martedì 16 settembre 2014

DOP, IGP, STG, straordinari strumenti di tutela delle produzioni agroalimentari tipiche riconosciute


Per prodotti agroalimentari tipici si intendono i prodotti con indicazione geografica DOP e IGP, l’STG, e i prodotti agroalimentari tradizionali; essi vengono classificati, dal punto di vista tecnico, rispettivamente in “certificati” e “non certificati” in quanto sono caratterizzati da distinti percorsi di riconoscimento e da livelli di impegno da parte dei produttori e di tutela giuridica del prodotto nettamente diversi.
Nei prodotti a denominazione d’origine DOP e indicazione geografica IGP viene riconosciuto, sulla base di un regolamento dell’Unione Europea, l’esistenza di un legame tra il prodotto e la zona geografica di produzione, comprensiva di fattori geografi co ambientali, storici e umani.
Nel caso delle DOP tali fattori peculiari incidono fortemente sulle caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche del prodotto e pertanto, per garantire tali caratteristiche, il prodotto non può essere ottenuto al di fuori di tale zona. Nel caso dei prodotti IGP invece i fattori storici, ambientali e umani della zona incidono su almeno una delle caratteristiche del prodotto, compresa la rinomanza; per l’IGP pertanto alcune fasi del processo che non incidono sulle peculiarità del prodotto, come ad esempio il condizionamento di un ortaggio o la lavorazione e l’imballaggio del riso, possono anche essere effettuate al di fuori della zona definita.
Il legame del prodotto con la zona geografica di origine deve essere dimostrato dai produttori attraverso un’approfondita documentazione che viene valutata dalla Regione e dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e, successivamente, dalla Commissione europea. Ottenuto il riconoscimento con la registrazione della DOP o IGP, il prodotto viene periodicamente verificato da appositi organismi di controllo e certificazione, al fine di garantire ai consumatori il rispetto della disciplina di produzione e delle caratteristiche specifiche.
La registrazione di una DOP o IGP da parte dell’Unione Europea, significa quindi che quel prodotto può essere ottenuto totalmente (per la DOP) o parzialmente (per l’IGP) in quella determinata zona che influenza le peculiarità del prodotto; tale riconoscimento pertanto crea giuridicamente un vantaggio competitivo riservato solo ai produttori che operano all’interno di quella zona nonché una tutela legale al prodotto e quindi al produttore, nei confronti di chiunque in Italia, in Europa o nel mondo, cerchi d’imitare tale bene o usurparne il nome protetto. Il riconoscimento della DOP o IGP permette quindi al consumatore di identificare con certezza un prodotto di riconosciute peculiarità, avente origine in un particolare territorio, seguendo ferree regole di produzione e di controllo che determinano e garantiscono le peculiarità, rispetto ai prodotti indifferenziati e globalizzati di provenienza incerta.


Una “Specialità tradizionale garantita” o STG, che viene riconosciuta dopo un percorso simile a quello necessario per registrare una DOP / IGP, viene tutelata dall’Unione Europea in ragione delle sue peculiarità legate non alla zona di origine ma al metodo tradizionale di produzione o alla ricetta riconosciuta. Questo è il caso della mozzarella STG o della pizza napoletana STG; tali prodotti con l’attestazione STG possono essere ottenuti in tutto il mondo ma solo se viene applicato il disciplinare di produzione approvato dall’Unione europea, che fissa il metodo tradizionale a garanzia delle peculiarità del prodotto. Anche per le STG vengono periodicamente effettuate le verifiche da parte di appositi organismi di controllo e certificazione accreditati a livello internazionale, al fi ne di garantire ai consumatori, in tutto il mondo, il rispetto della disciplina e delle caratteristiche tradizionali. I prodotti agroalimentari tradizionali sono quelli che, per la loro rinomanza e la tradizionalità del metodo di produzione, vengono inseriti dal 2000 nell’Elenco nazionale del prodotti agroalimentari tradizionali, istituito dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. L’inserimento nell’elenco di “nuovi” prodotti tradizionali è semplice: ogni anno, entro la metà marzo, i produttori del settore agro-alimentare possono presentare al Ministero, per il tramite della propria Regione, una breve scheda nella quale descrivono le principali informazioni sul prodotto, le caratteristiche, la tradizionalità del metodo di produzione o della ricetta. Tali prodotti, dopo una valutazione della scheda prima da parte della Regione e poi del Ministero, vengono inseriti nell’elenco nazionale mediante la pubblicazione di un Decreto ministeriale che aggiorna l’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali. L’approvazione dell’elenco non rappresenta un vero e proprio riconoscimento o tutela giuridica per i produttori, come viceversa avviene nel caso delle indicazioni geografi che DOP e IGP, ma può essere considerato uno strumento informativo per il consumatore e di marketing in quanto i produttori possono inserire sugli imballaggi e nel materiale promozionale la frase “Prodotto inserito nell’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali”. L’inserimento di un prodotto, oltre a costituire una ormai famosa vetrina per l’ampia gamma di peculiarità agro-alimentari regionali e italiane, può rappresentare un primo passo per iniziare il percorso di registrazione DOP o IGP, qualora il prodotto diventato rinomato, necessiti di una maggior tutela giuridica internazionale.

