lunedì 19 dicembre 2011

A tutti i nostri lettori Auguriamo un Buon Natale e Felice Anno Nuovo…..con un racconto



 La buona novella…a lieto fine

                                             Ormai  era notte fonda , alla periferia del paese non si vedeva anima viva ,faceva freddo, ma sinceramente non era quello che volevano farci credere le previsioni  metereologi  del giorno precedente. In quel tugurio a forma di  grotta, in  una mangiatoia ,veniva alla luce il bambino di Giuseppe e Maria. Il bue e l'asino  erano dal tardo pomeriggio in quella stalla ,riposavano dopo una giornata di lavoro massacrante e ormai davano le ultime boccate  al saporito fieno ,odoroso, quasi voluttuoso.... "Toh, cosa ci tocca vedere" ,disse  l'asino al bue. Questi un po’ più sveglio del compagno, capi subito la estrema necessità ed urgenza : diede alcune affettuose leccate al pargolo  che giaceva  disteso nel presidio alimentare,cosi come avrebbe fatto con il suo vitellino. Il bambino aveva una straordinaria vitalità  , dopo il primo vagito sembrava sereno e  quasi sorridente. Eppure Maria , nei mesi precedenti non aveva fatto alcuna ecografia , non aveva visto medici  che l'avessero consigliata sulle diete , integratori , vitamine calcio ,fosforo...
Poi negli anni successivi , non ebbe alcuna visita ne controlli da parte di pediatri...niente vaccinazioni , ne crisi da svezzamento . Quando emise i primi dentini da latte Giuseppe le pose tra le mani  la "scarpetta" di un pane di circa 15 giorni : non la lasciava un secondo, succhiava e masticava quasi come le offrisse un straordinario  piacere ! 
Il ragazzo crebbe sano e robusto, chissà quanti anni poteva campare! Se non fosse stato  per quella crocefissione... a soli 33anni nel pieno della sua vitalità! 
E se poi invece fossero stati 90 o 120 anni! Che stramberia è questa!
Ebbene  si,  ci crediate o  no ,ma in un regione impervia della penisola indiana è stata scoperta una tomba bi millenaria di un certo Giosufa ,che ha tutta l'aria di essere la stessa persona con Gesù.
 A testimonianza che Ponzio Pilato seppe fare qualcosa di più e di meglio, di quanto raccontatoci dalla "storia" ufficiale,qualcosa di diverso che limitarsi a lavarsi le mani , a conferma delle perentorie richieste di sua moglie che non lo molla un istante , perché aveva a cuore la sua salvezza di Gesù detto il Cristo!

sabato 17 dicembre 2011

Da “Il segreto della domanda”


La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a conforto o a rimedio del quale, sono state senza fine ideate pratiche di cura.
Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica che, nonostante quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non sia un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.
Del resto, a differenza degli animali, l’uomo non è corredato di istinti, ossia di risposte rigide agli stimoli, e perciò la sua esistenza, non essendo pre-codificata, è posta come compito. Eludere questo compito è rinunciare alla condizione umana, è perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo “di tutti”, anche di chi al momento non soffre, perché, di fronte alla sofferenza, fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire.
Nasce da qui la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.
Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamolo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.
Qui si dividono Oriente e Occidente. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.
L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. A questo punto le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza l’Occidente è scaturito, divaricano.
Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è castigo e ad un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”, ma consiste nella contrapposizione tra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte delle singole esistenze è condizione di vita, e l’economia delle singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della loro vita.
Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire, perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura.
Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono o di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile. Una volta accolta la caducità dell’esistenza, occorre imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo rattrappimento, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare.
La pratica filosofica è iscritta in questa visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere, ed entro certi limiti dominare, non ipotizzando un mondo ultraterreno come nella tradizione giudaico-cristiana, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere.
Per questo il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.
Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balìa della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto, tipicamente greco, che nasce dallo sfondo tragico, segnerà il carattere dell’Occidente che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente, e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore, ama la vita e tutto ciò che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.
La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non si ingaggia solo col nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, quando è infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).
Da queste considerazioni è nata l’esigenza di creare, grazie all’interesse della casa editrice Apogeo, una collana che raccogliesse i contributi non solo europei e americani, ma anche italiani dedicati alle pratiche filosofiche, a partire dalla persuasione che nell’età della tecnica la domanda di senso si è ulteriormente radicalizzata, perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita come nell’età pre-tecnologica, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati.
All’interno degli apparati tecnici, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-teconologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso.
Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali e per i processi di simbolizzazione, sono inefficaci in ordine al tipo di insensatezza che caratterizza l’età della tecnica. La psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall’irreperibilità di un senso.
Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, con Socrate, Platone, Aristotele, con lo stoicismo e l’epicureismo, la filosofia, prima di rinchiudersi nella turris eburnea delle aule accademiche e diventare autoreferenziale, si è applicata al mondo della vita per reperire le forme migliori per il governo di sé e il governo della città. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi si identifica con la tecnica, in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza.
Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro.
  Umberto Galimberti

Mais les feuilles sont mortes ?



