l’occasione di incontro con l’altro,il prossimo ,il vicino,con la vita. Nelle società rurali lo scambio di doni era una consuetudine parecchio praticata  che ristabiliva e consolidava una forte intimità umana. Era un elemento essenziale nel fitto intreccio di relazioni  che consentiva alle persone, di avvicinare il donatore col ricevente , vedersi in volto, magari di penetrare lo sguardo anche intimamente . L’economia classica mercantile di oggi  è incentrata sui rapporti di forza ,da un lato la domanda ,dall’altra l’offerta, sempre in perenne ricerca di un equilibrio ,ossia la definitiva formazione del giusto  prezzo . Conclusosi l’affare  il legame si scioglie.  Ognuno dei contraenti prosegue per la propria strada.Tutto si svolge all’insegna della massima razionalità
Ma cosa accade invece quando un contadino fa dono,per esempio, di un cesto di frutta al suo vicino il quale ne è momentaneamente sprovvisto?  Innesca una serie di relazioni,aspettative,interdipendenze  che rinsaldano i vincoli. Ora il dono non è caratterizzato dalla razionalità  cosi come lo abbiamo descritto   nel contesto mercantile, perciò il ricevente , si sentirà ,certo in obbligo di restituire il favore , ma proprio perché scambiano beni e non merci, il rapporto è in perenne “disequilibrio”. E’ uno scambio paradossalmente “asimmetrico” che innesca “aspettative” diverse da parte del donatore rispetto al ricevente. Quest’ultimo si sente in obbligo morale e la sua preoccupazione sarà di contraccambiare la donazione. Questa perenne “oscillazione”  crea dei vincoli di reciprocità  che si estendono e si ampliano oltre la portata economica dello scambio.
Ora se immaginiamo che tali relazioni si istaurano ad ogni scambio  tra tutti i componenti  di una comunità , ne risulta  che la collettività  sarà pervasa  da un altissimo livello di coesione e di connessione sociale. Non a caso abbiamo chiamato  la società contadina “comunità” per la profonda e marcata differenza con la “società” industriale e urbana. La prima basata sulla collaborazione,la reciprocità e la coesione . La seconda ,da competizione, concorrenza , ipertrofia individualistica, dominata dagli interessi. Ma ritorniamo al dono.
Un esempio eloquente di dono nel mondo contadino era lo scambio di sementi,o di innesti di fruttiferi. Di solito la selezione era affidata all’anziano che prima di iniziare la raccolta delle produzioni orticole, si aggirava tra i filari selezionando i frutti migliori, per resistenza alle malattie, alla siccità, maggiore pezzatura migliore colorazione , gusto più spiccato. I contadini erano orgogliosi delle selezioni che avevano operato, ed era con sommo piacere  poterla donare a quanti,  parenti e amici,  gliene facevano richiesta .L’atto di donare la semente o un innesto di fruttifero di particolare pregio ,coinvolgeva il contadino perché quella semente era una parte di se stesso,per le tante cure che aveva profuso, delle attenzioni che aveva speso e delle  intelligenti osservazioni . Sapeva che i geni della progenie dei suoi frutti  si sarebbero  espressi in altri contesti e questo legava affettivamente sempre più il contadino con la sua coltura.  Ma la sua soddisfazione raggiungeva il massimo quando gli venivano mostrati i frutti che provenivano dalla sua semente . Non c’erano soldi, né compensi che potevano eguagliare tanta felicità. Cosi  valeva per tutti gli altri beni  oggetto di donazione, dove “interiorizzavano”  l’amore profondo con cui èrano fatti , lavorati  con le proprie mani ,con  prodotti di base di sua proprietà,  con cura e meticolosità .
Le società rurali non erano  certo  realtà idilliache, pacificate e sempre gioiose ,erano spesso pervase da conflitti e tensioni a causa dei rapporti di proprietà e delle condizioni  di miseria in cui erano costretti a vivere. Ma il prevalere della “comunità” sulla società , della solidarietà sull’egoismo, dell’economia del dono  su quella di mercato ,  della sobrietà sullo spreco, ci pone oggi,  in una realtà sempre più difficile da leggere, ad una attenta riflessione e riconsiderazione
Perciò l’economia del dono può essere il nuovo paradigma per la definizione e ricostruzione del “bene comune”.

mercoledì 14 marzo 2012

Tre giornate di studio per la dieta mediterranea



La gallina è un animale intelligente!