giovedì 11 settembre 2014

Dieta mediterranea, a Monreale il convegno "AlimentiAmo la vita"


                             Si svolgerà sabato 13 e domenica 14 settembre 2014, con inizio alle ore 11.00, a Monreale, presso l’eremo di Poggio San Francesco “AlimentiAMO LA VITA” una kermesse sulla dieta del mediterraneo organizzata dall’Associazione “Mons Realis” in collaborazione con I.Di.Med.



Scopo dell’evento sarà rappresentare le specificità dello stile di vita riconosciuto patrimonio dell’UNESCO evidenziandone gli aspetti identitari, salutistici e culturali. Il programma dell’evento, notevolmente articolato, prevede una parte convegnistica che vedrà, fra gli altri, la partecipazione di Lucia Borsellino, Assessore regionale per la salute, di Ferdinando Toia, Direttore Centro Maria Immacolata, di Piero Capizzi, Sindaco di Monreale, di Paolo Calabrese dell’Assessorato Beni Culturali e Identità Territoriale, di Sami Ben Abdeladi, della Presidenza Regione Sicilia, di Marcello Messeri, presidente del GAL Terre Normanne, di Rocco Di Lorenzo, Unione delle Associazioni no profit, di Bartolo Fazio, Consigliere delegato di I.Di.Med, di Angelo Granà, Presidente dell’Associazione “Mons Realis”, di Magda Culotta, Deputato nazionale e Sindaco di Pollina, di Salvatore Martorana, Presidente del Comitato Anci SiciliaxExpo 2015, di Aurelio Angelini, Presidente del Comitato Scientifico dei Comuni Unesco Sicilia, di Nino Sutera della LURSS – Libera Università Rurale dei Saperi e dei Sapori e di Maurizio Artusi di CucinArtusi.
L’importante iniziativa, mirata ad aggregare le eccellenze enogastronomiche del nostro territorio salvaguardandone la dimensione culturale e la biodiversità, prevede, inoltre l’allestimento della “Fiera della salute”, nella quale una trentina di aziende e associazioni del settore agroalimentare, provenienti da tutta la Sicilia, esporranno i propri prodotti offrendone una degustazione nella pausa pranzo. Sarà possibile, quindi, conoscere, scoprire, degustare, acquistare e nutrirsi dei prodotti della nostra amata terra di Sicilia, le cui proprietà organolettiche saranno ampiamente descritte nel corso del convengo

mercoledì 3 settembre 2014

Il futuro dell’agricoltura è nel ritorno alle radici

                                                                                       Negli ultimi decenni il sistema alimentare degli Stati Uniti e della maggior parte delle altre nazioni si è globalizzato. Il cibo viene scambiato in quantità enormi: non solo il cibo di lusso (come caffè e cacao), ma anche le derrate alimentari di base come grano, mais, patate e riso. 