Quest’anno l’autunno non si decide ad entrare, sembra indugiare sul limite estremo dell’estate. La vegetazione qui in campagna è ancora verdeggiante come un paio di mesi fa. Alice esce dall’uscio della sua  casa estiva  mentre il sole invia i primi raggi. Si ferma  sotto l’ombroso  lontano alza gli occhi e  vede che sui rami si notano solo poche foglie ingiallite, pochissime cadute a terra. “Eppure siamo quasi alla fine di ottobre “ disse Alice rivolgendosi al Gufo “ Non sarà forse la temperatura  insolitamente mite e l’assenza  di vento e pioggia? Certo rispose il Gufo  “ La caduta delle foglie è per noi uno spettacolo, i botanici direbbero che un perfetto sincronismo, una felice coincidenza, tra le temperature che si abbassano, la luce  del giorno che si attenua  e …. la produzione di ormoni da parte della pianta  che decide di “abbandonarle” non prima di  averle consegnato  un po’ di….. spazzatura accumulata nei mesi primaverili - estivi.
Ad Alice lo spettacolo  delle foglie autunnali ha sempre trasmesso tristezza e senso di caducità , leggiadre creature  dai colori  variegati ,indefiniti , terrei , forse consapevoli di doversi  prima o poi  “staccarsi “ dal ramo , eppure quanta fierezza  esprimono in quell’atto!
 “Bè “ disse il Gufo,  attento come sempre alle note emozionanti di Alice “  a ben pensarci   le foglie autunnali, per strano che possa sembrare , trasmettono armonia e serenità. Sono giunte al termine della loro vita, si lasciano cadere  quasi senza opporre resistenza  , non si aggrappano a niente , anzi trasformano la loro caduta  in una danza di impareggiabile dolcezza ad eleganza.” 
Alice : “Invece noi non cessiamo di  attaccarci alle cose , bramosi di possedere , timorosi di perderli ,ansiosi nel difenderli, sempre più “avere” e sempre meno “essere”. Insomma facciamo esattamente tutto il contrario di quello che fanno  queste lievi, delicate, dignitose figlie dell’albero. Dovremmo imparare da loro!”
Il Gufo annuiva  , certo l’attaccamento alle cose materiali è un prodotto  culturale  della nostra mente ,dell’ego , di  una voglia insaziabile , irrequieta , indomabile  che sempre vuole, vuole ,né mai si accontenta ,incessantemente desiderosa  di altro , ancora ed ancora , sempre più a lungo , come se la vita  fosse una eterna corsa  agli acquisti , dove tutto è in vendita perché tutto ha un prezzo  “ Invece le cose di valore non hanno un prezzo , hanno appunto un valore  che è tutta un altra cosa :non si possono venderle , non si possono comprare , si possono cercare di meritarle  ,di esserne degni e custodirle fedelmente.” Disse quasi tutto di un fiato il Gufo.
 “Eppure” riprese Alice basterebbe essere più “modesti” : le foglie cadono al suolo ,ma senza disperazione , sanno che quello è il loro destino , ma sanno che continueranno a vivere in altre forme in altri corpi , in altre stagioni . Sanno che il loro “cadere” è necessario  perché tra qualche mese  possano sbocciare altre gemme  sul ramo , altre foglie si schiudono al tiepido sole di primavera . Cosi i vecchi debbono fare  altrettanto, lasciare il posto ai giovani , è una legge di natura  ,chi ha fatto il proprio tempo si distacca  perché altre  generazioni possano farsi avanti . E’ il ciclo perenne che eternamente si rinnova. A cosa servirebbe  alla vecchia foglia rimanere attaccata all’albero? Se non ad occupare inutilmente spazio . Ma il suo “sacrificio”  quando l’inverno finirà  e le piogge  avranno ridato forza e vigore  all’albero  nutrimento  ad una foglia nuova,  contribuendo a ridare il miracolo della fertilità”
Il Gufo ora  si era fatto pensieroso “ Non si può vivere solo per se stessi , la nostra vita ha senso ed un valore , nella misura  in cui riesce a rapportarsi col resto  che ci circonda: tutto questo ci dicono le foglie  gialle , arancio o  brune che siano, quando dopo una vita  intensa pienamente vissuta, cedono alla stanchezza , smettono di fare presa , permettono ad un lieve soffio di vento di portale via con se”
“Ma la foglia che  si stacca dal ramo  e cade a terra  “   disse sicura di se Alice” non  cessa di vivere , ma ritorna nel grembo della natura che l’ha generata  , riprende il ciclo della vita dallo stesso terreno che ospita e nutre la pianta ,perche essa stessa feconderà di nuova  energia vitale   e non sarà vissuta invano!”