Giuseppe Bivona


“Avanti a chi tocca” disse  con la solita decisa  cortesia il signor Rizzo, “ armato “ della sua sassola, impugnata  saldamente come se fosse un soldato romano, ostentante  la sua gladio.
La signora anziana che con fatica era rimasta in piedi, aspettando il turno, strattonò il marito assorto   ad osservare il contenuto dei sacchi esposti, aperti per mostrare le granaglie: mais intero e spezzettato, orzo, avena, crusca, fave ecc.. –
“ Cicciu a niatri tocca!” -. Lu zu’ Ciccio ubbidiente da una vita, alla voce della moglie  scattò  sull’attenti come si conviene ad una recluta  militare, prese il sacco e lo porse aperto per riempirlo di granaglie.
Il  signor Rizzo aveva iniziato a versare le prime palate al che lu zu’ Cicciu  chiuse la bocca del sacco  e con aria trasognata chiese: - “ Possibile , che queste mie galline, siano cosi stupide! Pensate,lasciano  il grano, il mais ma pure il mangime, per rincorrere un filo d’erba, una” liffia” di cipolla, per non parlare delle foglie di lattughe, quelle di risulta, che mia moglie scarta in cucina! Non ci crederete,  ma alcune di loro, saltano la recinzione, rischiano di farsi  mangiare dai cani … per pochi, inutili fili d’erba !“
Nella “putia” del signor Rizzo scese un silenzio imbarazzante, finché il provvidenziale spirito gioviale del proprietario ruppe il generale disagio: - “ Ma zu’ Cicciu….. lo dice pure la canzone  che ” la gallina non è un animale intelligente!”

 No! Caro zu’ Ciccio, le galline  non sono stupide, gli imbecilli siamo noi, ignoranti e presuntuosi,   che abbiamo perso il senno, il ben dell’intelletto, la capacità di osservare, riflettere, fare tesoro dell’esperienza quotidiana!  Non traiamo più dalla natura nessun insegnamento
Nel lungo processo di addomesticamento, in questi ultimi decenni ha prevalso l’esigenza “ aziendale”, il modello organizzativo, la praticità, l’economicità, l’efficienza. Interventi  che,  attraverso la semplificazione della razione alimentare, tradotti con somma banalizzazione in unità foraggere, pensavamo di ridurre la “macchina” animale ad uno strumento atto a trasformare gli alimenti vegetali in carne, uova e latte. Siamo  riusciti ad abbassare, fino all’inverosimile “l’indice di conversione” ovvero la quantità di mangime necessario per essere trasformato in prodotti  zootecnici.
 Il “miracolo” della moderna avicoltura ha due santuari: il miglioramento genetico, ovvero la capacità di rendere più efficiente la “macchina” e l’industria mangimistica, ovvero la ricerca di un “ carburante” altamente energetico.
Così, le galline  “moderne” non sanno più cosa vuol dire razzolare, beccare i teneri fili d’erba, cibarsi di larve scovate nell’aia alla ricerca di germogli o insetti e poi la più infame delle torture…. non conoscono il gallo! E…. cosa ne è rimasto dell’istinto “materno” della chioccia padovana? Così minuta ed agile, capace di affrontare animali più grossi di lei per difendere la covata!
 Ora tutto è proteso alla massima razionalità: raggiungere il massimo risultato col il minimo dispendio di risorse. Per abbassare i costi sono stati escogitate tecniche di allevamento da lager nazista. Capannoni con 5000 e talvolta 10.000  capi col sistema “ tutto pieno, tutto vuoto”.
La vigilanza è affidata a uno o due operai che si limitano  a somministrare acqua, mangime e antibiotici o sulfamidici. Trascorsi un paio di mesi, il capannone è svuotato, ripulito, disinfettato pronto per ospitare altri pulcini.
Che strano destino quello dei polli, nascono senza un atto d’amore, la gestazione è affidata ad una macchina che simula il calore, l’umidità e..il giro dell’uovo. Appena nati vengono “sessati”, un “criminale” giapponese trovò il modo di riconoscere il sesso nei pulcini di un giorno. Ora immaginate la fine che faranno i maschietti la cui razza è destinata a produrre uova!
Il pulcino non ha infanzia  è destinato,  con alchimie varie,  a divenire subito adulto ovvero un brolier, per avere un incremento di un kilogrammo di carne, bastano appena Kg 1,5 di mangime e raggiunge il suo peso vivo di circa Kg 2,300 in 35 giorni. Miracolo o follia?
Le loro carni sono immangiabili, nessun ristoratore che si rispetti ha la spudoratezza di servirle al tavolo dei suoi clienti. Non “tengono” la cottura se si supera di poco il punto giusto, per cui le loro carni si sbriciolano e, se restano cotte, sanno di pesce marcio. Sono destinati alle mense delle fabbriche o, peggio ancora, alle mense scolastiche e, comunque, alle famiglia con basso reddito.
Tutta la ricerca e la pratica applicazione che ne è derivata nel settore zootecnico, è stata indirizzata unicamente per produrre profitto agli investitori di mangimi e zoo farmaci e cibo spazzatura per i consumatori. La follia produttivistica non ha più limiti, la ricerca “forza”i  confini biologici delle specie, proponendo polli senza piume per ridurre i tempi dello piumaggio o la produzione di tre uova al giorno per le ovaiole.
In un mondo globalizzato nessuno può impedire alla “tecnica” di fare quello che può fare, non ci sono limiti etici che possono imbrigliare la ricerca e lo sviluppo della “tecnica”.
Tuttavia una cosa possiamo pretendere: che le “nuove” produzioni non siano chiamate o confuse con le produzioni tradizionalmente coltivate ed allevate. Quando si “ denatura “ un processo è ovvio  che si  “altera “ il prodotto in tutti i suoi aspetti merceologici: dal colore alla consistenza, al gusto, al valore nutritivo e alla funzione nutraceutica.
L’esempio più eloquente lo traiamo dall’uovo. Cosa ci ”azzecca” l’uovo “industriale” di allevamento intensivo, con  un uovo di gallina che cresce libera di razzolare in un prato,che il giorno non è confuso con la notte e che  prima di deporre l’uovo si è felicemente accoppiata con il suo gallo!