La globalizzazione del sistema alimentare ha portato dei vantaggi: la popolazione dei paesi ricchi ha ora accesso ad un’ampia varietà di cibi in ogni momento, inclusi frutta e verdura fuori stagione (come le mele in maggio o gli asparagi in gennaio) ed alimenti che non possono essere prodotti localmente (come l’avocado in Alaska). Trasporti a lungo raggio rendono possibile la distribuzione del cibo da aree in cui abbonda a luoghi in cui è scarso. Mentre nei secoli passati il fallimento regionale di una coltivazione poteva portare ad una carestia, ora i sui effetti possono essere neutralizzati tramite l’importazione, relativamente poco costosa, di cibo dall’estero. Tuttavia, la globalizzazione del sistema alimentare crea anche una vulnerabilità sistemica. Al crescere del prezzo del carburante, aumentano i costi dei prodotti d’importazione. Se la disponibilità di carburanti fosse drasticamente ridotta da qualche evento economico o geopolitico transitorio, l’intero sistema potrebbe collassare. Un sistema globalizzato è inoltre più soggetto a contaminazioni accidentali, come visto recentemente con il caso della melamina, una sostanza tossica finita nel cibo in Cina. Il miglior modo per rendere il nostro sistema alimentare più resiliente contro questi rischi è chiaro: decentralizzarlo e rilocalizzarlo.
La rilocalizzazione avverrà inevitabilmente, prima o poi, come effetto del calo della produzione del petrolio, dato che non esistono sorgenti di energia alternative in vista che possano essere introdotte in tempi brevi per prendere il posto dei derivati petroliferi. Pertanto se vogliamo fare in modo che il processo di Transizione si sviluppi in modo positivo, piuttosto che catastrofico, bisogna che sia pianificato e coordinato. Questo richiederà uno sforzo appositamente mirato a costruire infrastrutture dedicate all’economia alimentare regionale, adatte a sostenere un’agricoltura diversificata ed a ridurre il quantitativo di combustibile fossile che è alla base della dieta Nordamericana.
Rilocalizzare significa produrre localmente una frazione maggiore del fabbisogno alimentare di base. Nessuno dice che dovremmo eliminare completamente il commercio alimentare: questo danneggerebbe sia gli agricoltori che i consumatori. Piuttosto, è necessario fissare delle priorità alla produzione inmodo tale che le comunità possano fare maggiore affidamento su fonti locali per gli alimenti di base, mentre le importazioni a lungo raggio dovrebbero essere riservate ai cibi di lusso. Le derrate alimentari basilari legate alla tradizioni locali, generalmente di basso valore e di conservabili a lungo, dovrebbero venire coltivate in tutte le regioni per motivi di sicurezza alimentare. Una simile decentralizzazione del sistema alimentare produrrà maggiore resilienza sociale, capace di contrastare le fluttuazioni del prezzo del combustibile. Saranno anche minimizzati, ove appaiano, i problemi relativi alla contaminazione del cibo. Nel contempo, rivitalizzare la produzione locale di alimenti aiuterà a rinnovare l’economia del territorio. I consumatori potranno godere di cibo di qualità migliore, più fresco e di stagione. Sarà ridotto l’impatto dei trasporti sul clima. Ogni nazione e regione dovranno escogitare la propria strategia di rilocalizzazione del sistema alimentare basandosi su un’ampia valutazione iniziale di debolezze e punti di forza. I punti deboli dovrebbero essere identificati tramite l’analisi delle numerosissime modalità di dipendenza dell’approvvigionamento locale di alimenti dalla disponibilità e dal costo del combustibile fossile, attraverso tutte le fasi del sistema di produzione agroalimentare e della filiera distributiva. Le opportunità saranno diverse a seconda delle comunità e delle regioni agricole, benché esistano molte azioni che i governi possono intraprendere quasi ovunque:

• Incoraggiare la produzione ed il consumo del cibo locale offrendo supporto alle strutture a questo scopo necessarie come i mercati contadini (farmers’ market).
• Inserire all’interno del sistema di gestione dei rifiuti installazioni per la raccolta dei residui di cibo da convertire in compost, biogas e mangime animale, da fornire a contadini e allevatori locali.
• Richiedere che una percentuale minima degli acquisti di cibo per scuole, ospedali, basi militari e carceri sia approvvigionata entro un raggio di 100km.
• Creare una normativa sulla sicurezza alimentare in base alla scala di produzione e distribuzione, in modo che un piccolo produttore che vende i suoi prodotti direttamente non sia soggetto alle stesse onerose regole di una multinazionale.
Gli agricoltori stessi devono ripensare le loro strategie: la maggior parte delle aziende orientate all’esportazione dovrà spostare la produzione verso alimenti di base per il consumo locale e regionale, uno sforzo che richiederà sia una analisi dei mercati locali che la scelta di varietà adatte per questi mercati; il movimento Community Supported Agriculture (Supporto all’Agricoltura di Comunità-CSA) fornisce un modello di organizzazione aziendale che si è dimostrato vincente in diverse aree. I piccoli produttori che affrontano significativi esborsi di capitali durante questa transizione possono costituire cooperative informali per l’acquisto di macchinari ad esempio trebbiatrici per i cereali, mulini o presse per la lavorazione dei semi oleosi o microturbine idrauliche per produrre elettricità. La scelta di rilocalizzare il sistema alimentare sarà più difficile per alcune nazioni e regioni rispetto ad altre. Dovrebbero essere incoraggiate la creazione di orti urbani e anche di piccoli allevamenti (di polli, anatre, oche e conigli) all’interno delle città, ma anche così sarà necessario approvvigionare la maggior parte del cibo dalla campagna circostante, trasportandolo alle comunità urbane e periurbane senza utilizzare combustibile fossile. In questo senso la rilocalizzazione dovrebbe essere vista come un processo e uno sforzo generale e non come un obiettivo assoluto da raggiungere.

*Estratto da “La Transizione Agroalimentare”