Le anime dei vecchi ( Constantinos Kavafis)
Nei loro corpi decrepiti,consunti
stanno le anime dei vecchi. Poverine,
cosi stremate e malinconiche
per la grama esistenza che trascinano.
E che spavento hanno di perderla,e che bene
le vogliono queste anime dubbiose,inconseguenti
e tragicomiche - sistemate come sono
nelle loro frolle decrepite pelli

giovedì 15 dicembre 2011

Amorevole….. inganno





Per Alice quel viale era un luogo “magico”, silenzioso e rassicurante ,forse perché delimitato da due filari di ulivi, le cui fronde si toccavano quasi a formare un tunnel e nelle ore più calde c’era sempre ombra a proteggerti.
Poi come un segnale convenuto, alla stessa ora,minuto più minuto meno, arrivava dal mare la brezza e con la delicata freschezza portava il profumo di “mare”. Chinò lo sguardo  per cacciare un piccolo sasso e vide con sommo stupore un piccolo ,strano fiore, attaccato alla ceppaia dell’ulivo, dai petali particolare ,irregolari, dalla forma inusuale.  Cosa sarà mai? Come al solito, chiamò il suo inseparabile gufo  e chiese che cosa fosse quella strana pianticella. “ E’ una orchidea”- disse subito il gufo ,” di spontanee c’è ne sono parecchie in Sicilia specialmente nell’altipiano Ibleo” . Alice raccolse i fiorellino e lo  fece girare e rigirare tra li dita , accrescendo sempre più la sua curiosità. Camminarono  assieme in silenzio poi il gufo :” Be, è facile  per esseri come noi  dotati di mobilità ,operosità e linguaggio  conquistare l’apice della scala evolutiva . Eppure  le piante malgrado la loro fissità ,il radicamento ,l’immobilità,  hanno fatto la storia naturale  attivando meccanismi e strategie sofisticate per rispondere efficacemente ai  fini esistenziali: nutrirsi e diffondere la progenie ,ovvero i propri geni nello spazio circostante!”
Alice ,conveniva che nella storia naturale dell’evoluzione le piante avevano messo a segno meccanismi sofisticati  sia per attirare gli insetti pronubi che per diffondere i semi ovvero la progenie.” Queste  cara Alice “ disse il gufo “sono bazzecole  rispetto a quello che alcune consorelle della tua orchidea hanno escogitato!  Vuoi un esempio? L’orchidea Ophrys  contrariamente agli altri fiori non produce nettare! Tu dirai : si risparmia questa fatica  metabolica ! Si ,ma escogita un inganno, forse, il più sofisticato, intelligente che si possa osservare in natura : Promette…. sesso , uno strano sesso  a cui un parente stretto del calabrone non  sa resistere! L’orchidea   attrae il credulone  imitando il profumo della vespa femmina ( profumo di donna!) ovvero con  ferormoni, specifico per la specie . Ma in primo piano l’orchidea espone il labello ( il labro inferiore del petalo)  ovvero una riproduzione fedele  dell’addome   della vespa femmina vista  da di…dietro, con gli arti e le ali piegati  e per non lasciare nulla al caso ..una finta peluria. Il credulone volteggiando tra i fiori  intravede la “femmina. ”  con la testa immersa nel calice, intenta ad esplorare ,la  scenografia è completata dal verde colore dei sepali  che sporgono appena. Il mandrillo non ha dubbi: la posizione è delle più favorevoli ,  l’occasione è ghiotta ,si tuffa con decisione ed inizia  prima con movimenti prestanti , poi via via  assesta colpi   vigorosi e prolungati ,di vera copula!
L’orchidea  risponde con languide flessioni del suo esile peduncolo , deve assecondarlo ancora un po’, finché le piccole strutture polliniche ,due sacche gialle pieni di granuli , poste ai lati come piccole colonne, si allentino e si attaccano  alla schiena con una sostanza appiccicaticcia, gelatinosa a rapida presa . Quando il vespone ,ormai stanco e ansimante   di dimenarsi,senza  aver ottenuto alcun fruttuoso epilogo , si rende conto dell’inganno, abbandona il fiore , ha con se sulle spalle due bombole gialle piene di polline. Poverino! Era stato illuso dalla promessa di sesso ,ora è frustrato, arrabbiato con se stesso ,si chiede incredulo, come è potuto cadere in quel  miserabile inganno ? Ma ciò che lo manda in bestia è che  era stato fatto fesso da una …pianta! Ora  vola lontano, ha paura del sarcasmo dei compagni , vuole andare distante da quel luogo ,dimenticare.”