venerdì 9 marzo 2012

N’arrubbaru lu suli (…e lu pani) seconda parte




 di Giuseppe Bivona

Lu pani si chiama pani” Recitava Ignazio Buttitta in una delle prime raccolte di poesie, con il suo inconfondibile accento “baarioto” .
“ Ma oggi, caro Ignazio, a distanza di mezzo secolo, il nostro pane quotidiano possiamo ancora chiamarlo “pani” ?
No! Neanche la “fame” di pane ci è rimasta,  ovvero“u pitittu” : appannaggio esclusivo, un triste privilegio  dei popoli del terzo mondo.  Noi  invece  satolli di ogni ben di Dio,  fino a star male, soffriamo altre  “fami”  artificiali e superflui ,per via dei tanti surrogati ,  dei bisogni indotti e sapientemente congegnati ad arte da una diabolica  pubblicità.
Eppure sembra il pane di sempre, gli ingredienti sono identici : farina ,acqua, sale e lievito, una formula che ha sfamato intere generazioni, la base di sostentamento della nostra cultura alimentare mediterranea.
Qui, per secoli  il frumento ebbe le cure più attente, al limite della “sacralità” Cerere era la dea delle messi. Il “ciclo” del grano rimase immutato come si conviene ad un rituale magico:
dalle selezione delle sementi ,alla cure colturali ,dalla molitura  ,alla panificazione
.Oggi invece la “dissacrazione” non ha risparmiato neanche una fase  del suo ciclo. tutto è stato stravolto ,rimosso ,snaturato…
Il terreno che ospita il grano non rispetta più le rotazioni agrarie o le successioni colturali, per anni seguiva obbligatoriamente una coltura “miglioratrice”: dalla fava alla sulla .L’aratro a chiodo “feriva” leggermente la terra , appena quel tanto quanto ,necessitasse ad accogliere il seme.  Per  madre  natura  questa  era un piccolo , innocente graffio: non era difficile risanarlo.
 Oggi l’arroganza mercantile obbliga ad insistere  con il ringrano  per diversi anni , sventrando la terra alterandone il profilo e ricorrendo a concimazioni artificiali e per controllare le erbe infestanti usa il  diserbo chimico   
Le cultivar di oggi, sembrano  derivare  da un genitore “alieno” . Il suo capostipite fu il Creso . nato in provetta,in un laboratorio , in un centro nucleare. Una mutagenesi indotta usando il cobalto radioattivo su un frumento che aveva il difetto di essere …alto, cosi come altisonante il suo nome:”Senato Cappelli”.
Bisognava abbassare la taglia , questi  vecchi grani “spilungoni”,  sono solo buoni per fare paglia,e poi non reggono le laute concimazioni azotate, allettano , si accasciano sotto il peso della spiga!
Cosi il salnitro, che durante le guerre fu prodotto dalle industrie chimiche per massacrare figli di mamme ,ora diviene  nitrato e con il suo mortale candore,”lussureggia” le piante  , ma ahimè, stermina la fora batterica  che albergava da millenni nei nostri suoli agrari.
Ora ci assale un dubbio : e se la  modificazione genetica  degli odierni grani  fosse correlata alla modificazione  di una importante proteina, la  gliadina ?  Ebbene dalla digestione peptica-triptica deriva un prodotto intermedio (“ frazione III di Frazer” ) una sostanza che ha  dimostrato di  poter provocare  l’enteropatia infiammatoria e quindi il malassorbimento  ovvero intolleranza al glutine e allergie varie!
Tutto ciò accade sotto i nostri occhi , con l’ incosciente ilarità di una generazione di “ cosiddetti “ agronomi : ottusi ,miopi funzionari di un “Apparato ” che forniva loro una particolare attrezzatura : i paraocchi ,  solitamente in   dotazione agli asini,  addetti al sollevamento dell’acqua nelle vecchie norie!
Oggi dal grano sembrano ricavarsi solo due prodotti: amido e glutine. Quest’ultimo subisce una improvvisa impennata dal 10% passa al !8%  come i grani canadesi , la Manitoba, che come le gomme da masticare ,  si elasticizzano ,permettendo  di  ottenere  prodotti  al massimo della lievitazione ,
 come dire : panettoni, panforti  colombe….  
Un tempo il grano  proveniente dall’aia veniva  conservato nei  “cannizzi”,  singolari strutture  fatte con  “ mezze “canne intrecciate , a mo di un cilindro  di circa 1- 1’5 metri  di diametro e una altezza  di 3- 3.5 metri..
Le cariossidi “respiravano”, l’embrione era sempre vivo  qualunque fosse la sua destinazione .
Che strano prodotto  questo grano!   Era nello stesso tempo “ produzione “ e “mezzo di produzione”  ovvero il contadino dal suo grano traeva sostentamento alimentare e una quota parte la destinava alla semina( riproduzione). Una anomalia  intollerabile per il nuovo ordine economico , la confusione di ruoli era inaccettabile in una realtà dove tutti i beni si “tramutano” in merci..
Dal grano alla farina oggi il tempo è …istantaneo. Mulini a cilindri  sottopongono il chicco ad una immediata frantumazione selezionandone subito i componenti ,  dalle diverse feritoie possiamo trarre ciò che meglio ci aggrada , semola, crusca, farina tipo 1, oppure0 e 00, bianche di un candore …mortifero
Com’è lontano il tempo in cui le macine di pietra lavica, sapientemente scanalate  , accoglievano il chicco! Lenti, non più di 35 -40 giri al minuto , ne rispettavano l’habitus costitutivo, lo trattavano come un “frutto secco”  , tutelavano  l’embrione, la vita , come se  dovesse trasmetterla  a noi comuni mortali.
L’opera di molitura veniva rifinita dal buratto   che sempre  col massimo rispetto , separava  la “buccia” del nostro frutto secco dalle componenti amilacee e proteiche, ma non prima di averli arricchite di importanti elementi minerali e pregiata fibra.
Questa farina  per preservare  tutta la sua ricchezza nutritiva , abbisognava di una giudiziosa panificazione, di una lenta lievitazione  con l’ausilio del lievito madre ( crescente).
Il pane si chiamava pane perché  i processi  erano rispettosi dei tempi  in particolare di quelli necessari alla lievitazione ,dove il processo di “ acidificazione “ si sommava alla lievitazione
 Erano necessari diverse ore perche l’enzima fitasi lentamente  smorzasse gli effetti negativi dei fitati , ma ancor più  la creazione nella pasta di un ambiente “acido”  che selezionasse i benefici lieviti ed  eliminasse quelli cattivi come quelli responsabile del “filante” ovvero della caratteristica gommosità del pane  tipico di quello “industriale”.
Le nostre nonne  segnavano con un taglio incrociato le pagnotte o “ vastedde” ,forse per meglio controllare il processo fermentativo. Ma a questo gesto facevano seguire un carezzevole bacio con le due dita congiunti . Un atto di amore per  un bene indispensabile , ma  allo stesso tempo un rito che simboleggiava tutta la sacralità del prodotto e del processo!