Alice era rimasta senza parole, la strategia dell’Ophrys era geniale,intricante , piena di  astuzia “ “ Non ti viene il dubbio che questo  sia la prova di una volontà ,di  un disegno intelligente?” Il gufo scosse la testa ” Be,se penso a certi  uomini che si consolano con le bambole gonfiabili non mi stupisco più di tanto.! Ma la storia dell’orchidea non finisce certo qui ! tu penserai che quel ” pirla “vespone ora non ci casca più,ha memorizzato le sembianze, i profumi e di conseguenza  il suo carico di polline sarà  sparso al vento, inutilizzato!  Ebbene no! L’orchidea è “diabolica” , sa che l’animale non si innamora sempre dello stesso  fiore , e un “farfallone” nato, perciò   crea una sottile variazione “sul tema”  da pianta a pianta , come dire leggere imperfezioni, odori legger menti divaganti  per singolo individuo. Ebbene non ci crederai ,cara Alice, ma queste imperfezioni  sono estremamente funzionali al perfetto disegno della macchinosa trama ordita dalla nostra orchidea.
 Ormai il vespone èlontano dalla scena dell’inganno ,distante da occhi indiscreti , si abbassa verso il fiore vede di nuovo la vespa in “posizione” favorevole,  con molta probabilità a guardala ed annusarla sembra leggermente diversa  dalla prima, no, questa volta è quella “vera”, non resiste, si butta di nuovo …e giù a menar colpi a…. vuoto . Ma non per l’orchidea , che se la gode, il suo atto copulatorio  è compiuto! Si è servita di un….pene volante!.”
Alice era sempre più meravigliata dal racconto del gufo , ma una cosa non le era chiara” Perché  alcune famiglie di orchidee hanno scelto di non produrre nettare e intraprendere l’avventura, diciamo “sessuale” .In fondo migliaia di specie  affidano l’impollinazione al richiamo alimentare co ottimo successo. “Ingenua Alice La tua innocenza è pari al tuo pudore”.Rispose il gufo “ I detti popolari , su questo tema si sprecano “ tira più un pilu  di fimmina che…….”,  ma l’orchidea ha elaborato una fine strategia che segue diversi percorsi . Intanto produrre nettare è sempre uno sforzo metabolico, per la pianta un costo energetico, poi la presenza di nettare attira come sol dirsi “ cani e porci” . Un fiore cosi” nobile” non può farsi ingroppare dal primo venuto! L’orchidea  produce un suo specifico odore  che attira un specifico insetto  e solo cosi può essere certa  che il polline  finisce esattamente  su uno stigma di una orchidea lontana.  E ‘ una impollinazione  efficiente e specializzata . In questo modo sfugge al rischio di un isolamento geografico che poi equivale ad isolamento genetico  e inagura  nuovi incroci, aumentando la variabilità , nuove conquiste.
Ma le orchidee in natura non sono tantissime. Il loro numero ristretto è condizione di sopravvivenza . Si, perchè se le orchidee ingannevoli fossero molto più numerose ,i loro trucchi non avrebbero  tanta fortuna . Sono in “equilibrio” con le3/4 della popolazione di orchidee “oneste” dove l’odore è odore e dove la realtà non e finzione e correttamente mantengono quello che si promette! Perché , l’inganno sessuale può coinvolgere pochi vesponi per molto tempo ,può, al massimo interessare molti vesponi, ma per breve tempo .Quello che non potranno mai fare le orchidee “prostitute”  ingannare molti vesponi per tantissimo tempo!”
“Ma cosi la vita delle orchidee ingannatrici è sul filo del rasoio”   disse Alice ” No ! rispose il gufo _”perché paradossalmente ogni granulo di polline si muta in …seme  con una semplicità stupefacente , lontano dalle complicazioni e dagli impegni coreografici  che abbiamo visto per l’impollinazione. Questi semi sono piccolissimi quasi invisibili ,non hanno cotiledoni “ Allora come fanno a nascere, saranno pochissimi quelli che sopravvivranno!” disse prontamente Alice. “ Niente paura ,rispose il gufo “ Ci pensa un fungo epifita  che raggiunge con le sue ife i piccoli semi e fornisce loro tutte le sostanze necessarie allo sviluppo dell’embrione e successivamente alla futura piantina. Tu dirai cosa ne viene al fungo?  Ma deve esserci per forza un tornaconto ,una convenienza?  Per una orchidea ne vale la pena!! 
 Giuseppe Bivona